Ricordi, sogni, riflessioni
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Ricordi, sogni, riflessioni

  1. 512 pagine
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Ricordi, sogni, riflessioni

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"L'autobiografia è la mia vita esaminata alla luce delle conoscenze che ho acquisito con le ricerche scientifiche. Tutte e due sono una cosa sola." Una prolungata immersione nelle profondità dell'io, una turbolenta esplorazione dei luoghi più reconditi e inaccessibili della nostra interiorità. Questo ha significato per Carl Gustav Jung portare alla luce i ricordi di una vita e scrivere la propria autobiografia. Un travaglio attraverso il quale lo psichiatra di Zurigo riuscì a far riaffiorare gli intimi legami che univano le idee della maturità, esposte all'interno delle sue opere scientifiche, alle sue più torbide memorie: l'infanzia, i viaggi, le immagini sconvolgenti che ne segnarono le prime esperienze oniriche, la passione per la filosofia, la letteratura e le religioni, gli studi e i primi successi professionali; fino all'incontro con Sigmund Freud, la collaborazione tra i due, le incomprensioni e le rivalità. Pagine in cui Jung racchiuse la sostanza spirituale del proprio insegnamento e tracciò una meravigliosa geografia dell'animo umano.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
ISBN
9788831805032
1

I primi anni

Nel 1875 – avevo allora sei mesi – i miei genitori si trasferirono da Kesswill, sul lago di Costanza, a Laufen, un castello con una canonica nei pressi delle cascate del Reno.
I miei ricordi risalgono al secondo o al terzo anno di vita. Ricordo la canonica, il giardino, la lavanderia, la chiesa, il castello, le cascate, il piccolo castello di Wörth e la fattoria del sagrestano: ricordi frammentari, slegati, senza un nesso apparente, fluttuanti in un mare di incertezza.
Mi si presenta un ricordo, che forse è il primo della mia vita, e infatti è solo un’immagine indistinta. Sono nella carrozzina, all’ombra di un albero, ed è una bella giornata estiva, calda, il cielo è azzurro, e la luce dorata del sole dardeggia attraverso il fogliame; il mantice della carrozzina è alzato, mi sono svegliato da poco, e la bellezza sfolgorante del giorno mi dà un indescrivibile senso di benessere; vedo il sole che splende attraverso le foglie e i fiori dei cespugli, e tutto mi pare meraviglioso, pieno di colori, splendido.
Un altro ricordo: sto nella sala da pranzo, a ponente della casa, seduto su un seggiolone, e col cucchiaio prendo pane e latte: il latte ha un gusto piacevole e un caratteristico odore. Fu quella la prima volta che imparai a conoscere l’odore del latte, e anzi fu quello il momento in cui, per così dire, divenni cosciente di che cos’è un odore. Anche questo ricordo risale a un tempo molto lontano.
Ancora un ricordo: è un’incantevole sera d’estate, e una zia mi dice: «Ora ti mostrerò qualcosa» e mi porta fuori, di fronte alla casa, sulla strada che va a Dachsen; all’orizzonte, lontano, le Alpi sono immerse nell’incendio del tramonto, e si possono vedere assai chiaramente. Sento ancora le parole di mia zia, in dialetto svizzero: «Ora guarda lassù, le montagne sono tutte rosse». È la prima volta che so di guardare le Alpi. Poi mi dice che il giorno seguente i bambini del villaggio andranno in gita scolastica allo Uetliberg, nei pressi di Zurigo: vorrei tanto andarci anch’io, ma – con mio rincrescimento – mi si dice che i bambini piccoli come me non possono parteciparvi, che non c’è niente da fare. Da quel momento lo Uetliberg e Zurigo diventano per me una terra di sogni, irraggiungibile, vicina alle splendide montagne ammantate di neve.
Di un periodo di poco posteriore è quest’altro ricordo. Mia madre mi aveva portato con sé nel Thurgau, in visita da amici che possedevano un castello sul lago di Costanza: non potevo più staccarmi dalla vista dell’acqua, ero affascinato dalle onde che dal battello giungevano sino alla riva, dalla superficie dell’acqua scintillante al sole, dai piccoli solchi tracciati dalle onde sulla sabbia del fondo... Il lago si stendeva a perdita d’occhio, e l’ampia distesa dell’acqua, col suo incomparabile splendore, mi dava un piacere immenso. In quel momento decisi che avrei dovuto vivere vicino a un lago, e mi parve che nessuno avrebbe mai potuto vivere lontano dall’acqua.
Ed ecco ancora un ricordo che si affaccia alla memoria: forestieri, trambusto, eccitazione. La domestica giunge di corsa ed esclama: «I pescatori hanno trovato un cadavere portato giù dalla cascata, e vogliono metterlo nella lavanderia!». Mio padre dice «Sì, sì». Vorrei subito vedere il cadavere, ma mia madre mi trascina via e mi proibisce severamente di andare in giardino; io però aspetto che tutti si siano allontanati, poi di soppiatto esco in giardino e mi dirigo verso la lavanderia. La porta è chiusa, allora giro intorno alla casa, e dietro, dove c’è un canale di scolo che scorre in pendenza, vedo colare sangue e acqua.
Tutto ciò mi sembra estremamente interessante. Non avevo ancora quattro anni.
Ed ecco un’altra scena. Sono irrequieto, febbricitante, e non mi riesce di dormire; mio padre mi tiene in braccio, passeggiando su e giù, e mi canta vecchie canzoni studentesche. Me ne ricordo specialmente una, che mi piaceva e riusciva sempre ad acquietarmi; era il cosiddetto canto del padre della patria, cominciava pressappoco così: «Alles schweige, jeder neige...». Ancora oggi ricordo la voce di mio padre, mentre la cantava standomi vicino nella quiete della notte!
In seguito mia madre mi disse che a quel tempo soffrivo di eczema. La vita coniugale dei miei genitori attraversava un periodo difficile, e la mia malattia, nel 1878, deve aver coinciso con una loro temporanea separazione. Mia madre passò alcuni mesi in un ospedale di Basilea, e suppongo che la sua malattia fosse in parte causata dalle difficoltà della vita matrimoniale. Una zia, Gusteli, nubile e di circa venti anni più anziana di mia madre, la cui assenza mi turbava profondamente, ebbe cura di me. Da allora, per molto tempo, ho sempre sentito con diffidenza la parola «amore». Il sentimento legato alla donna fu per molto tempo di naturale sfiducia. «Padre» significava per me qualcosa di cui ci si può fidare e: impotenza. Questo è lo handicap con cui ho cominciato. Queste impressioni più tardi furono rivedute e corrette, poiché fui deluso da amici nei quali avevo riposto la mia fiducia, e, viceversa, ero diffidente di fronte alle donne e non sono stato deluso.
Durante l’assenza di mia madre si prendeva cura di me anche la domestica, e ancora la ricordo, quando mi teneva in braccio e io poggiavo la testa sulla sua spalla; aveva capelli scuri e un colorito olivastro, ed era molto diversa da mia madre. Mi sembra ancora di vedere i suoi capelli, la pelle scura del collo, il suo orecchio. Tutto ciò mi sembrava assai estraneo, ma anche, stranamente noto; era come se ella non appartenesse alla mia famiglia, ma esclusivamente a me, e in qualche modo facesse parte di tutte le altre cose misteriose che non capivo. Questo tipo di fanciulla in seguito divenne una componente della mia anima:1 lo strano sentimento che suscitava in me, dell’estraneo eppure conosciuto da sempre, fu la caratteristica di quella figura che più tardi simboleggiò per me l’essenza della femminilità.
Del periodo di separazione dei miei genitori è rimasta ancora un’altra immagine nella memoria: in una limpida giornata autunnale una giovinetta graziosa e attraente, bionda, gli occhi azzurri, mi conduce lungo il Reno, oltre le cascate, vicino al castello di Wörth. Intorno a noi vi sono aceri e castagni dorati dal sole, che risplende tra le foglie, e a terra è un tappeto di foglie gialle. Questa fanciulla nutriva una grande ammirazione per mio padre, e in seguito doveva diventare mia suocera: ma non la rividi più fino all’età di ventun anni.
Questi che ho riferiti sono i miei ricordi di accadimenti esterni; i seguenti invece sono immagini più importanti, dalle quali sono sopraffatto, e alcune solo debolmente si ripresentano alla memoria. Ci fu un ruzzolone giù per le scale, per esempio, e una caduta contro lo spigolo di una stufa; ricordo il dolore, il sangue, il dottore che suturava una ferita alla testa, una ferita la cui cicatrice si poteva vedere ancora fino all’ultimo anno di ginnasio. Mia madre mi raccontò anche che una volta, mentre attraversavo il ponte sulle cascate del Reno, a Neuhausen, avendo sporto una gamba sotto la ringhiera stavo per scivolare giù, e fui afferrato appena in tempo dalla domestica. Questi fatti provano che vi era in me un inconscio impulso al suicidio o, forse, un senso di opposizione alla vita.
A quell’epoca soffrivo anche di indefinibili angosce notturne; sentivo che qualcosa si muoveva per la casa. Si udiva sempre lo scroscio sordo delle cascate del Reno, intorno alle quali era una zona di pericolo: molti vi annegavano, e i loro corpi erano trascinati via sulle rocce. Nel vicino cimitero il becchino aveva scavato una fossa, ammucchiando la terra bruna sconvolta; uomini neri e solenni, paludati in lunghe finanziere, con strani cappelli a cilindro e stivaletti neri lucidi, portavano una cassa nera, e c’era mio padre, che indossava l’abito talare, e parlava con voce sonora, mentre intorno le donne piangevano. Mi avevano detto che qualcuno stava per essere sepolto in quella fossa. Persone che prima si erano viste nei dintorni improvvisamente sparivano, e allora sentivo dire che erano state seppellite e che il Signore Gesù le aveva chiamate a sé.
Mia madre mi aveva insegnato una preghiera, che mi faceva recitare ogni sera; e la recitavo con piacere perché mi dava un senso di conforto di fronte ai vaghi timori della notte:
Apri le tue piccole ali,
o Gesù, dolce mia gioia,
e prendi il tuo pulcino.
Se Satana vuol divorarlo,
fa che cantino gli angeli:
sia sano e salvo il bimbo.2
Il Signore Gesù era un signore benevolo, bello e rassicurante – come il signor Wegenstein su al castello, ricco, potente, rispettato – e la notte proteggeva i bambini! Perché dovesse poi avere le ali, come un uccello, era un enigma che non mi preoccupava tanto: mentre era più interessante e mi faceva pensare il fatto che i bambini fossero paragonati a «pasticcini»3 che Gesù «prendeva» con riluttanza, come una medicina amara. Ciò mi convinceva poco, mentre avevo capito subito che a Satana piacevano i pasticcini, e che bisognava impedire che li mangiasse! Forse, sebbene non li trovasse di suo gusto, Gesù tuttavia li mangiava per sottrarli a Satana! Fin qui il mio ragionamento mi soddisfaceva; ma poi avevo sentito dire che il Signore Gesù «prendeva con sé» anche altra gente, ciò che equivaleva a metterli in una buca nella terra!
Questa sinistra deduzione ebbe infauste conseguenze: cominciai a non avere fiducia nel Signore Gesù, che perdette l’aspetto di un grande, benevolo, rassicurante uccello, e fu associato ai lugubri uomini in finanziera, tuba e stivaletti neri, che si affaccendavano intorno alla nera cassa.
Queste strane fantasie, che andavo rimuginando tra me, provocarono il mio primo trauma cosciente. In una calda giornata estiva sedevo, come al solito, sulla strada di fronte alla casa, giocando nella sabbia. La strada, superata la casa, saliva su una collina, dove, sulla cima, si perdeva tra i boschi: dalla casa quindi se ne poteva vedere un tratto. Guardando in alto, vidi un uomo che veniva giù dal bosco, con un ampio cappello e una lunga veste nera; sembrava un uomo vestito da donna. Lentamente si avvicinò, e allora vidi che realmente era un uomo con una strana toga nera, lunga fino ai piedi. A vederlo fui preso dalla paura, che si trasformò subito in uno spavento mortale quando, in un lampo, lo identificai: «È un gesuita!». Proprio poco tempo prima avevo ascoltato una conversazione tra mio padre e un collega, venuto a trovarlo, concernente la nefasta attività dei gesuiti; e dal tono, tra l’irritato e il timoroso, delle osservazioni di mio padre, avevo desunto che «gesuita» equivaleva a qualcosa di particolarmente pericoloso, perfino per lui. In effetti non avevo idea di che cosa fossero i gesuiti, ma la parola «Gesù», a causa della breve preghiera, mi era familiare. L’uomo che veniva giù per la strada doveva essere mascherato, pensavo, ecco perché portava abiti femminili, e probabilmente aveva brutte intenzioni! Terrorizzato, corsi precipitosamente verso casa e poi su per le scale, e andai a nascondermi nell’angolo più buio della soffitta, al riparo di una trave. Non so quanto tempo vi rimasi, ma dovette essere abbastanza lungo, perché quando mi azzardai a scendere fino al primo piano, e mi sporsi con circospezione dalla finestra, non c’era più modo di vedere quel nero personaggio, nemmeno in lontananza. Per alcuni giorni quell’infernale paura mi fece stare tappato in casa, e anche quando ripresi a giocare sulla strada, di tanto in tanto dirigevo occhiate sospettose verso la cima boscosa della collina! Più tardi mi resi conto, naturalmente, che il nero personaggio era solo un innocuo prete cattolico!
Pressappoco nello stesso periodo – non saprei dire con assoluta certezza se un po’ prima o dopo questo episodio – feci il primo sogno del quale riesco a ricordarmi, un sogno che mi avrebbe preoccupato per tutta la vita. Avevo allora tre o quattro anni.
Presso il castello di Laufen, in posizione appartata, vi era la canonica; dietro, a partire dalla fattoria del sagrestano, si stendeva un grande prato: nel sogno mi trovai in questo prato. Improvvisamente scoprii, nel terreno, una fossa scura, rettangolare, orlata di pietra, mai vista prima; con curiosità mi avvicinai e mi sporsi a guardarvi dentro. Una scala di pietra conduceva giù; scesi, esitando per la paura, e in fondo trovai una porta ad arco, chiusa da una cortina verde, pesante, enorme, che pareva di broccato, molto sontuosa. Preso dalla curiosità di vedere che cosa potesse nascondere la sollevai da una parte: innanzi a me, nella luce incerta, vidi una stanza rettangolare, lunga circa dieci metri; il soffitto era a volta, di pietra sbozzata; il pavimento era lastricato, e al centro un tappeto rosso si stendeva dall’entrata fino a una bassa piattaforma, sulla quale si ergeva un meraviglioso trono d’oro, con sopra – ma non ne sono sicuro – un cuscino rosso. Era un trono splendido, un vero trono regale come in un racconto di fate! Sul trono c’era qualcosa, e a tutta prima pensai che fosse un tronco d’albero, di circa quattro o cinque metri di altezza e cinquanta centimetri di diametro. Era una cosa immensa, che quasi toccava il soffitto, composta stranamente di carne nuda e di pelle, e terminava in una specie di testa rotonda, ma senza faccia, senza capelli, e con solo – proprio in cima – un unico occhio, che guardava fisso verso l’alto.
La stanza era sufficientemente illuminata, sebbene non vi fossero finestre e non si vedesse alcuna sorgente di luce; comunque al di sopra della testa vi era un’aureola luminosa. Quello strano corpo non si muoveva, eppure io avevo la sensazione che da un momento all’altro potesse scendere dal trono e avanzare verso di me strisciando come un verme. Ero paralizzato dal terrore, quando sentii la voce di mia madre, proveniente dall’esterno, dall’alto della stanza, che diceva «Sì, guardalo! Quello è il divoratore di uomini!». Ciò mi spaventò ancora di più, e mi svegliai, in un bagno di sudore, con una paura da morirne. Per molte notti poi ebbi paura di andare a dormire, temendo di poter avere un altro sogno simile.
Questo sogno mi ossessionò per anni, e solo molto tempo dopo capii che ciò che avevo visto era un fallo, e passarono decenni prima che capissi che era un fallo rituale. Non ho mai potuto stabilire se ciò che mia madre intendeva dire fosse «Quello è il divoratore di uomini» o «Quello è il divoratore di uomini». Nel primo caso avrebbe voluto intendere che il divoratore di bambini non era Gesù o il gesuita, ma il fallo; nel secondo, che il «mangiatore di uomini» in genere era rappresentato dal fallo, sicché Gesù, il gesuita e il fallo erano la stessa cosa.
Il significato simbolico del fallo è mostrato dal fatto che si reggeva da sé sul trono, «itifallicamente» (ỉϑὐϛ, eretto). La buca nel prato probabilmente rappresentava una tomba, e questa a sua volta era anche un tempio sotterraneo, e la tenda verde simboleggiava il prato: in altri termini il mistero della Terra con la sua copertura di vegetazione verde. Il tappeto era rosso sangue. Che dire della volta? Forse ero già stato a Munôt, la rocca di Sciaffusa? Ma non è probabile, nessuno porterebbe un bambino di tre anni lassù; non si trattava quindi di un ricordo. Non so nemmeno spiegarmi da dove possa essere venuto fuori quel fallo, anatomicamente preciso. L’interpretazione dell’orificium urethrae come occhio, con una sorgente luminosa apparentemente al di sopra di esso, allude chiaramente all’etimologia della parola fallo (φαλóς, lucente, splendido).4
In ogni caso, il fallo di questo sogno sembra essere una divinità sotterranea «da non nominare», e tale rimase per tutta la mia giovinezza, e riappariva solo quando qualcuno parlava con troppa enfasi di Gesù. Il Signore Gesù per me non divenne mai del tutto reale, né del tutto accettabile e degno di amore, perché sempre mi si ripresentava al pensiero la sua controfigura sotterranea, la paurosa rivelazione che mi era stata concessa senza che la cercassi. Il «travestimento» del gesuita proiettò la sua ombra sulla dottrina cristiana che mi avevano insegnata. Spesso essa mi pareva una solenne mascherata, una specie di funerale nel quale gli accompagnatori mostravano visi seri e compunti, ma erano pronti, un momento dopo, a ridere nascostamente, senza essere tristi per niente, Gesù mi sembrava in qualche modo un dio dei morti – capace di dare conforto, è vero, dal momento che fugava i terrori della notte – ma inquietante, col suo corpo crocifisso e sanguinante. Segretamente nutrivo dubbi sul suo amore e la sua bontà – che sentivo sempre esaltati – soprattutto perché quelli che parlavano molto dell’«amato Signore Gesù» indossavano tonache nere e lucide scarpe nere che mi ricordavano le cerimonie funebri. Si trattava di colleghi di mio padre e di otto miei zii, tutti pastori; e tutti per molti anni mi ispirarono paura; per non parlare poi dei preti cattolici che incontravo casualmente, i quali mi ricordavano il terribile gesuita che aveva irritato e quasi allarmato mio padre. Negli anni seguenti, fino alla confermazione, feci ogni possibile sforzo per raggiungere il necessario rapporto positivo verso Cristo: ma non riuscii mai a vincere la mia segreta diffidenza.
La paura dell’uomo nero, che hanno tutti i bambini, non fu l’essenziale in questa esperienza; lo fu piuttosto quella identificazione che si ripercuoteva nel mio cervello infantile: «Quello è un gesuita». Così nel sogno erano importanti la sua complicata simbologia, e la sorprendente interpretazione: «Quello è il divoratore di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Aniela Jaffé
  4. Prologo
  5. 1. I primi anni
  6. 2. Gli anni di scuola
  7. 3. Gli anni di università
  8. 4. Attività psichiatrica
  9. 5. Sigmund Freud
  10. 6. A confronto con l’inconscio
  11. 7. Genesi dell’opera
  12. 8. La Torre
  13. 9. Viaggi
  14. 10. Visioni
  15. 11. La vita dopo la morte
  16. 12. Ultimi pensieri
  17. Esame retrospettivo
  18. Appendice
  19. Glossario
  20. Opere di C.G. Jung
  21. Copyright