Il sangue sotto la neve
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Il sangue sotto la neve

Il romanzo degli alpini nella Grande Guerra

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Il sangue sotto la neve

Il romanzo degli alpini nella Grande Guerra

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Antonio Renzi è un giovane ufficiale degli alpini. Quando l'Italia entra nella Grande Guerra il 24 maggio 1915 ha poco più di vent'anni, ma nel deserto della Libia ha già conosciuto la violenza e la morte. Ora tutto cambia, e dal caldo e dalle tempeste di sabbia deve passare alle bufere di neve delle Dolomiti. Antonio è nato a Firenze, e oltre alle difficoltà del terreno e del clima, e ai colpi dei fucili e dei cannoni austro-ungarici, deve superare la diffidenza degli alpini nati in Veneto, Piemonte e Lombardia, che si muovono sulla roccia e sulla neve come a casa propria. Il suo compito è di studiare il territorio, analizzare le operazioni, progettare attacchi a sorpresa. Una missione delicata, che gli è stata affidata dal colonnello Boursier, che vent'anni prima, sul campo di battaglia di Adua, era sopravvissuto a un disastro causato dalle mappe imprecise e dalla penuria di informazioni. Tra il 1915 e il 1918 Antonio attraversa il fronte delle Alpi, dal Cevedale fino alle Dolomiti e all'Isonzo. È protagonista e testimone di molti eventi decisivi, dalla conquista del Passo della Sentinella a quella del Corno di Cavento, dalla mina del Castelletto alla catastrofe di Caporetto. Incontra personaggi storici come Cesare Battisti, Rudyard Kipling e Gabriele D'Annunzio, e solo il maltempo gli impedisce di partecipare al Volo su Vienna. Accanto alla storia di Antonio si dipanano quelle dell'infermiera Francesca, della quale il protagonista si innamora, e di decine di alpini che provengono da ogni regione d'Italia. Alla ricostruzione precisa dei maggiori eventi della Guerra Bianca, Stefano Ardito unisce un affresco vivido dell'umanità varia ed eterogenea che quella guerra l'ha combattuta. Lo fa con coraggio, mostrando come dalle privazioni della vita di trincea possano maturare frutti molto diversi. Grettezza ed eroismo, isteria e lucidità, egoismo e abnegazione. Restituendo con forza quell'insondabile groviglio di contraddizioni che è l'essere umano.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831805124
Argomento
History
1

Cima Undici

Tremila metri di quota, un vento bastardo e glaciale faceva turbinare la neve. Non si distingueva l’orizzonte, stretto tra il grigio del cielo e quello delle vette incrostate di ghiaccio.
Agli uomini di vedetta, imbacuccati come mummie, sembrava che il mondo finisse a pochi metri dal naso. A volte, senza preavviso, una raffica di vento apriva per un momento le nubi e mostrava delle cime lontane. Poi il sipario si chiudeva di nuovo.
Non era sempre così, su quelle creste. Qualche giorno prima, in una gelida mattinata di sole, l’azzurro intenso e violento del cielo aveva fatto per ore da sfondo al candore abbacinante della neve. All’orizzonte, in qualunque direzione si guardasse, comparivano centinaia di vette. Sembravano una flotta di vascelli fantasma, in viaggio verso terre lontane.
D’estate, perché anche lassù prima o poi arrivava l’estate, quei picchi di pietra diventavano del colore del ferro. Un occhio attento, in mezzo al grigio delle pareti verticali, poteva scoprire il chiaro dei canaloni ghiaiosi. Sui terrazzini, e nelle fessure della pietra, delle pennellate di verde tradivano la presenza di un po’ d’erba. Crescevano anche dei piccoli fiori, lassù. Abbassando lo sguardo verso valle, le foreste di abeti che d’inverno erano imbiancate di neve prendevano una tinta verde scura, che contrastava con quella più chiara dei prati.
Anche dalle cime più alte, aguzzando lo sguardo, si scoprivano baite, fienili, vacche al pascolo, e più lontano campanili e paesi. Le linee curve o rette delle strade univano gli edifici. C’erano uomini e donne laggiù, c’era la vita.
Dall’altra parte dei monti, nelle valli dove si parlava tedesco, le guglie di dolomia che sbarravano l’orizzonte verso sud aiutavano da secoli i contadini a sapere a che punto fosse arrivato il giorno. Gli abitanti di Sexten, il primo borgo oltre il Passo di Monte Croce, le avevano battezzate come le ore di una gigantesca meridiana. Zehner, Elfer, Zwölfer, Einser: Cima Dieci, Cima Undici, Cima Dodici, Cima Una.
Per la gente di Dosoledo e Padola, i borghi più alti del Comelico, quelle vette chiudevano l’orizzonte verso nord, e non potevano fornire lo stesso servizio. Da secoli, oltre a fare da sfondo alla vita di tutti i giorni, erano utili solo ai cacciatori di camosci, che affrontavano le loro balze rocciose in cerca di prede che diventavano sempre più rare.
Sullo stesso terreno insidioso, i contrabbandieri di tabacco e di sale sfidavano per gran parte dell’anno le milizie confinarie dell’Impero d’Austria-Ungheria e del Regno d’Italia. Il modo in cui le nuvole si avviluppavano intorno alle forcelle e alle cime aiutava i contadini della valle a prevedere come sarebbe stato il tempo, tra qualche ora o il giorno dopo.
Da qualche anno, in estate, dei signori arrivati da Udine, da Venezia o da Padova, e perfino da Milano o da Roma, raggiungevano il Comelico, così come il Cadore, per ammirare da vicino quelle torri e quelle pareti di roccia. Alcuni di loro provavano a riprodurre quelle visioni su una tela, utilizzando un pennello e una tavolozza di colori. Altri acquistavano le fotografie in bianco e nero che Tonio, il primo proprietario di una macchina e di un treppiede della valle, aveva iniziato a scattare e a vendere da qualche anno.
Qualcuno tra i visitatori del Comelico tentava di scalare quelle cime, ingaggiando come guide i più agili tra i cacciatori di camosci e i contrabbandieri della valle. Altri aspiranti alle vette arrivavano ogni estate da Vienna, da Monaco di Baviera o da Innsbruck, traversando il Passo di Monte Croce. Questi ultimi si facevano accompagnare da guide tirolesi. Fino allo scoppio della guerra, i più bravi nell’affrontare quelle rocce da camosci erano stati proprio loro.
* * *
Per gli uomini del Tirolo, sudditi di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria e re d’Ungheria, la guerra mondiale era iniziata nell’estate del 1914. A migliaia, erano stati spediti a combattere e a morire tra le rocce dei Carpazi, o tra gli acquitrini e le foreste della Galizia. Nella primavera successiva, dopo l’entrata nel conflitto dell’Italia dalla parte della Gran Bretagna e della Francia, molti battaglioni dell’esercito imperiale erano tornati in fretta e furia sulle Alpi, per schierarsi contro il nuovo nemico.
Per difendere il confine dall’avanzata degli Italiener erano stati arruolati anche i ragazzi sotto i diciott’anni, e i vecchi che ne avevano più di cinquanta. Alcuni indossavano l’elegante divisa grigioazzurra dei Kaiserjäger, i cacciatori imperiali, altri quella più rozza degli Standschützen, le milizie valligiane. Altri ancora avevano giacche di lana e pantaloni di velluto cuciti in casa, e rattoppati decine di volte.
Gli alpinisti del tempo di pace, borghesi o di famiglia nobile, erano rimasti diversi dagli altri, ed erano diventati ufficiali. I contadini e i malgari del Tirolo, come quelli del Salisburghese e della Carinzia, erano soldati semplici, o tutt’al più caporali.
Ad aprire la via sulle crode e a difendere le postazioni più impervie erano le guide alpine e i migliori cacciatori del tempo di pace, arruolati come sottufficiali. A volte, a costoro, sembrava di fare ancora il mestiere di un tempo. Con una paga inferiore, però, e con il rischio di essere abbattuti da una fucilata o da una raffica di mitraglia italiana.
Nel Comelico, ai piedi delle cime tagliate dal fronte, i militari italiani indossavano divise di fogge e colori diversi. I fanti, spesso arrivati da province lontane, presidiavano il fondovalle e i paesi, e sorvegliavano in armi la strada che saliva tra i boschi verso il Passo di Monte Croce e il Tirolo. Quando ce n’era bisogno, trasportavano a spalla dei pesanti carichi fino ai piedi dei monti.
Gli artiglieri si occupavano dei pezzi da 70 e 75 millimetri, puntati verso le creste e le vette, e di quelli di grosso calibro in grado di tirare al di là delle montagne, verso le valli tirolesi. Nell’estate del 1915, come avevano raccontato con toni trionfali i bollettini italiani, gli alberghi di Sexten e Moos, trasformati in caserme dal nemico, erano stati colpiti e incendiati.
Gli autieri del Regio Esercito guidavano nella polvere, nella neve e nel fango dei monti i pesanti camion Fiat 18, e i più leggeri Fiat 15. I carabinieri, con le loro mantelle e i loro cappelli a lucerna, si muovevano silenziosi, a due a due, in mezzo agli altri. Sembravano coppie di avvoltoi, sempre in cerca di ubriachi da rinchiudere per qualche giorno in galera, e di disertori e disfattisti da sbattere senza troppe storie davanti a un muro.
Più in su, dove la roccia prendeva il posto dei prati, e la neve d’inverno era alta e profonda, le altre specialità lasciavano il posto a dei militari diversi. Indossavano mantelline e pesanti pastrani, ai piedi avevano gli scarponi chiodati. In mano, oltre al fucile, portavano spesso una piccozza o un alpenstock. Sulla testa sfoggiavano un cappello bizzarro, ornato da una penna nera di corvo o d’aquila, che diventava bianca per gli ufficiali superiori.
La maggioranza di loro (alcuni erano dei bòcia, dei ragazzi, altri degli uomini fatti, dai capelli striati di grigio) arrivava da valli lontane delle Alpi, tra la Lombardia, la Liguria e il Piemonte. Molti parlavano dialetti incomprensibili alla gente del Comelico. Altri erano giovani del posto, nati a Pieve di Cadore, a Longarone, a Calalzo o negli altri borghi lungo la valle del Piave. Qualcuno, soprattutto tra gli ufficiali, veniva da più lontano, addirittura da Milano, da Firenze o da Roma. Graduati e militari di truppa sembravano indisciplinati e rissosi, bestemmiavano, fumavano e bevevano troppo. Quando arrivava un ordine, però, erano sempre pronti a scattare e, se necessario, a mettere in gioco la vita.
Alcuni tra i loro ufficiali sfoggiavano barbe lunghe, o armi fuori ordinanza. Di infrazioni alla disciplina se ne sarebbero potute trovare a dozzine, ma i carabinieri non ficcavano volentieri il naso in quei reparti. Erano uomini di montagna, e infatti si chiamavano alpini.
* * *
Sulle rocce della Cima Undici, da giorni, la neve non smetteva di cadere e di vorticare nel vento. Le sentinelle, e gli altri alpini che dovevano restare per qualche minuto all’aperto, se la trovavano nelle scarpe, sotto ai vestiti, sul collo.
Gli altri non se la passavano meglio, in una baracca di legno addossata alle rocce incrostate di ghiaccio.
Il freddo era implacabile, feroce, con una temperatura sconosciuta. L’unico termometro a disposizione dei Mascabroni, gli alpini impegnati in quel paesaggio infernale, si era rotto qualche giorno prima. Ma andava bene così, perché certe cose è meglio non saperle con precisione.
Un centinaio di metri più in basso della vera e propria Cima Undici, la roccia verticale lasciava il posto a un pendio più comodo, il «pianoro». In realtà ci voleva una fantasia galoppante per chiamarlo così. Era un posto da capre, ammesso che qualche capra avesse voglia di arrivare fin lassù. In estate doveva essere una pietraia, interrotta da qualche magra zolla erbosa.
A febbraio i sassi erano completamente sepolti, e uno scivolo di neve e di ghiaccio scendeva fino all’orlo delle rocce che sbarravano la via verso il basso. Lungo il pendio, ripido come lo spiovente di un tetto, saliva in diagonale una fila di gradini scavati nel ghiaccio, affiancati da una corda legata a lunghi picchetti di legno. Serviva per aiutarsi con le mani, sempre che non fossero intorpidite dal freddo e riuscissero a tenere la presa.
Due volte al giorno, qualunque tempo facesse, due alpini di corvée scendevano, assicurati con altre lunghissime corde, per sistemare e pulire quei gradini lavorando di piccozza e di pala. Altri, legati in cordata anche loro, si alternavano a spalare la neve ammucchiata dal vento sopra e intorno alla baracca. Il suo peso, se non l’avessero tolta di mezzo, avrebbe fatto collassare il tetto in poche ore.
Antonio Renzi, fiorentino dell’Oltrarno e capitano degli alpini, era arrivato lassù il 18 febbraio 1916, quasi nove mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia. In quanto ufficiale, ovviamente, era esentato dai lavori di corvée. Ogni volta si stupiva della tranquillità con cui gli uomini – Stragà, Pozzobon, Menegus, Baldini, De Pol, e tutti gli altri di cui non ricordava i cognomi – quando arrivava il loro turno uscissero dalla baracca sereni, nel gelo e nel vento, con un sorriso tirato sulle labbra.
Il resto, da tre giorni e tre notti, era identico per tutti. La bufera che scuoteva con violenza la baracca, la paglia sporca che fungeva da giaciglio, le poche coperte lerce e piene di buchi, i bisogni da fare a turno in uno schifoso bidone di latta, dietro a un paravento di tela gelata. Un po’ di sbobba scaldata sul fornello a benzina, una scatoletta di carne e un pezzo di formaggio a testa a pranzo e a cena, ogni tanto un cicchetto di cognac e un sorso di caffè riscaldato. Il bottiglione di vino rosso che qualcuno era riuscito a issare fin lassù il primo giorno era stato diviso da fratelli, alla faccia dei gradi. Ed era terminato subito.
«Qui gli unici a non congelarsi sono i pidocchi!» aveva sorriso Giovanni Sala, il capitano che comandava quel distaccamento di pazzi. Era nato in Cadore, a pochi chilometri da lì, e con gli uomini si capiva in dialetto. Renzi, più volte, aveva avuto bisogno che qualcuno traducesse per lui.
* * *
Ad Antonio, prima della naia e di quella guerra polare, la montagna tutto sommato piaceva. Da ragazzo, con il padre falegname e con i suoi amici cacciatori, era salito con lunghe e faticose scarpinate sui cocuzzoli intorno a Firenze, dal Monte Morello al Monte Ceceri, quello degli esperimenti di Leonardo da Vinci sul volo. Giornate serene tra fitti boschi di querce, casali di pietra e uliveti, panorami verso la città e il corso scintillante dell’Arno.
Ogni tanto, la gita veniva interrotta dal frullare di una beccaccia, o dal balzo improvviso di una lepre. Qualcuno degli amici del babbo sparava, altri non facevano in tempo, e al ritorno i carnieri erano quasi sempre semivuoti. Completava in bellezza quelle uscite una sosta in un’osteria di collina, tra fette di formaggio e ribollita. Un bicchiere di aspro vino rosso toccava anche al ragazzo.
Un’estate, quando stava per compiere diciott’anni e aveva da poco ottenuto il diploma, Antonio Renzi aveva iniziato a esplorare l’Appennino, intorno al Passo della Futa e più in su, tra il Corno alle Scale e il Libro Aperto. Per arrivare da Firenze alle valli della Lima, del Sestaione e del Reno ci volevano dei lunghi viaggi in treno, o su delle traballanti corriere. Si partiva quasi sempre alla sera, dormire in una locanda o un albergo sarebbe stato insopportabilmente costoso. Ci si metteva in cammino all’alba, dalle stazioni o dai paesi, verso vette che sembravano infinitamente lontane. Anche il ritorno, spesso, avveniva di notte.
Sull’Appennino, rispetto alle colline di Firenze, l’atmosfera e il paesaggio erano più cupi e più seri. Scuri boschi di abeti e di faggi, infiniti crinali di pascoli. Casali e chiesette di pietra che sembravano senza tempo, dirupi rocciosi che tagliavano all’improvviso i pendii. A volte calava una nebbia improvvisa e tenace, capace di far perdere l’orientamento anche in una luminosa giornata di luglio.
Una sera, insieme a un piccolo gruppo di amici, Antonio era salito su un treno che dalla stazione di Santa Maria Novella aveva raggiunto Pietrasanta, ai piedi delle Alpi Apuane. Dal centro, con le sue piazze e le sue statue, una strada correva in linea retta verso Viareggio e la sua spiaggia, il sogno proibito di tanti ragazzi di Firenze.
Antonio Renzi e i suoi amici, invece, avevano volto le spalle al Tirreno, e si erano avviati a piedi in direzione di quei monti rocciosi e bizzarri. Era giugno, faceva un caldo infernale. Un passo dopo l’altro, erano arrivati a Seravezza, seguendo il polveroso stradone dove correvano i camion delle grandi cave di marmo.
In paese si erano concessi una sosta, per mangiare il pane e il formaggio portati da casa e per rinfrescare piedi e facce nell’acqua gelata del fiume. Ma quegli enormi blocchi di pietra, che continuavano a passare sulla strada a pochi metri da loro, sembravano essere stati strappati alla montagna da un gigante. Sembravano dire che le Apuane erano un luogo magico, incitavano i ragazzi a proseguire.
Da Stazzema, un grumo di scure case di pietra aggrappate a un crinale boscoso, Antonio e i suoi amici avevano continuato per un sentiero a saliscendi tra i faggi. Dopo altre due ore di cammino li aveva accolti l’Alpe della Grotta, un rifugio che sembrava una casetta delle fiabe. Dall’alto sorvegliavano il bosco, il rifugio e il sentiero delle torri rocciose dalle forme e dai nomi bizzarri. Il Procinto, i Bimbi, il Monte Nona.
Il mattino seguente, dopo una serata con troppo fumo e troppo vino, e una notte su un tavolato scomodo (Antonio, a quel tempo, non avrebbe saputo immaginare la baracca di Cima Undici e la sua temperatura polare), i ragazzi avevano pagato qualche soldo al Gherardi, il gestore, ed erano partiti per la vetta del Procinto.
Nel primo tratto, in vista del rifugio, avevano ripreso a salire per un comodo viottolo nel bosco. Poi un sentierino a mezza costa li aveva portati tra le rocce. Il percorso, immerso nel profumo dei pini, era facile. Alla loro sinistra, però, c’era il vuoto.
Poco più avanti, ai piedi di una parete a strapiombo, sembrava che l’avventura fosse già terminata. Invece la guida aveva estratto una rozza scala di legno dai cespugli, l’aveva appoggiata alle rocce e l’aveva fissata per sicurezza con una co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL SANGUE SOTTO LA NEVE
  4. 1. Cima Undici
  5. 2. Slavine
  6. 3. Santo Stefano di Cadore
  7. 4. Libia
  8. 5. Ultimi giorni di pace
  9. 6. Monte Nero
  10. 7. Prima dell’assalto
  11. 8. Passo della Sentinella
  12. 9. Donne
  13. 10. Cengia Martini
  14. 11. Traditori
  15. 12. Interrogatorio
  16. 13. La mina del Castelletto
  17. 14. Cesare Battisti
  18. 15. Natale sui Lagorai
  19. 16. Rudyard Kipling
  20. 17. Dal K2 all’Adamello
  21. 18. Francesca
  22. 19. Corno di Cavento
  23. 20. Pasubio
  24. 21. Prima linea
  25. 22. Amore in Riviera
  26. 23. Caporetto
  27. 24. Via da Udine
  28. 25. Sella Nevea
  29. 26. Ritirata
  30. 27. Sbandati
  31. 28. Tagliamento
  32. 29. Rinascita
  33. 30. Gabriele D’Annunzio
  34. 31. Volo senza Vienna
  35. 32. Battaglione skiatori
  36. 33. Pizzo San Matteo
  37. 34. Arnaldo Berni
  38. 35. Fuga tra i crepacci
  39. 36. Vittoria
  40. Copyright