Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade
polverose, qualcosa si mormora e passa,
qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo,
qualcosa si desta e canta.
Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome,
quelli che da tutte le parti, dall’acqua, dalla terra,
col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo.
Perché non muore il fuoco.
Due quartine, le ultime. Il finale di una poesia per la fine di Tina Modotti, 5 gennaio 1942. Parole di Pablo Neruda incise su una lastra accostata alla casa. Via Pracchiuso 89, Udine.
Altre parole coprono la facciata a due piani. Lettere alfabetiche battute a macchina, alcune capovolte, scampoli di frasi in lingue diverse. La casa natale di Tina Modotti trasformata dalla Caritas in un rifugio per senzatetto. Un lascito armonico, un luogo pacifico, finalmente, dopo l’inquietudine, la grazia esposta, abusata, i misteri di una vita fitta e breve.
Sono simili tra loro questi edifici che osservo mentre cammino. Bassi, semplici, discreti. Bastano pochi minuti per raggiungere il centro, ora che anche Udine ha spostato al largo le proprie periferie. Il nome della strada, al termine dell’Ottocento, indicava un borgo abitato da chi, in centro, ci andava poco o niente. Natale, il corteo del Primo Maggio. Operai confinati nella miseria. Il padre di Tina, Giuseppe Modotti, meccanico, la madre, Assunta Saltarini, sarta. Sei figli. Tina, nata il 17 agosto 1896. Nata qui. Forse. Ogni domanda ottiene risposte incerte, depistaggi. La facciata dattiloscritta indica soltanto un indirizzo possibile, tutt’altro che certo.
Mi guardo attorno cercando indizi urbani per una verità ultima, irraggiungibile. Sempre così con Tina. L’omaggio attribuito dalla città contiene un dubbio, al pari del resto. È questa la cifra di una biografia da affanno, fiato grosso, contorta e controversa in ogni svincolo. Dove è nata Tina Modotti? Da queste parti, non importa il punto esatto, la targa con i versi di Neruda è affissa su un’ipotesi.
A Udine, mai più tornata. Morta a Città del Messico dentro un taxi che la riportava a casa. Un infarto. Forse. Assassinata. Forse. Sfinita. Questo sì. Le quartine di Neruda scolpite sulla tomba, al Panteón de Dolores, un cimitero grande come una metropoli. Tina aveva quarantasei anni.
Serve fare il calcolo perché a starle dietro gli anni sembrano settanta, novantacinque, centoventi, spesi altrove, in un viaggio affannato che resta un rebus. Eppure…
Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade polverose qualcosa si mormora e passa…
Udine, queste case, questa strada, conservano segni utili per provare a comprendere una sensibilità accesa, da bimba; una prima consapevolezza da ragazzina. Le orecchie dei suoi quaderni piegate presto e per sempre. Fame, pena, il socialismo come rimedio possibile e finale, l’ingiustizia suprema della povertà. Questo il timbro, ciò che trattiene Tina Modotti tra noi, ciò che sta nelle sue inconfondibili fotografie. Mani e volti memorabili perché segnati. La bellezza frutto dell’offesa, di una fatica oltre misura. Uomini, donne e bambini, visti e presi senza artifici, nessuna finzione, una sequenza di scatti dolenti, dunque autentici, essenziali. La macchina fotografica per riconoscere, riconoscendo se stessa. Borgo Pracchiuso come Tehuantepec, Oaxaca, sud-ovest messicano.
Tina, mentre fotografa, sembra trovare un compimento, un bel respiro. Ma è uno stallo breve. Le immagini che oggi compaiono nelle gallerie, nei musei, ovunque nel mondo, sono datate, stanno in una parentesi, si interrompono alla fine degli anni Venti.
Per un’altra passione. Forse.
Per un dolore nuovo. Forse.
Per una fede più potente. Forse. Forse. Forse.
Troppo amore. Ne serve un po’ anche a me, a noi, per inseguirla senza giudizio. Una donna fortissima o fragile, circondata dal desiderio che scatena la bellezza, dalle punizioni che spettano alla femminilità liberata. La sua fede maneggiata da mani non sempre pulite. Note biografiche tracciate a matita, l’atlante di Tina è una casa degli specchi.
Ha quattro anni quando la sua famiglia si trasferisce in Austria per campare. Ne ha nove quando torna a Udine, dodici quando comincia a lavorare nella fabbrica tessile Raiser. Porta soldi a casa. Porta piccoli oggetti, una sciarpa, un maglione. Si prostituisce? Forse. Ne ha diciassette quando raggiunge il padre emigrato a San Francisco. Operaia, sarta in casa, la passione per la recitazione. A ventidue anni sposa Roubaix de l’Abrie Richey. “Robo”. Pittore. Insieme vanno a Los Angeles, lei si trasforma in un’attrice di successo. Primo film nel 1920. Una “bellezza esotica”, il suo corpo protagonista. Successo. Tina piace a tutti, il cinema, per come la mostra, la usa, non le piace affatto, non più. Fotografia, piuttosto, con Edward Weston, l’ispiratore, il maestro. Aveva iniziato come modella, diventa la sua amante. Robo, il marito, sa tutto. Forse. Si sposta a Città del Messico. Tina decide di raggiungerlo. Arriva poche ore dopo la sua morte, 9 febbraio 1922. Vaiolo. La prima tappa messicana è identica all’ultima. Panteón de Dolores, il cimitero.
In Messico Tina torna con Weston nel 1923. Artisti, intellettuali, muralisti, comunisti. Tina? È nuda nelle foto. È intelligente nelle conversazioni. È indipendente nelle azioni. È la donna di tanti, di troppi, di nessuno. È l’amante di Frida Kahlo. Forse. È l’amica di Diego Rivera, marito di Frida. A loro offre il terrazzo di casa sua nel giorno del matrimonio.
A trentun anni, nel 1927 si iscrive al Partito comunista messicano, fotografa per il movimento muralista, viaggia, scatta. Le sue immagini: pubblicate, esposte, ammirate. Si innamora di Julio Antonio Mella, l’anima del comunismo cubano che si oppone al dittatore Gerardo Machado. Lo ammazzano mentre cammina al suo fianco. Un assassinio politico? Forse. Un omicidio passionale? Forse. La accusano, la trattano come una puttana. Viene difesa da artisti e intellettuali. Lei tace, smette di fotografare, è compromessa su troppi fronti. Espulsa dal Messico, va a Mosca. Altri uomini, sempre troppi, troppo interessati a mischiare ideologia e appetiti sessuali.
Serve una pausa. A me sicuramente, non so a voi, di certo non a lei.
È il 1930. In Russia, traduce. Diventa una spia. Forse. Infermiera volontaria per il Soccorso Rosso. Tempo cinque anni ed è in Spagna, in piena guerra civile. Nome di battaglia “Maria”. Il suo compagno, Vittorio Vidali, è il “Comandante Carlos”, a capo delle Brigate Internazionali. È una figura oscura, un’ombra che l’accompagnerà sino al suo ultimo giorno.
Tina in Spagna si offre, si prodiga, lavora con il medico canadese Norman Bethune, inventore delle unità mobili per la trasfusione del sangue. È su un campo dove vittime e carnefici si mischiano, si confondono. Moribondi da assistere, combattenti generosi, idealisti, assassini mascherati da rivoluzionari. Cosa vede Tina? Un crimine di troppo, una verità scabrosa, una contraddizione dolorosa. Non lo sappiamo. Nessuno lo saprà mai. Torna in Messico sotto falso nome nel 1939. Vidali è una presenza incombente. Trama, cospira, la coinvolge. Persino nell’assassinio di Lev Trotsky, 20 agosto 1940. Forse.
Tina è stanca, è sfibrata, disillusa. L’amore consegnato non comporta alcuna restituzione. È lei, sola, al centro dell’inquadratura. Tina Modotti, al termine del suo viaggio, somiglia ai soggetti che aveva ritratto quando quel viaggio sembrava dettato da una ragione alta, da una possibile insurrezione. Adesso, una donna piegata dal tormento. Nessun artifizio, nessuna falsità.
Troppa morte. Persone, affetti, ideali maltrattati, una ragione che ha smesso di darle energia.
Il 5 gennaio 1942 cena dall’amico architetto Hannes Meyer, si sente male, vuole tornare a casa, sale su un taxi, muore. I giornali parlano di “Eliminazione stalinista”, Vidali, attivista del Comintern, comandante, sanguinario, ex amante, legato a un’altra donna, è sospettato. Verrà scagionato. “Tina Modotti è morta” titola Pablo Neruda, che non vuol sentir parlare di omicidio.
Morta, in un ultimo mistero.
Le parole impresse sulla facciata di via Pracchiuso sono frammenti sconclusionati. E poi la casa era un’altra. Forse. Continuo a cercarla ma so che è introvabile, un po’ come lei. Lontane le sue ceneri, indefinibili i tratti, le intenzioni, le scansioni della voce, della sua libera, fraintesa, manipolata fedeltà. Non esiste una biografia, ne esistono a decine, colme di versioni, interrogativi, ipotesi. A Tina è mancata la forza, è mancato il tempo per consegnarci un codice. Per mettere in ordine le parole.
Forse.
Lo ripeto a me stesso un’ultima volta perché non importa, non più.
Tra le date e i luoghi, tra le bugie e le chiacchiere che ancora accompagnano la vita di Tina Modotti c’è qualcosa di limpido e riconoscibile per chi, con lo stesso impeto, ha cercato, con lealtà, ha aderito, con convinzione e coraggio si è battuta. C’è la potenza di una ideologia che compone il sogno, alimentata da un ardore, dall’altruismo. E quando il sogno si guasta e muore, viene il tempo del lutto più fondo.
È spossatezza da sforzo, da corsa perduta. Ogni stanza, strada, volto, non sono che resti sventurati, inguardabili. Silenzio, dunque e soltanto. Perché, dopo tanto, dopo tutto, dubitare di una fede è indicibile. Significa vanificare il sacrificio, smarrire una giustificazione, oltraggiare se stessi.
Il passo, una volta compiuto, non consente ritorno, disorienta la propria integrità, sconvolge l’innocenza, dopo che ogni energia è stata spesa per perseguire quella stessa fede, per dare vigore al sogno.