The storyteller
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The storyteller

Storie di vita e di musica

  1. 480 pagine
  2. Italian
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The storyteller

Storie di vita e di musica

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Informazioni sul libro

"E così, ho scritto un libro.Avevo accarezzato l'idea per anni e mi erano state offerte tante opportunità piuttosto discutibili ("È un gioco da ragazzi! Fai solo 4 ore di interviste, trovi qualcuno che lo scriva, metti la tua faccia in copertina e voilà!"), ma io volevo scrivere queste storie come ho sempre fatto: di mio pugno.La gioia e l'euforia che ho provato scrivendo questo libro è molto simile a quella che sento quando riascolto una canzone che ho registrato e che non vedo l'ora di condividere con il mondo, o quando leggo un mio vecchissimo appunto su un taccuino macchiato, o ancora quando sento la mia voce che rimbalza tra i poster dei Kiss nella mia camera da bambino.Questo non significa che lascerò la musica, ma è un'occasione preziosa per raccontare cosa vuol dire essere un bambino di Springfield, Virginia, che vede tutti i suoi sogni realizzarsi attraverso la musica. Dal viaggiare assieme agli Scream a 18 anni agli anni nei Nirvana e nei Foo Fighters, dalle jam-session con Iggy Pop all'emozione di suonare alla cerimonia degli Oscar, dai balli scatenati con gli AC/DC al privilegio di suonare la batteria per Tom Petty e al giorno dell'incontro con Sir Paul McCartney alla Royal Albert Hall. E ancora: dalle favole della buonanotte con Joan Jett a un incontro casuale con Little Richard, fino al volare dall'altra parte del mondo per una notte epica con le mie figlie e tante altre storie.Ho fatto il punto di tutte le esperienze che ho avuto nella vita - incredibili, difficili, divertenti ed emozionanti - e ho deciso che era ora di metterle finalmente su carta."

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Informazioni

SECONDA PARTE

LA STRADA

SARÀ MEGLIO CHE TU SIA BRAVO

«Ok… Allora, vuoi suonare i Led Zeppelin, gli AC/DC o cosa?»
Accovacciato su una sedia piazzata direttamente di fronte alla mia batteria c’era nientemeno che l’impareggiabile Franz Stahl, il leggendario chitarrista della band hardcore punk rock più cool di Washington D.C., gli Scream. Da diciassettenne fan sfegatato qual ero, riuscivo a malapena a contenere l’entusiasmo; praticamente tremavo sullo sgabello mentre stringevo le mie bacchette scheggiate nelle mani callose fin quasi a stritolarle, pronto a suonare con il mio idolo. Era penosamente chiaro che la mia eccitazione non fosse ricambiata. Franz sembrava galvanizzato da quell’audizione quanto lo sarebbe stato per una visita dal dentista.
«No… Facciamo le canzoni degli Scream!» gli risposi praticamente urlando. Un po’ scioccato, Franz sollevò i suoi occhioni blu dalla chitarra e mi disse: «Ah sì? E quali sai?».
Era il momento che aspettavo. Lo fissai dritto negli occhi e, con il mio miglior tono alla Clint Eastwood, gli dissi: «Le so tutte…».
Presto lo scantinato squallido e buio di quell’head shop di Arlington, in Virginia, esplose in una furia assordante di lamenti di chitarra e BPM astronomici. Suonammo tutto il loro repertorio, album dopo album, compresi alcuni brani che non erano ancora usciti (sì, avevo anche qualche bootleg). Più andavamo avanti, più l’umore di Franz migliorava, perché vedeva che non avevo quasi mai bisogno di indicazioni, indipendentemente da quale pezzo stessimo facendo. Non poteva certo sapere che le sue canzoni mi si erano impresse a fuoco nella mente. Dopotutto, a parte la mia unica lezione con una leggenda del jazz locale («Stai tenendo le bacchette al contrario, David»), praticamente avevo imparato a suonare la batteria ascoltando gli album degli Scream.
Il mio battesimo punk rock era avvenuto solo pochi anni prima, ma da subito avevo cominciato a collezionare dischi con la foga insaziabile di un tossico, spendendo tutto ciò che avevo in tasca per comprare qualsiasi album trovassi nella sezione hardcore di Olsson’s Books and Records a Georgetown, uno dei pochi negozi di dischi che da quelle parti vendeva vera musica underground. Fino all’ultimo centesimo di quanto guadagnavo lavorando da Shakey’s Pizza o tagliando l’erba dei vicini l’avevo speso per accumulare una collezione di album rumorosi, veloci e splendidamente primitivi. Andavo a comprarli in preda all’eccitazione, con banconote sgualcite e monete contate a una a una, per poi correre a casa, metterli sul giradischi e suonarli a ripetizione mentre ispezionavo ogni dettaglio della copertina. Mia madre era molto tollerante e mi permetteva di ascoltare qualsiasi cosa mi piacesse (compreso l’occasionale gruppo death metal satanico).
Gli Scream, però, erano diversi. Il loro senso della musicalità e della dinamica era più profondo e ampio di quello della maggior parte delle altre band hardcore; sapevano attingere con estrema naturalezza al rock classico, al metal, allo ska e persino al reggae. E, cosa ancora più importante, le loro canzoni erano piene di melodie incredibilmente orecchiabili che risvegliavano il fan dei Beatles appisolato dentro di me; melodie che la maggior parte delle altre band punk dovevano sostituire con rumori atonali per pura incapacità di scrivere canzoni. Inoltre, il loro batterista, Kent Stax, era una forza rudimentale della natura. Era chiaro che conoscesse il suo strumento molto meglio della maggior parte dei suoi colleghi autodidatti; era di una velocità e di una precisione inarrivabili. Una specie di Buddy Rich con le Dr. Martens e la giacca di pelle. Si vedeva che si era fatto i suoi paradiddles.
Con i miei cuscini e le mie enormi bacchette da banda di paese, mi sedevo e suonavo a tempo con i dischi degli Scream, facendo del mio meglio per emulare il drumming fulmineo di Kent (non è facile), finché persino le finestre della mia camera da letto non grondavano di sudore. All’epoca non avevo un mio gruppo, tantomeno una batteria, ma non importava. Chiudevo gli occhi e immaginavo di essere il batterista degli Scream, mentre suonavo le loro canzoni come se fossero le mie.
Formatisi nel 1979 dopo aver visto i leggendari Bad Brains esibirsi al Madam’s Organ, un piccolo locale di downtown, gli Scream erano un gruppo di amici che si erano conosciuti alle superiori ed erano molto più vecchi di me. Nel corso degli anni erano diventati non solo idoli locali rispettati da tutti i musicisti della scena, ma anche uno dei gruppi punk più importanti d’America e io andavo a sentirli ogni volta che potevo. Il cantante, Pete Stahl, si muoveva sul palco come un Jim Morrison vagabondo e posseduto, il bassista, Skeeter Thompson, fissava i groove con un tempo concreto, e i chitarristi, Franz Stahl e Harley Davidson (sì, avete letto bene), erano un duo strabiliante di ritmi scrocchianti e assoli. Per quanto patologico possa sembrare, ho spesso fantasticato di essere tra il pubblico a un loro concerto e che prima dell’inizio l’altoparlante annunciasse: «Ci scusiamo per l’inconveniente ma, a causa di un’emergenza occorsa al batterista, stasera gli Scream non potranno suonare. Cioè… a meno che tra il pubblico non ci sia qualcuno in grado di sostituirlo…» e a quel punto saltavo sul palco, mi sedevo alla batteria e salvavo la serata. Puerile, lo so, ma, oh, un ragazzino sarà pure libero di sognare, no?
Con il tempo le mie abilità di percussionista amatoriale sui cuscini travalicarono i confini della mia camera da letto. Cominciai a suonare una batteria vera in gruppi veri che si chiamavano tipo Freak Baby, Mission Impossible e Dain Bramage. Miglioravo in modo esponenziale. Affinando tutti i trucchi che avevo imparato dai dischi, ero diventato una versione imbastardita di tutti i miei batteristi preferiti. Quando mi sedevo dietro lo strumento ci andavo giù veramente pesante, perché ero abituato a esercitarmi sui cuscini, che è come correre sulla sabbia per un atleta. Rompevo pelli e piatti a un ritmo allarmante e penosamente costoso, al punto che ormai ero diventato un habitué del negozio di musica del quartiere, per la gioia degli impiegati annoiati che a cadenza settimanale si prendevano i miei soldi.
Un giorno, mentre passavo davanti alla bacheca piena di volantini e annunci sul muro accanto alla porta d’ingresso del negozio, con la coda dell’occhio notai un foglio fotocopiato che diceva:
SCREAM CERCANO BATTERISTA.
CHIAMARE FRANZ.
“Impossibile” pensai. Primo, perché mai una band di fama internazionale come gli Scream dovrebbe appendere un annuncio per un batterista in uno squallido negozio di musica di Falls Church, in Virginia? Secondo, come avrebbero fatto a trovarne uno in grado anche solo di avvicinarsi a come suonava Kent Stax nei loro dischi incredibili? Mi segnai comunque il numero e decisi di chiamarli, anche solo per dire ai miei amici che avevo parlato al telefono con quel Franz Stahl. Avevo diciassette anni, andavo ancora alle superiori e suonavo in un gruppo, i Dain Bramage, con due dei miei più cari amici, quindi non ero sicuramente qualificato né pronto a impegnarmi per entrare a pieno titolo in una band affermata come gli Scream, ma non potevo perdere l’occasione di suonare con loro almeno una volta, giusto per vantarmi. La mia fantasia – ridicola, puerile – di piombare sul palco e salvare un loro concerto aveva forse evocato questo inatteso capriccio del destino. In fondo, dovevo lasciare che l’universo facesse la sua parte.
Corsi a casa e composi nervosamente il numero dal telefono sulla scrivania di mia madre, spingendo da parte i compiti non ancora corretti. Con mio grande stupore, Franz rispose. Dopo che gli illustrai, balbettando, il mio curriculum immaginario (balle), mi disse che al momento la band non aveva un posto dove provare ma che mi avrebbe richiamato non appena l’avessero trovato. Mi sembrò un buon segno e aspettai che si rifacesse vivo. Naturalmente, in quella prima chiamata mi ero “dimenticato” di menzionare alcune cose piuttosto importanti. La più evidente? La mia età. Franz non avrebbe mai accettato che un diciassettenne senza macchina che viveva ancora con la mamma entrasse nel gruppo, avevo pensato, e così avevo fatto quello che qualsiasi giovane rocker ambizioso avrebbe fatto: gli avevo raccontato una palla e avevo fatto finta di avere ventun anni.
Dopo alcune settimane di silenzio, pensai di fare un altro tentativo, nella speranza che magari Franz avesse semplicemente perso il mio numero. Rispose la sua ragazza e, dopo una lunga chiacchierata, mi promise che mi avrebbe fatto richiamare (come ho poi imparato grazie alla saggezza che viene con l’età, se vuoi qualcosa da un musicista, chiedi sempre alla sua ragazza). Funzionò. Nel giro di poche ore ricevetti la sua telefonata e fissammo un appuntamento, optando per lo squallido scantinato di Arlington.
Implorai mia sorella di prestarmi il suo Maggiolino bianco del 1971 e, miracolosamente, riuscii a infilarci dentro tutta la batteria, come in una folle partita a Tetris (livello avanzato). Rimaneva a malapena lo spazio per respirare e per cambiare le marce, a fatica, ma niente mi avrebbe impedito di prendere parte all’audizione. Mentre sfrecciavo in autostrada, ero esaltatissimo al pensiero che sarei stato NELLA STESSA STANZA con Pete, Skeeter, Harley e Franz e che, come da copione nelle mie fantasie rock più sfrenate, li avrei fatti impazzire con i miei numeri da fuoriclasse.
Al mio arrivo fui accolto da Franz, solo da Franz. Di sicuro la mia voce da nerd, chiaramente non ventunenne, doveva aver abbassato le sue aspettative al punto da fargli avvertire gli altri e risparmiare loro la tortura di un’audizione che sarebbe stata senza dubbio una perdita di tempo. Il mio sogno di suonare con gli onnipotenti Scream andò in frantumi all’istante, ma questo non mi impedì di picchiare sulla batteria come se in gioco ci fosse la mia vita.
Perché era così.
Alla fine Franz sembrò davvero colpito e mi chiese se volevo tornare a suonare una seconda volta. Non potevo crederci. Quantomeno, il primo round l’avevo superato. Sentendomi come se avessi appena vinto alla lotteria, accettai con gioia, rimisi con cura la batteria nel Maggiolino e tornai a casa con il cuore che mi scoppiava di orgoglio.
Alla seconda audizione c’era il gruppo al completo. Franz doveva aver detto alla band che valeva la pena sentirmi e così erano venuti tutti, curiosi di vedere questo ragazzino smilzo e sconosciuto, che sapeva tutte le loro canzoni a memoria, fare a pezzi la sua Tama da quattro soldi come se stesse suonando in uno stadio strapieno. A quel punto, il gioco si era fatto serio. Ero circondato da facce che avevo visto solo sulle copertine dei dischi o su un palco, mentre ballavo come un indemoniato e cantavo a squarciagola in mezzo al pubblico. In un attimo, il suono impressionante degli Scream stava facendo tremare le pareti di quel sudicio scantinato, anche se il drumming rudimentale di Kent era stato sostituito dalle mie implacabili bastonate stile Neanderthal, rafforzate da anni di corsa sulla sabbia.
Alla fine di quella seconda prova trionfale, cominciai a capire che la mia idea di propormi come nuovo batterista degli Scream giusto per potermi vantare di aver suonato con loro almeno una volta si stava trasformando in qualcosa di più serio. Erano tutti d’accordo che il batterista giusto fossi io. Così mi trovai di fronte alla concreta possibilità di unirmi a una band affermata che si era fatta un nome con un repertorio da urlo, che aveva un seguito fedele e che andava in tournée non solo in tutto il Paese ma anche nel resto del mondo. Il mio sogno si stava realizzando.
ERO A UN BIVIO. A scuola andavo malissimo e a ogni pagella il mio futuro prendeva sempre di più le sembianze di una vita fatta di lavori manuali e monotonia di provincia. Il mio cuore era rivolto esclusivamente alla musica, la mia sola e unica passione, e a farne le spese erano i voti (e le presenze in classe). Un boccone amaro da ingoiare, considerato che mia madre era un’insegnante molto amata nel liceo del nostro quartiere e io, il suo unico figlio maschio, avevo decisamente imboccato un vicolo cieco che, nel migliore dei casi, mi avrebbe condotto nell’ufficio del consulente scolastico o nel peggiore all’espulsione. Poi c’era mio padre, che sognava per me un futuro da onesto uomo d’affari repubblicano, il più assurdo di tutti gli scenari. Sono sicuro che a quel punto aveva abbandonato ogni speranza di vedermi al Campidoglio, ma era pur sempre mio padre e fin dall’infanzia aveva inculcato in me il timore di deluderlo. E c’erano anche i miei amici dei Dain Bramage. Con Dave Smith e Reuben Radding ci conoscevamo da anni e il nostro piccolo trio spaccava. Non avevamo ancora fatto un tour vero e proprio e non avevamo nemmeno una fan base locale solida, ma di certo c’era che eravamo una band giovane e ce la mettevamo tutta. Con il senno di poi, mi piace pensare che fossimo “troppo avanti”; per il modo in cui mescolavamo l’energia punk rock alle melodie dei REM, dei Mission of Burma e degli Hüsker Dü, il nostro sound si sarebbe inserito perfettamente nell’esplosione underground dei primi anni Novanta. Ma a quel tempo eravamo ancora un po’ fluttuanti.
Unirmi agli Scream voleva dire stravolgere completamente la mia esistenza: avrei dovuto lasciare la scuola, con lo sgomento di mia madre; sacrificare il rapporto già teso con mio padre, che avrebbe sicuramente disapprovato la mia scelta; e abbandonare il gruppo che avevo formato con i miei migliori amici. Era un atto di fede di proporzioni esorbitanti, senza alcuna garanzia. Mi sarei fatto terra bruciata tutt’attorno. Ci pensai su a lungo e alla fine mi mancò il coraggio. Forse perché non avevo abbastanza fiducia in me stesso. Così rifiutai educatamente, ringraziandoli, e tornai alla mia vita di prima, diretto sempre più velocemente verso il fondo del mio vicolo cieco.
Qualche mese dopo, vidi che gli Scream avrebbero suonato a downtown, al 9:30 Club, un punto di riferimento per la musica underground di Washington D.C. Con una capienza legale di appena centonovantanove persone, il 9:30 Club era un locale buio e squallido, ma era la nostra chiesa, nel corso degli anni ci avevo visto dozzine di concerti e ci avevo anche suonato. Decisi di andare, dato che ormai li consideravo miei amici, malgrado dentro di me sapessi benissimo che sarebbe stata un’esperienza straziante, perché su quel palco avrei potuto esserci anch’io. Ma mi ero tirato indietro semplicemente perché avevo avuto paura. Paura del cambiamento. Paura dell’ignoto. Paura di crescere.
Le luci si abbassarono, la band prese posto e Kent Stax attaccò con l’intro di rullante di Walking by Myself, uno dei pezzi più recenti che, con un muro di chitarre e un groove pesante, evocava il fuoco degli Stooges e degli MC5. Nel locale gremito, l’energia era come una molla pressata pronta a scattare e quando il resto del gruppo si unì a Kent la sala esplose…
Hey you!
Well take a look at me
Have you forgotten what’s real or what started our scene
I’ll tell you what I mean
Am I screaming
For something to be?
Have all my friends
Turned their backs on me?
I’m out here walking by myself
I’m out here talking to myself…
Ehi, tu!
Guardami negli occhi
Ti sei dimenticato cos’è vero e com’era all’inizio
Adesso te lo spiego
Sto urlando
per qualcosa?
Tutti gli amici
mi hanno voltato le spalle?
Sono qui fuori e cammino da solo
Sono qui fuori e parlo da solo…
Cantavo insieme a loro a squarciagola e all’improvviso mi fu tutto chiaro. Rimpiansi immediatamente la mia decisione di non essere parte di qualcosa di così catartico. Il cuore mi balzò in gola come se fosse stato sparato da un cannone e in quel preciso istante scelsi il mio destino: quella era la mia band, il mio futuro, la mia vita. Il bivio a cui mi trovavo, nella mia esistenza senza via d’uscita, svanì come per incanto e decisi che quell’atto di fede l’avrei compiuto, lasciandomi tutto alle spalle per rincorrere la sensazione che mi percorreva le vene ogni volta che le duecento persone stipate in quella sala esplodevano in un’ondata di caos e gioia.
A fine concerto, dissi alla band che ero stato un idiota a rifiutare la loro proposta e che avevo cambiato idea. Dopo un po’ di corteggiamento e dopo averli convinti che quella volta facevo sul serio, mi accolsero a braccia aperte. Kent era diventato padre da poco e aveva deciso di dedicarsi alla famiglia. La sua scelta di seguire una nuova strada ne aveva aperta una per me.
Ora dovevo soltanto ribaltare la mia vita.
La più grande preoccupazione che avevo era mia mamma, naturalmente. La donna che aveva sacrificato così tanto per me, che aveva dedicato ogni secondo della sua esistenza a farmi stare bene e che, da quando ero nato, non aveva fatto altro che amarmi. Non volevo deluderla, perché oltre a essere mia madre era anche la mia migliore am...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. THE STORYTELLER
  4. INTRODUZIONE. ALZA IL VOLUME
  5. PRIMA PARTE: LA SCENA
  6. SECONDA PARTE: LA STRADA
  7. TERZA PARTE: IL MOMENTO
  8. QUARTA PARTE: LA GIOSTRA
  9. QUINTA PARTE: LA VITA
  10. CONCLUSIONE. UN PASSO ALLA VOLTA
  11. RINGRAZIAMENTI
  12. Copyright