Brutta
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Storia di un corpo come tanti

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Brutta

Storia di un corpo come tanti

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Perché mai un uomo può "essere brutto" - magari calvo, con un naso prominente, occhi sporgenti... - mentre alle donne è richiesto di rispettare precisi canoni estetici e di apparire sempre giovani e attraenti?È una domanda per la quale non abbiamo una risposta soddisfacente. Una donna nasce, cresce e passa tutta la vita a tenersi alla larga dall'essere identificata come "brutta": è la storia raccontata da Giulia Blasi in questo libro, una raccolta di saggi brevi che hanno l'esplosività di una serie di monologhi lucidi e affilati, a metà tra ferocia e risata. Dall'infanzia alla prima adolescenza, dai vent'anni all'età in cui comincia l'invecchiamento, la storia del suo corpo è la storia del corpo di ogni donna: un corpo che va nel mondo con la consapevolezza della quantità di spazio che può occupare e di attenzione che può pretendere in ragione di come viene etichettato. Una consapevolezza che cambia prospettiva se ci si pone la domanda iniziale e poi si prosegue secondo la stessa logica chiedendosi: chi ha detto che, per occupare uno spazio pubblico, per vivere appieno in società, si debba per forza essere belle?

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831805520

Storia dei miei occhiali

C’era una volta una bambina che non ci vedeva un cazzo.
Era una bambina curiosa, che divorava un libro dietro l’altro e andava bene a scuola, però fra gli otto e i nove anni aveva smesso di leggere i cartelli pubblicitari che vedeva dal finestrino della macchina (dicendo «Non ci riesco più!») e aveva cominciato a chiedere alla maestra Nelì di stare vicino alla lavagna, perché non riusciva a vedere bene cosa c’era scritto sopra. La lavagna della classe della bambina era grandissima e montata su un sistema di carrucole che permettevano di alzarla e abbassarla a seconda della statura dell’alunno che ci doveva scrivere. C’era un sacco di spazio per fare le lettere grandi, eppure la bambina non riusciva a distinguere i segni lasciati dai gessetti bianchi sul fondo nero.
La bambina viveva in un paese molto piccolo, in cui erano tutti mezzi parenti, inclusa sua madre e la maestra Nelì. «Lili» disse la maestra Nelì alla mamma della bambina, «guarda che la nina dice che non ci vede.»
La mamma della bambina era scettica: in famiglia ci vedevano tutti benissimo, una famiglia di falchetti, a parte la nonna della bambina, unica miope.
La bambina ricorda ancora la visita dall’oculista: il bruciore delle gocce di atropina negli occhi, la buffa montatura tonda che faceva un rumore come il gracidio di una raganella quando veniva aggiustata per aderire alla sua faccia, le lenti scambiate, aggiunte e sottratte, meglio così o così?
«Oh, mamma» esclamò la bambina, stupita. «Guarda come sei!»
«È la prima volta che la vede» commentò il dottore.
All’epoca in cui metto i miei primi occhiali mi mancano già due diottrie e mezzo, e ho vissuto buona parte della mia vita immersa in una perenne atmosfera tipo video anni Settanta con effetto flou. Il mondo delle miopie non corrette è morbido, sempre un po’ sfocato: la gente vista da lontano è tutta uguale, la distingui da come cammina, da come si muove, dai colori. Ancora adesso fatico a ricordare le facce, ma riconosco le persone da come muovono i piedi quando vengono verso di me, che come superpotere è un po’ fuffa, ma questo passa il convento. Al mare tenevo gli occhiali solo in spiaggia, me li toglievo per andare a fare il bagno: man mano che gli anni passano e la miopia peggiora, i miei ricordi del mare di Lignano Sabbiadoro – marrone, anche ben oltre gli anni Settanta – sono sempre più vaghi, limitati ai pochi centimetri d’acqua intorno a me. Ho letto una cosa tempo fa, su Twitter, a cui non avevo mai pensato: che i difetti della vista sono una disabilità. È una disabilità che viene facilmente corretta grazie alla tecnologia moderna, che fra lenti ultrasottili, montature con le stanghette elastiche, lenti a contatto morbidissime e chirurgia correttiva fa sì che i miopi gravi vivano la loro vita come se fossero nati con occhi funzionanti. Se fossi venuta al mondo nel dodicesimo secolo, invece che nel ventesimo, avrei passato la vita senza guardare mai la gente negli occhi a meno che non fosse collocata a meno di quindici centimetri dalla mia faccia, perché quella è la distanza a cui comincio a mettere a fuoco. Quindi grazie, frate Alessandro Spina, inventore dell’occhiale.
Essere nata e cresciuta nel ventesimo secolo, però, presentava delle criticità tutte sue rispetto al mio essere una ragazzina con gli occhiali. La prima è che Tumblr non era ancora stato inventato, e quindi nemmeno la ragazza romantica-sexy con maglione morbido, tazza da caffè e occhiali calati sul naso. Negli anni Ottanta, quando comincio a portare gli occhiali – montatura tonda di plastica traslucida in una sfumatura indefinita fra il beige e l’arancione – Tumblr non c’era appunto, internet neanche, e le ragazze con gli occhiali erano Velma di Scooby-Doo (quella intelligente ma bruttina) ed Elias de I ragazzi della III C, che peraltro mi somigliava abbastanza. Elias, nota solo con il cognome, era metà della coppia Elias e Tisini, le secchione che esistevano soltanto in funzione degli sfottò dell’eterno ripetente Chicco Lazzaretti. Il sottinteso era che Elias, in particolare, soffrisse della sua bruttezza e della sua impopolarità: non veniva mai raffigurata come una ragazza orgogliosa della sua intelligenza, solo come una povera racchia senza valore, invidiosa delle ragazze più belle. Il mio destino di ragazza timida e occhialuta veniva scritto, raffigurato e restituito al mio sguardo dal telefilm più popolare di quegli anni, in cui quelle attraenti erano Sharon (la bionda stordita), Benedetta (la dark esistenzialista) e Rossella (l’eterna fidanzatina).
Diciamolo: negli anni Ottanta, nessuna voleva essere intelligente. L’intelligenza, per le donne, non era una qualità aspirazionale. L’unica cosa che volevamo era: essere bona da stordire. Quindi sembrare intelligente – qualità associata agli occhiali – non era inutile, era proprio direttamente indesiderabile. Non c’era posto nel mondo per le donne intelligenti, non c’era posto nei film, nelle serie televisive, nei programmi di intrattenimento. Culi al vento, scollature e costumini trasparenti sì, donne con opinioni, competenze e senso dell’umorismo, no. Nessuna delle Fast Food o delle Bomber di Drive In, nessuna delle Ragazze Coccodè o delle Cacao Meravigliao portava gli occhiali o pronunciava battute significative. Diciamo anche un’altra cosa: l’associazione occhiali-intelligenza non è mai stata legata all’idea che gli occhi si consumino quando leggi molto, cosa che ti fa diventare intelligente. Questa è un’inversione di causa ed effetto: se porti gli occhiali perché non ci vedi sei costretta a diventare intelligente, perché se porti gli occhiali sei brutta e se sei brutta e pure scema buttati a mare, perché non servi davvero a niente. La ragazza bruttina, che non decora, non ingentilisce e non può essere sfoggiata in società come accessorio di prestigio, deve investire su altre qualità per meritarsi di rimanere viva.
L’altra gigantesca controindicazione di portare gli occhiali da ragazzina arrivava a tragico compimento una volta l’anno, nella settimana di carnevale, l’unico momento del calendario in cui la mia passione per i travestimenti trovava legittimazione sociale e poteva avvalersi delle abilità sartoriali di mia madre. Dai nove anni in poi, ogni mio costume diventa “personaggio con gli occhiali”: spagnola con gli occhiali, punk con gli occhiali, Pierrot con gli occhiali, geisha con gli occhiali, sirena con gli occhiali.
Gli occhiali erano una persecuzione, un’offesa, un attacco al mio desiderio di trasformarmi in quello che volevo. Erano lì a ricordarmi ogni giorno che per quanto ci provassi non sarei mai stata all’altezza dell’immagine mentale che avevo di me stessa. Gli occhiali sarebbero stati un perenne promemoria che no, non ero una rockstar! Non ero una principessa! Non ero una maschera malinconica della commedia dell’arte, non ero un’entraîneuse giapponese e meno che mai una ballerina o tutte le altre cose che avrei preferito essere piuttosto che me stessa. Ero, invece, una ragazzina con più occhiali che faccia.
C’entra qualcosa, il rapporto con la mia intelligenza? È una buona domanda, che presuppone che io abbia avuto, per tutta la vita, una percezione anche solo vagamente oggettiva delle mie capacità. Cosa che non è vera nemmeno ora, o almeno, non del tutto. Il rifiuto degli occhiali era un rifiuto estetico, ma anche e soprattutto un rifiuto di appartenenza. La tribù delle secchione non faceva per me, a scuola ero pigra e incostante, andavo bene nelle materie che mi interessavano e malissimo in quelle che richiedevano sforzo. I nerd, che poi sarebbero stati la mia gente – ma ancora non lo sapevo –, erano tutti maschi e sfigati, e nel loro universo la ragazza esisteva solo come diletto sessuale, oggetto di conquista, obiettivo. Non era una pari. Le figure a cui aspiravo assomigliare erano gli impetuosi protagonisti di Saranno famosi, la serie che guardavo ogni giorno quando tornavo da scuola: lì nessuno portava gli occhiali. Nessuno portava gli occhiali nei video che andavano in onda su Deejay Television o negli altri telefilm che seguivo sui canali Fininvest. Nessuno portava gli occhiali negli anime a puntate che passavano durante Bim Bum Bam. Nessuno portava gli occhiali nei teen movies del pomeriggio su Italia 1, a parte Stef dei Goonies, che infatti era l’amica cessa (ma sarcastica e presente a sé stessa) di Andy. Quelle che portavano gli occhiali nei film adolescenziali a un certo punto se li toglievano e diventavano belle. La cesura fra brutta e bella era segnata dalla rimozione delle lenti da vista, rimozione in apparenza priva di conseguenze perché forse, chissà, quegli occhiali erano lì per caso, mica perché senza devi tastare muri e oggetti per evitare di sbatterci contro.
Daria Morgendorffer, la prima protagonista miope e occhialuta di una serie, appare nel 1997. L’ho amata troppo tardi.
Ma poi, di che stiamo parlando. L’accoppiata occhiali+goffaggine è una sciagura in tutte le epoche. 1990, gita scolastica non mi ricordo dove. Nell’albergo dove alloggiamo c’è una discoteca, e tutta la classe va a ballare. Indosso un maglione grigio con motivi floreali che mia madre ha fatto a mano, lavorando i fiori uno per uno. Un capolavoro, un’opera d’arte, chissà dov’è finito. Il deejay mette musica house e io ballo, felice e libera come solo quando ballo, su una pista affollata di compagni di classe. Non mi preoccupo di come appaio, non mi preoccupo di niente: nella mia testa sono la protagonista di un videoclip di quelli che passano su Videomusic, una ballerina di Club MTV, mica una diciassettenne che sciacqua nei vestiti e con i capelli sempre in disordine. Ballo, mi diverto, poi non so cosa succede: forse mi urtano, forse un filo del maglione mi si impiglia in una stanghetta, forse mi do una manata da sola, fatto sta che gli occhiali volano sul pavimento. In un attimo passo da regina del dancefloor a povera cieca che tasta per terra nell’ilarità generale, sperando che nessuno abbia calpestato le lenti.
Quella stessa estate vado all’estero per la prima volta – un mese negli Stati Uniti, con mia nonna, in visita dai suoi fratelli, come una specie di Amy March al contrario – e quando torno metto le lenti a contatto.
Finalmente ci vedo.
È difficile descrivere la sensazione di libertà che ho provato nel guardare il mondo con i miei occhi. Gli occhiali sono anche questo, un confine: se sei miope quanto lo sono io, ogni punto oltre lo spazio delimitato dalla montatura è avvolto nella nebbia. Le lenti a contatto invece seguono il movimento del mio sguardo, ci vedo sopra sotto di lato ovunque.
Tornata a scuola, non ho più gli occhiali, eppure la ragazza con gli occhiali è ancora dentro di me. Solo che non ha più gli occhiali come scusa per essere timida ed evitare il più possibile l’attività sportiva, che non la entusiasmava neanche prima di spaccarsi il naso in un incidente causato interamente dalla sua goffaggine.
Per quasi trent’anni la ragazza con gli occhiali conduce un’esistenza clandestina, uscendo allo scoperto solo la sera prima di andare a dormire e la mattina al risveglio. Porto le lenti a contatto quasi sempre, anche quando non devo uscire, ignorando completamente le indicazioni di ottici e oculisti circa il tempo massimo consigliato per tenere dei tondini di silicone a contatto con i bulbi oculari. Ogni tanto infatti mi vengono delle irritazioni mostruose, e la ragazza con gli occhiali torna allo scoperto, perché non sempre è possibile chiudersi in casa e tenerla nascosta. Senza lenti, la ragazza con gli occhiali impiega il doppio del tempo a truccarsi, perché per farlo deve stare vicinissima allo specchio. Senza lenti non ha male agli occhi, ma si vergogna a farsi vedere in pubblico.
Nel complesso, però, va tutto bene. Almeno fino al 2017.
Nel 2017 compio quarantacinque anni e l’ottico mi dice che i mal di testa e la secchezza oculare di cui mi lamento sono legati al fatto che ho bisogno di occhiali “da riposo” quando sto al computer. Se pensate che me la sia bevuta, no, non me la sono bevuta: lo so benissimo che gli occhiali “da riposo” sono occhiali da presbite, con la presbiopia che va ad assommarsi alla miopia e all’astigmatismo per assicurarsi che io non veda mai niente, mai, a prescindere. La presbiopia come sentenza definitiva: sono diventata qualcosa di peggio che una ragazza con gli occhiali. Sono una donna di mezza età con gli occhiali.
All’inizio li tengo vicino al computer, confinati. Sono un paio di occhiali con la montatura blu, neanche brutti. Me li tolgo prima di fare una foto, me li tolgo prima di un’intervista televisiva. Poi un giorno sono a casa di Roberta e Federico a Milano, e Roberta mi fa una foto adorabile seduta sul divano con una tazza in mano, ed ecco che il cerchio si chiude: all’alba dei miei quarantacinque sono diventata una ragazza Tumblr con gli occhiali, sono Velma, sono Elias da adulta e liberata dal bullismo di Chicco Lazzaretti e soci.
Da un po’ di tempo non me li tolgo quasi più. Faccio foto, interviste, dirette Instagram, collegamenti televisivi con gli occhiali. Un po’ è perché senza non riesco a vedere i commenti a video, un po’ perché la montatura copre gli occhi gonfi, e un po’ perché mi sono ormai abituata a vedermi in quel modo. La ragazza con gli occhiali ha combattuto e vinto la sua lunga battaglia per la supremazia. Avrei dovuto sapere che sarebbe finita così.

Una ragazza seria (certe cose non le fa)

La fine della leva obbligatoria ha svuotato la caserma. È stata dismessa nel 2007, e da allora è vuota, abbandonata e inutilizzata, undici ettari di cemento e costruzioni che fino a pochi decenni fa brulicavano di diciottenni spaesati, spediti lontano dalle famiglie a “diventare uomini” per espressa disposizione dello Stato, che li voleva formati e pronti a combattere in caso di necessità. Arrivavano a Casarsa con il treno da tutta Italia, moltissimi dal Sud, per dare un anno della loro vita al ministero della Difesa, e appena arrivati erano già il Nemico Pubblico numero uno. Le ragazze del posto erano avvertite: non si parla con i militari. Se vedi dei militari, cambi marciapiede. Non devi incrociare i loro sguardi, nessun contatto, do not engage.
Già Casarsa della Delizia non è che fosse questo posto brulicante di vita: era ed è un punto a caso sulla mappa del Friuli-Venezia Giulia, un anonimo paese contadino di scarsissima attrattiva, senza locali, senza cinema, senza niente. Un grazioso e ordinato deserto urbano, spaccato in due dall’arteria della Pontebbana. Doverci passare un anno intero lontano dalla vita che conosci, e per giunta senza nemmeno la speranza di stabilire un contatto con la popolazione femminile, così, nell’ottica del divertimento reciproco, non deve essere stato granché.
“Non si parla con i militari” costituiva metà dell’educazione sessuale per le ragazze della mia età. L’altra metà, almeno per le ragazze, era imperniata sul concetto di “non si fa”. La pube...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Brutta
  4. Questa è la storia del mio corpo
  5. Brutta
  6. Cugurîn
  7. Cosa guardano nelle ragazze
  8. Storia dei miei occhiali
  9. Una ragazza seria (certe cose non le fa)
  10. La donna da mangiare
  11. Donna de panza
  12. Qualcuna era femminista
  13. Le donne belle fanno una vita diversa
  14. Faccia da Stronza
  15. La malvestita
  16. Warpaint
  17. L’antica leggenda della Complessata
  18. Il mostro finale
  19. Preferisco ballare
  20. Bella
  21. Grazie, grazie, siete un pubblico meraviglioso
  22. Copyright