La vita spiegata da un Sapiens a un Neanderthal
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La vita spiegata da un Sapiens a un Neanderthal

  1. 228 pagine
  2. Italian
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La vita spiegata da un Sapiens a un Neanderthal

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Paleolitico, Mesolitico, Neolitico: periodi così lontani nel tempo che molti di noi fanno fatica a dar loro la giusta collocazione. Immaginare come fosse allora la vita è quasi impossibile. Possiamo dire, però, che i nostri antenati preistorici ci sono del tutto estranei? Lo scrittore Juan José Millás è convinto del contrario. Ecco perché ha chiesto a Juan Luis Arsuaga, paleontologo tra i più brillanti della sua generazione, di accompagnarlo alla scoperta delle nostre radici.
Capire come si è sviluppata la nostra specie, spiegarne le origini e comprenderne l'evoluzione: è da questi obiettivi che nasce l'incontro tra due menti curiose e acutissime. Conoscenza scientifica, abilità divulgativa, grande inventiva letteraria e una buona dose di ironia si mescolano così in un volume unico, frutto di mesi di dialogo attraverso luoghi della nostra quotidianità e siti straordinari in cui sono ancora visibili le tracce della preistoria dell'uomo. Millás, che fin da piccolo si è autodefinito un Neanderthal («Lo so dai tempi della scuola, perché i bambini Sapiens - dei veri stronzi - mi guardavano strano»), unisce la propria abilità affabulatrice alla competenza del compagno accademico, che ha tutta la sapienza dell'altra specie del genere Homo, per guidarci tra biomeccanica e dimorfismo sessuale; tra postura bipede e dentatura; tra l'australopiteco Lucy e la barba rasata di Alessandro Magno; tra svolte fondamentali come lo sviluppo della mira per scagliare una pietra e la suddivisione del lavoro in cacciatori e raccoglitori.
Come un Don Chisciotte con il suo Sancho Panza, i due ci conducono in una divertente e illuminante spedizione verso i misteri dell'evoluzione umana, nel solco della miglior divulgazione scientifica.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831804998
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica
1

La fioritura del citiso

«Questo è l’asfodelo, la pianta dei Campi Elisi. Se un giorno ti svegli circondato da asfodeli, significa che sei morto.»
Osservo i petali bianchi dell’erbacea che si aprono davanti ai miei occhi come un’allucinazione, e mi chiedo se, data l’abbondanza di questi fiori, è possibile che io e il signore che mi ha appena parlato siamo morti. Il signore è Juan Luis Arsuaga, un paleontologo. Io sono Juan José Millás, un paleontologizzato.
La suggestione di essere deceduto mi dà il coraggio di seguire lo scienziato, impegnato a penetrare nell’intimo di una vegetazione bassa in mezzo alla quale non risulta facile mantenersi in piedi per via del terreno irregolare. Saliamo verso la sommità di una piccola depressione a forma di V dove a valle scorre un ruscello. Arsuaga percorre con agilità un sentiero quasi invisibile che si distende tra i fiori; io cerco di calcare le sue orme, ma non sempre ci riesco; perdo l’equilibrio e inciampo, ma mi rialzo senza fiatare per evitare che si volti e mi sorprenda in una postura umiliante.
Giunto finalmente in cima, si ferma e aspetta che lo raggiunga per mostrarmi un gruppo di rocce granitiche che ricorda il palcoscenico di un grande teatro. Il sipario è formato da una cascata d’acqua limpida. L’occhio vede; l’orecchio ascolta; l’interno del naso si inumidisce; la pelle reagisce con gratitudine alla sottile pioggia orizzontale che si spande dal salto d’acqua e ci rinfresca. I sensi si mettono in guardia: ci sono sfide per tutti e cinque e anche di più, se ne avessimo.
Perché siamo venuti qui? In primo luogo, per vedere la cascata, e forse anche perché la cascata veda noi. Per un istante, sotto il sole magnifico delle cinque del pomeriggio di un 14 giugno, avverto il divorzio dalla natura sperimentato nel corso della mia vita. Noto come i sensi incaricati di percepire il tremore di fondo di questa natura, atrofizzati dal disuso, si sveglino per offrirmi qualche secondo, o qualche decimo di secondo, di immensa armonia con me stesso e con l’ambiente circostante.
Ciao, cascata, dico senza socchiudere le labbra. Benvenuto, Juanjo, mi risponde lei telepaticamente.
Dopotutto, magari è vero che sono morto.
L’unica certezza è che non ricordo una simile combinazione di stimoli: quello dell’aroma delle numerose piante; della loro varietà cromatica; della freschezza sonora della cortina d’acqua; della novità di respirare un’aria priva di piombo; del rumore provocato dallo svolazzare degli insetti… Mi torna in mente, ahimè, una pubblicità di profumi. Ciascuno di noi, persino nell’aldilà, è vittima dei propri riferimenti. Ciò detto, in questa occasione non sono sul divano, davanti alla tivù; in questa occasione sono dentro la pubblicità, come se mi avessero somministrato un acido. Ci troviamo nelle profondità di un tempio senza pareti.
“E cos’è la natura se non un tempio?” immagino che avrebbe detto Arsuaga se avessi aperto bocca.
Eravamo andati a porgere i nostri omaggi alla cascata, ma soprattutto a farci testimoni della fioritura del citiso, una pianta bassa dal cui fusto spunta in questo periodo dell’anno un fiore dalle diverse tonalità di giallo che dona al paesaggio lo splendore insolito di un Rothko.
Per un momento, la vita smise di avere un lato sinistro, un aspetto minaccioso, e divenne puro spostamento. Io ne facevo parte, dello spostamento della vita. Così, le mie idee erano a tratti gialle come il citiso e a tratti bianche come l’asfodelo, e violette come la lavanda, ma anche verdi come l’erba o le spighe che punteggiavano lo scenario. E ogni colore offriva una varietà infinita di modulazioni attraverso cui la mia mente si muoveva con la lentezza dell’ombra di una nube sulla ginestra.
La fioritura del citiso.
Entro un mese – o forse anche prima – il sole avrebbe cominciato a picchiare e quelle tonalità gialle sarebbero venute a mancare con la grandiosità con cui muoiono le cose piccole.
«Non c’è niente di paragonabile allo scappare da scuola» disse a quel punto Arsuaga.
Ed era così. Eravamo scappati da scuola, perché a quell’ora di quel 14 giugno lui avrebbe dovuto essere alla Complutense, credo, a correggere esami, e io a casa mia a tentare di scrivere le prime righe di un romanzo i cui personaggi mi reclamavano da mesi. Invece, ci trovavamo al passo di Somosierra, lontani novantacinque chilometri da Madrid, a goderci una vacanza imprevista a millecinquecento metri di altitudine.
«Qui, circa duecentocinquanta milioni di anni fa, c’era una cordigliera alta come l’Himalaya che piano piano si è erosa. Quelle che vediamo adesso sono le sue radici» mi illustra il paleontologo mentre intraprendiamo la via del ritorno. «Questo paesaggio molto recente è il risultato dell’abbandono dell’allevamento. Il cespugliame manda in rovina il pascolo. La Spagna» aggiunge senza concedersi un respiro «si divide in due grandi periodi: il primo va dal Neolitico al 1958, con i programmi di sviluppo dei tecnocrati dell’Opus. La campagna fino a quel momento era stata un luogo pieno di gente, pieno di voci, la vita nei campi non era triste, c’erano bambini. La campagna era come una strada. Nel 1970 si era svuotata, non restava nessuno. Nessun Paese europeo ha più del cinque per cento di popolazione agraria.»
«Chiaro» convenni io, attento a non inciampare.
«Certo, mi sono scordato di dirti che devi leggere un libro che si intitola Il più grande uomo scimmia del Pleistocene
«D’accordo, di che parla?» chiesi, come se il titolo non lo riassumesse.
«Tu leggilo. È di Roy Lewis. Guarda che querce. Qui vicino c’è anche un bosco di betulle.»
2

Tutto è Neanderthal, qui

Rividi Arsuaga un paio di settimane più tardi. Intanto, la suggestione di essere morto andava e veniva, ma quando si presentava la dissimulavo davanti alla mia famiglia e a chi mi stava intorno. Mi finsi vivo, condussi un’esistenza normale e continuai a inviare i miei articoli ai periodici per cui lavoro. Molti parevano scritti dall’oltretomba, ma nessun lettore me lo fece notare. Devo aggiungere che la vita, in quei giorni, assunse una luce insolita, oltre che un significato di cui prima mancava.
Il paleontologo mi aveva raccattato sulla porta di casa poco prima di mezzogiorno e adesso viaggiavamo nella sua Nissan diretti alla sierra di Madrid.
«Voglio farti una sorpresa» disse.
Guidava lui perché io potessi prendere appunti su un piccolo quaderno dalla copertina rossa, che avevo comprato anni prima in una libreria di Buenos Aires per scrivere una poesia geniale che sembrava dover arrivare e che alla fine non venne. Ormai non la aspetto neppure.
Restammo in silenzio per un po’, ascoltando la radio, dove smentirono una bufala circolata sul conto di un personaggio famoso.
«Siamo una specie pettegola» commentò Arsuaga a proposito della notizia, «anche se i pettegolezzi sono malvisti perché si associano alle chiacchiere, ma si tratta di due cose distinte. Le chiacchiere servono a controllare la direzione. Quando un dirigente fa qualcosa che contraddice il pensiero convenzionale, è vittima della chiacchiera. Come credi che siano finite le gerarchie basate sulla forza nell’evoluzione?»
«Non ne ho idea» dissi.
«Sono finite grazie alle sassate. Siamo l’unica specie che lancia oggetti con precisione. Gli uomini preistorici svilupparono questa capacità che gli scimpanzé non possiedono. La mira è stata essenziale per l’evoluzione. Potenzia il sistema nervoso e la muscolatura. La ragione per cui gli scimpanzé non scolpiscono non è di ordine cognitivo, è che mancano della coordinazione necessaria.»
Il paleontologo girò la testa e mi guardò come per controllare che lo seguissi. Io feci un cenno verso la strada per ricordargli che era lui a guidare. Quando tornò a offrirmi il profilo, confermai che era un profilo da uccello nel quale spicca il naso. Tempo prima, credo alla radio, sentii Arsuaga dire che il naso sporgente è un tratto specifico del volto umano, mentre il resto dei primati ce l’ha piatto. Da allora osservo sempre con una certa meraviglia questa appendice della gente, compresa la mia quando mi guardo allo specchio. È proprio un’aggiunta curiosa, a farci caso. Un obbrobrio in mezzo alla faccia. Il naso di Arsuaga, come dicevo, gli conferisce un’aria da uccello. I denti leggermente storti e i capelli bianchi e scompigliati, come la cresta di alcuni volatili tropicali, contribuiscono all’effetto generale.
Il paleontologo sospirò, sorrise con aria nostalgica e continuò a parlare: «Gli storici non tengono abbastanza in conto la capacità di lanciare pietre. Una sassata nel cranio di una iena la uccide. I cani fuggono quando ci accucciamo come per raccogliere un masso, perché una sassata in bocca li lascia senza denti. Il lancio di pietre è una questione molto seria. Non ti serve a nulla essere il più forte, se gli altri membri del gruppo sanno lanciare le pietre».
«Davide contro Golia» mi venne in mente.
«Esatto» proseguì lui. «La forza è stata rimpiazzata dalla politica grazie alle pietre. Le chiacchiere sono le nostre pietre: distruggono la reputazione di qualcuno e gli impediscono di diventare il capo.»
«E il pettegolezzo?»
«Il pettegolezzo è una forma di coercizione che proibisce di discostarsi dalla norma. È molto opprimente, soprattutto nelle piccole comunità. Guarda come sono belle le ginestre. I cisti, invece, sono già sfioriti.»
Raggiungemmo la valle del Lozoya, dove scorre il fiume omonimo, nella sierra di Guadarrama, a nordest della comunità di Madrid.
«La sierra di Guadarrama» disse, cambiando argomento, «non è la più alta né la più bella, ma è senz’altro la più colta. Tutti i poeti e i pensatori del Rigenerazionismo ne hanno scritto. I rigenerazionisti non erano scrittori da caffè, erano legati alla natura. Rappresentano il meglio della cultura spagnola del XX secolo. Alla fine della Guerra civile, la campagna e lo sport hanno cominciato a essere malvisti. Un intellettuale, dopo la guerra, non andava in campagna. Guarda alla tua destra: quello è il Peñalara.»
Guardai alla mia destra e, furtivamente, lanciai un’occhiata all’orologio. Era già ora di pranzo, ma il paleontologo non dava segno di dirigersi verso nessun ristorante. Quando non mangio all’ora giusta, il calo di zuccheri o di carboidrati, non so, il calo di qualcosa nel mio sistema endocrino mi mette di malumore, tanto che faticavo a concentrarmi su ciò che diceva.
Ma a quel punto, lasciatici alle spalle un paesino di nome Lozoya, entrammo in senso letterale nel paradiso.
Davanti ai miei occhi si manifestò un paesaggio che non era di questo mondo.
Un’altra prova del fatto che eravamo morti?
Il sole, al culmine del suo percorso, provocò un’ubriacatura di luce che eccitava i sensi, dando luogo a una percezione come di realtà aumentata, magari persino di sogno lucido. Aprii il finestrino e nel respirare respirai luce, sudai luce; la luce mi penetrava nei pori, raggiungeva le ossa e ne attraversava il midollo, per poi uscire dalla schiena e proseguire il suo viaggio verso il centro della Terra, dove forse sarebbe diventata una luce oscura che illumina in senso opposto le sue viscere. Non c’era nessuno intorno a noi, nessuna auto, nessuna moto, nessuna bicicletta. Di tanto in tanto un’ombra a forma di uccello sfiorava la materia silenziosa di cui è fatta l’aria.
«Siamo nella Valle Segreta?» domandai.
«Sì» disse il paleontologo, «nella valle dei Neanderthal. La chiamano “segreta” perché è molto isolata.»
Me ne aveva parlato durante l’incontro precedente, promettendo che un giorno mi avrebbe portato a vederla. Per me significava andare a trovare i nonni, dal momento che sono un Neanderthal. Lo so dai tempi della scuola, perché i bambini Sapiens – dei veri stronzi – mi guardavano strano. Dovevo compiere degli sforzi eroici per nascondere la mia “Neanderthalità”, perciò passavo le giornate a osservarli per imitare il loro comportamento e non mi restava tempo da dedicare allo studio. Prendevo solo insufficienze, il che mi rendeva ancora più Neanderthal, se possibile. La mia famiglia, a prima vista, non sembrava Neanderthal, pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La vita spiegata da un Sapiens a un Neanderthal
  4. 0. La visita ai nonni
  5. 1. La fioritura del citiso
  6. 2. Tutto è Neanderthal, qui
  7. 3. Lucy in the Sky
  8. 4. Il grasso e il muscolo
  9. 5. La rivoluzione del piccolo
  10. 6. Il bipede portentoso
  11. 7. Rifondando Vettonia
  12. 8. Non c’è nessun orologiaio
  13. 9. Superpeluche
  14. 10. Due pattinatori
  15. 11. Tutti bambini
  16. 12. Certezza della paternità
  17. 13. Le impronte remote dei suoi piedi
  18. 14. Meno semplice di quel che sembra
  19. 15. La dieta miracolosa
  20. 16. Passare alla posterità
  21. Copyright