Isola di Rawda, 14 muharram dell’anno 646 dall’Egira (Il Cairo, Egitto, 9 maggio 1248)
Sarebbe stato una preda facile, pensò Ahmed. Lo stavano seguendo da quando era sbarcato da una feluca attraccata nel pomeriggio alle banchine dell’isola di Rawda, sul Bahr,* il grande fiume che gli egiziani chiamavano mare. Tenevano d’occhio l’imbarcazione come facevano con tutte, ma stranamente non c’era stato alcun movimento di persone o merci. L’unica informazione che avevano avuto dagli addetti all’ormeggio era che la barca proveniva da al-Iskandariyya,* sulla costa.
L’uomo aveva aspettato che facesse buio per scendere e si era infilato veloce tra i vicoli deserti e maleodoranti. Uno straniero, giovane e ben vestito. Ahmed ne aveva intravisto il volto barbuto prima che il cappuccio del mantello lo nascondesse. Probabilmente un mercante italiano, che non sapeva quanto fosse pericoloso girare da solo di notte ad al-Qahira.* Eppure doveva conoscere bene il borgo dei pescatori, si muoveva sicuro tra i vicoli illuminati solo dal chiarore della luna piena.
Ahmed sentì passi leggeri alle sue spalle e si voltò. Yussuf lo aveva raggiunto. Anche Omar e Rashid sbucarono in fondo al vicolo, davanti allo straniero. Dovevano aver corso a perdifiato per aggirarlo. Ahmed fece loro un cenno. Avrebbero agito lì, prima che l’uomo arrivasse troppo vicino alla residenza del sultano.
Lo straniero si fermò di colpo. Aveva visto Omar e Rashid avanzare verso di lui impugnando lunghi coltelli affilati. Ahmed e Yussuf accelerarono il passo, sfoderando anche loro le armi. L’uomo avvertì i loro passi e si voltò. Era in trappola. “Strilla pure” pensò Ahmed, “nessuno oserà uscire per aiutarti.”
Il mercante, tuttavia, non urlò. Si spostò lentamente sul lato del vicolo, in modo da avere le spalle coperte dal muro di una casa. Ad Ahmed non piacque come si muoveva, ricordava un felino. Poi lo straniero parlò, in arabo ma con un accento che gli egiziani non riconobbero.
«Avete sbagliato persona. Andatevene.»
Il tono pacato dell’uomo accrebbe l’inquietudine di Ahmed. Forse sarebbe stato meglio lasciar perdere, ma ormai era tardi. Omar era partito all’attacco.
La luna illuminò una lama, si udì un grido strozzato e Omar si portò la mano alla gola squarciata. L’egiziano non era ancora caduto a terra che la corta scimitarra apparsa come per magia nella mano destra dello straniero aveva aperto la pancia di Rashid. Mentre il secondo assalitore cadeva in ginocchio, un fendente tagliava in due la faccia di Yussuf. Ahmed era rimasto solo. Fu assalito dal terrore, ma non fece in tempo a voltarsi per scappare. Guardò il suo petto, da cui sporgeva l’elsa della scimitarra. Lo straniero la estrasse con un gesto naturale.
Il silenzio fu rotto da rumori di passi sul selciato. Uomini con delle torce, mamelucchi. Vedendo i corpi a terra e l’uomo armato, sguainarono le spade. Quello che li guidava, una specie di gigante, gridò: «Non ti muovere!».
Lo straniero non ne aveva alcuna intenzione. Ripose con calma la lama nel fodero e si rivolse al gigante: «Marhaba, Bunduqdari».1
«Tu!»
La mattina dopo
Il Pilastro della Fede al-Malik* al-Salih Ayyub alzò gli occhi dalla pergamena con il sigillo di Federico, imperatore dei romani, re di Sicilia e di Gerusalemme, e li posò sul messaggero di fronte a lui, vestito di un leggero abito verde con una fascia gialla alla vita, il mantello ripiegato su un braccio. Il capo supremo dell’esercito, l’atabak al-asakir* Fakhr al-Din, glielo aveva condotto di buon mattino dopo essere stato svegliato in piena notte da uno Jamdar* dei mamelucchi della Bahriyya,* il reparto della guardia acquartierato a Rawda.
Il tono del sultano d’Egitto fu mesto.
«Questa volta porti brutte notizie, ser Berto.»
Il messo imperiale pensò che per Ayyub sarebbe rimasto per sempre «ser Berto». Non era la prima volta che Federico gli affidava messaggi da recapitare al «nipote» egiziano, figlio del grande al-Malik al-Kamil, il sultano della pace che lo Svevo aveva considerato come un fratello, nonostante l’ostilità del papa, dei templari e dei baroni di Outremer, come i franchi chiamavano i territori da loro occupati centocinquant’anni prima in Palestina e Siria, la Bilad al-Sham* per i musulmani. Quella missione tuttavia era diversa dalle altre. Nessuno avrebbe dovuto sapere che era giunto un uomo della familia, la guardia del corpo dell’imperatore.
Umberto di Fondi, barone di Acquaviva, si era imbarcato a Gaeta e grazie ai venti favorevoli la navigazione era durata soltanto venti giorni, senza alcuno scalo. Al largo di Ischia, il mercantile era stato affiancato da due galere da guerra della flotta imperiale, che lo avevano scortato lungo l’Italia meridionale e la Sicilia, invertendo la rotta solo quando all’orizzonte si erano stagliate le coste nordafricane. Per le torri di avvistamento di Ifriqiyya,* era stata solo una nave mercantile siciliana come tante altre e, anche da vicino, sarebbe stato difficile cogliere anomalie. Forse un osservatore attento avrebbe potuto notare il numero insolitamente elevato degli uomini dell’equipaggio, ma non avrebbe mai potuto immaginare che ciò fosse dovuto alla presenza a bordo di trenta arcieri saraceni di Lucera.
Umberto era sbarcato ad al-Iskandariyya tre giorni prima e con una feluca aveva risalito il Nilo fino a Rawda. L’emiro al comando degli arcieri, Mohamed, si era offerto di accompagnarlo, ma l’inviato imperiale aveva deciso di sbarcare di notte e da solo, evitando le banchine dove erano ancorate le navi della flotta egiziana e attraversando invece il borgo di pescatori davanti ad al-Fustat, l’antico nucleo della capitale egiziana. Si era considerevolmente ingrandito rispetto alla sua ultima visita, due anni prima. Il trasferimento del sultano sull’isola aveva evidentemente attirato un mucchio di gente, non tutta animata da buone intenzioni, come i quattro ladruncoli che avevano tragicamente sbagliato bersaglio.
Ora la missione era compiuta. La pergamena era nelle mani di Ayyub, che la porse a Fakhr al-Din.
«Stanno venendo qui.»
Il vecchio generale prese il foglio e scorse velocemente i caratteri arabi del messaggio: «Un giorno, il re di Francia è arrivato nelle mie terre con un vasto seguito... Mio signore, Pilastro della Fede, devi fare buona guardia e devi sapere che l’intenzione di chi ti attaccherà è prendere Gerusalemme e, per raggiungere questo scopo, conquistare prima l’Egitto... Il re di Francia è convinto di poterlo soggiogare in poco tempo. Quel principe è il più potente tra i principi dell’Occidente ed è animato da una fede gelosa: l’importanza delle sue azioni come cristiano e il suo attaccamento alla religione lo portano a mettersi contro chiunque... Nipote mio, invano mi sono opposto ai suoi piani e ho cercato di avvertirlo del pericolo che corre, attaccandoti. Per scuoterlo, ho insistito sul numero e la forza dei musulmani e sull’impossibilità di prendere Gerusalemme senza ridurre prima la potenza dell’Egitto, il che non è tuttavia fattibile. Gli ho anche ricordato come quasi vent’anni fa, giunto per la guerra, trovai in tuo padre un uomo di pace, giusto e ragionevole. Il francese non ha condiviso il mio punto di vista. Il numero di coloro che lo seguono sta crescendo. Sono in tutto più di sessantamila e nel corso di quest’anno sbarcheranno a Cipro».
Il sultano e l’atabak si guardarono. Umberto comprese che le loro spie avevano certamente già colto la grande mobilitazione francese, ma che la lettera dell’imperatore aveva fatto chiarezza sulla strategia e sulla destinazione di re Luigi. Non ne avrebbero comunque discusso davanti a lui. Il tono di Ayyub fu come sempre cortese: «Ser Berto, ringrazia l’imperatore per il messaggio. Egli sa che avremo modo di esprimergli la nostra gratitudine. Sarà un onore averti nostro ospite per tutto il tempo che desideri».
«Grazie, mio signore, l’onore sarebbe mio, ma preferirei ripartire subito. Non è opportuno che la mia presenza sia notata.»
«Certo, hai ragione. Tu non sei mai venuto... Atabak, fai in modo che non corra altri rischi.»
Fakhr al-Din s’inchinò per nascondere il sorriso. Non pensava che l’inviato dell’imperatore avesse mai corso alcun rischio.
«Udire è obbedire, mio signore.»
L’anziano comandante accompagnò Umberto fuori dal salone. Nel vasto atrio non c’era la consueta folla di cortigiani. Erano state date disposizioni affinché nessun occhio indiscreto si posasse sul visitatore e i mamelucchi bloccavano l’accesso alle stanze del sultano. Solo un uomo era lì ad attenderli, Baybars, il giovane emiro della Bahriyya che era intervenuto la sera prima. Umberto lo aveva conosciuto in occasione del viaggio precedente e averlo incontrato gli aveva evitato di dover fornire spiegazioni. Era un uomo di poche parole, il Balestriere. Si era subito reso conto della situazione, e lo aveva condotto direttamente negli appartamenti di Fakhr al-Din. Entrambi sapevano che l’oro dei templari e degli ospitalieri riempiva molte tasche, persino ai vertici del potere, e che la notizia dell’arrivo di un messaggero dell’imperatore sarebbe stata di grande valore per le spie.
Umberto guardò gli occhi azzurri che spiccavano nel volto abbronzato. Come tutti i mamelucchi, Baybars da ragazzo era stato uno schiavo, catturato forse nelle grandi pianure del nord. L’imponenza fisica e una piccola macchia bianca in uno degli occhi, come la cruna di un ago, gli conferivano un aspetto poco rassicurante. Era stata proprio quella macchia a segnare la sua vita. Una volta gli aveva raccontato che il suo primo padrone, un mercante siriano di Hama dal quale era stato comprato a soli quattordici anni, lo aveva rivenduto pensando che ci fosse qualcosa di malvagio nel suo occhio. L’acquirente era stato l’emiro Aydakin al-Bunduqdar, da cui aveva preso il soprannome di Bunduqdari. Il patrimonio di Aydakin era poi stato confiscato dal sultano Ayyub e il giovane era finito tra i mamelucchi della Bahriyya. Era stata la sua fortuna, pensava Umberto, anche se l’altro diceva che era stato il volere di Allah.
Il gigante s’inchinò all’atabak. Fakhr al-Din rispose con un cenno della mano e si rivolse a Umberto: «Signore, Baybars ti condurrà al fiume. Che Allah guidi il tuo viaggio e ci dia la possibilità di incontrarci di nuovo. Ti prego di voler confermare all’imperatore il mio fraterno affetto».
«Ti ringrazio, mio signore. L’imperatore ricambia il tuo affetto e mi ha consegnato un omaggio per te.»
Umberto sciolse la fascia gialla che portava alla vita e la dispiegò, mostrando al centro l’aquila nera degli Hohenstaufen. Non c’era bisogno di dire nulla. L’atabak conosceva bene lo stendardo imperiale. Era stato ordinato cavaliere da Federico e aveva lo stemma con l’aquila sulla propria bandiera.
«Signore, puoi dirgli che lo considero un dono più prezioso di un diamante.»
Umberto s’inchinò.
«Salam alaykum, mio signore.»
«Alaykum salam, ser Berto.»
Baybars indicò la porticina sul lato del corridoio di cui si erano già serviti al loro arrivo.
«Da questa parte.»
Scesero una scala a chiocciola e imboccarono un lungo corridoio dal pavimento di pietra.
Il mamelucco sovrastava di quasi tutta la testa Umberto, che pure non era basso.
«Uscirai prima tu. Io ti seguirò fino alla barca. Tra poco saremo nel cortile della Bahriyya. Copriti e resta al mio fianco.»
«Ti ringrazio, ma puoi anche evitare di seguirmi. Di giorno non dovrebbero esserci problemi.»
«Dalle case molti occhi hanno visto quello che hai fatto questa notte. Le notizie girano veloci a Rawda. Ti seguirò, è il desiderio dell’atabak.» Si girò verso di lui, un lampo di ironia nello sguardo dalla macchia bianca, e proseguì: «E i problemi ci sono sempre, ser Berto, lo sai meglio di me. Piccoli o grandi. Credo che la tua presenza qui significhi per noi problemi grandi».
«Sono convinto che nessun problema sarà abbastanza grande per te... Comunque abbi cura di te, Balestriere.»
«Sarà fatta la volontà di Allah, come sempre.»
Prima di uscire all’aperto, Umberto indossò il mantello con il cappuccio, nonostante il caldo. Attraversarono insieme il cortile assolato e si salutarono. L’inviato imperiale uscì dalla cittadella e si incamminò verso il borgo a oriente. Subito dopo, una ronda di mamelucchi si avviò nella stessa direzione.
✠ ✠ ✠
Congedato ser Berto, Fakhr al-Din era tornato nel salone. Ayyub era con una ragazza alta e bruna, dagli occhi nerissimi, vestita di un abito di lino celeste leggero, quas...