Entro in oncologia la mattina presto, con addosso l’ormai familiare sensazione di determinazione – quasi spavalderia – mista a paura. Varcare la soglia del reparto scatena in me un automatico senso di nausea e un sapore metallico in bocca.
Potenza delle ancore.
Lo scenario è il solito. Infermiere indaffarate come formiche operaie, che camminano svelte per i corridoi trasportando grandi recipienti bianchi con gli odiati farmaci. Rivolgono ai pazienti un sorriso amaro, un amalgama di comprensione, pietà, amore e di quell’indifferenza necessaria per sopravvivere in un ambiente così duro.
Molte donne in attesa della terapia, alcune accompagnate dai mariti, altre da un figlio, altre da un’amica. Alcune sole.
Tante teste avvolte nei foulard.
Mentre entro in sala d’aspetto, mi indirizzano uno sguardo complice e anche un po’ stupito: sono troppo giovane per avere un tumore al seno e i loro occhi esprimono sdegno. Non è giusto. Questa malattia è veramente una merda e non guarda in faccia nessuno.
Mentre attendo che il dottore mi chiami per la visita prima del trattamento, mi guardo in giro e immagino la storia delle persone che mi sono sedute accanto. Alcune hanno l’atteggiamento di chi si trova lì da molto tempo. Altre, curiose e più spaventate, sono evidentemente alla loro prima visita e tempestano di domande le compagne.
La mia attenzione è attratta dall’unica altra ragazza della mia età. È seduta in disparte, porta un foulard in testa stampato a vistosi teschi neri, una t-shirt grigia, jeans stretti e Adidas come le mie. Magra, una bella carnagione pallida, occhi grandi e concentrati nella lettura. Sta leggendo Il piccolo principe e sorride. È la prima che viene chiamata dal medico, saluta tutti educatamente e se ne va.
Tiro fuori il mio computer e inizio a scrivere.
Finalmente anch’io passo la visita prechemioterapica e dopo il colloquio con il medico mi assegnano un letto. Si inizia.
Nella stanza un letto vuoto alla mia destra e una paziente alla mia sinistra. È parzialmente coperta dalla tenda che le infermiere tirano quando devono fare le medicazioni, ma riconosco le Adidas uguali alle mie.
Anche per me inizia la trafila di aghi, flebo, siringhe, dolore, schifo.
Infermiere e medici finalmente escono dalla stanza e ci lasciano tranquille, la terapia dura diverse ore. La tenda si apre e appare la giovane donna che avevo visto in sala d’attesa. Ci sorridiamo. Di solito non amo parlare durante la chemioterapia, ma questa volta, complice l’età, l’esperienza comune e gli stessi gusti in merito di scarpe, sono disponibile a entrare in confidenza.
Si chiama Lisa. È in cura da qualche mese prima di me e ha quasi terminato il ciclo di chemioterapia. Stesso tipo di cancro, stesso grado di aggressività. Nei suoi occhi determinazione e coraggio, ma anche paura e tristezza. E capisco subito che la tristezza non è causata dalla malattia. C’è qualcosa d’altro, più intimo e profondo.
«Ho visto che leggevi Il piccolo principe: sai, è uno dei miei libri preferiti» attacco io.
«Davvero? Lo amo. L’avrò letto almeno trenta volte e lo rileggo ogni volta che sono triste. Mi aiuta ad apprezzare quanto di bello ho attorno, anche nei momenti più duri.» La sua voce è sottile e calda al tempo stesso.
«I momenti duri della malattia?» indago.
«Magari fosse solo questo» risponde secca.
«Solo?!» Scoppiamo a ridere entrambe.
«Be’, sì. C’è qualcosa che mi fa soffrire molto di più in questo momento.»
Esita. La incoraggio con un sorriso formato gigante, appoggiando la mano (quella del braccio senza flebo) sotto il mento, fissandola dritto negli occhi e sbattendo le ciglia in modo ostentato, per farle capire che ho tutta la voglia del mondo di ascoltare la sua storia.
Sorride e inizia.
«Sei mesi fa ero felice e innamorata. Non sapevo ancora di essere malata e stavo frequentando Andrea, un collega nella multinazionale per cui lavoro. Lui è sposato e con due figli, ma a me non importava. Certo, mi mancava vederlo più spesso, poterlo avere solo per me e vivere la nostra storia alla luce del sole. Ma la gioia e l’appagamento che provavo nei pochi momenti in cui stavamo assieme erano così perfetti che mi accontentavo. Avevo raggiunto il mio equilibrio in questa situazione complicata, ero serena.
«Viaggiavamo spesso per lavoro e avevamo creato il nostro mondo fatto di incontri in città sempre diverse, di notti appassionate in hotel, di cene a lume di candela e di lingerie sexy. Ma anche di lunghi momenti in libreria a comprare e commentare libri di filosofia, di concerti jazz e di ore trascorse a discutere di film, vino e religione.
«Durante il giorno ci scrivevamo continuamente: SMS, email, messaggi su WhatsApp, messaggi su Facebook in codice, in modo che sua moglie e i nostri colleghi non capissero. Andrea mi scriveva poesie mentre eravamo al ristorante. Mi riempiva di regali e di attenzioni e quando eravamo con altre persone, con qualche cliente o nei meeting organizzati dalla nostra azienda, mi osservava continuamente, per vedere se stavo bene, se avevo bisogno di qualcosa. Era geloso. Si prendeva cura di me. Poi, però, come Mister Big di Sex and the City, era sfuggente quando si parlava di sentimenti. Un po’ freddo, un po’ distante, non dava mai l’impressione d’essere pienamente mio. Mi diceva sempre che lui era così. E in quei momenti io provavo una sensazione d’incompletezza e solitudine, ma mi accontentavo.
«Al principio dell’anno la notizia del tumore. Andrea aveva reagito inizialmente in modo meraviglioso, standomi vicino e prodigandosi in consigli e complimenti. Ammirava il mio coraggio, la mia determinazione e il mio atteggiamento positivo e non perdeva occasione per farmeli notare.»
«Questo è molto bello,» intervengo «molti uomini temono la malattia e non sono disposti ad accettare tutte le conseguenze fisiche e morali che questa comporta. Andrea sembra una brava persona.»
«Sì, anch’io lo pensavo. Sembrava proprio che questa esperienza ci stesse avvicinando. Certo, ormai era estate e lui a luglio sarebbe partito in vacanza con la sua famiglia, ma aveva trovato lo stesso il modo per farmi sentire speciale. Aveva organizzato un giorno a Milano, un giorno solo per noi. Eravamo a fare spese in un negozio, e lui, come sempre, mi aveva sorpreso precedendomi in cassa e regalandomi le cose che avevo intenzione di acquistare, quando improvvisamente mi ha guardato negli occhi e mi ha detto di essere innamorato di me.»
«Ah!» esplodo io, ormai completamente rapita dalla storia.
«Eh, già. Puoi immaginare come mi sono sentita? Un’esplosione di felicità. Non aveva mai parlato di sentimenti, prima. Ero stordita, incredula. Improvvisamente il negozio Nike della Stazione Centrale di Milano mi sembrava il più bel paradiso sulla terra. Non poteva essere vero. Ero talmente spaventata da tanta felicità che ho condiviso con lui questo pensiero e lui mi ha rimproverato, dicendomi di non credere a chi afferma che le cose cambiano sempre in peggio, perché le cose cambiano spesso in meglio.
«Ci siamo salutati e... dopo poche ore una email da togliere il fiato. Diceva: “Amore, d’ora in poi tra noi tutto sarà sempre meglio: l’amore, il sesso, le giornate che trascorreremo assieme. Ne avremo mille altre ancora e sarà sempre più bello. Tu ora pensa a curarti. Ti sarò sempre vicino, lotteremo assieme. Nessuno ti porterà via tutto questo”.»
«Nessuno ti porterà via tutto questo» ripeto.
Lisa sorride, ma questa volta è un sorriso proprio triste.
«La chemio successiva è stata quasi una passeggiata. L’umore a mille, la forza di sapere che tutto sarebbe stato diverso, migliore, una volta finita questa merda. Lui vicino a me. La speranza. Magari ci saremmo messi assieme sul serio, chissà. La vita è così imprevedibile...
«Ero convinta di guarire. Sentivo già di avercela fatta.
«A luglio Andrea parte e i messaggi e le telefonate, prima frequentissimi, diventano rari e distanti, così come le chiacchierate su Facebook, che prima costellavano la mia giornata. Pensavo fosse a causa della presenza costante di moglie e figli: non si poteva allontanare spesso per scrivermi. Ma, di nuovo, quella sensazione d’incompletezza, come se ci fosse qualcosa d’altro.»
Lisa viene interrotta dall’infermiera che ci offre cracker e succo di frutta contro la nausea, nostra infaticabile compagna di viaggio. Perdere il gusto e l’olfatto e convivere con un costante senso di disgusto è stata per me una delle conseguenze peggiori della cura. Senza profumi e sapori la vita è molto più povera e diventa difficile apprezzare le cose semplici. Condivido questo pensiero con Lisa, poi la invito a continuare. Ormai pendo dalle sue labbra.
«Dopo due settimane di questa tortura decido di parlare con Andrea, e gli chiedo cosa sta succedendo, e perché non mi scrive quasi più. Mi risponde che è solo concentrato su se stesso. Stronzate. Hai visto il film La verità è che non gli piaci abbastanza?»
Scoppio a ridere. «Sì, l’ho visto, e ti garantisco che stavo pensando alla stessa cosa.»
«Ecco, appunto, allora decido di andare più diretta, e gli chiedo se è ancora innamorato di me. Sai cosa mi risponde?»
«Temo.»
«Fai bene. Risponde che lo è ancora, ma in un modo diverso.»
«Occazzo. Scusa, mi è scappato.»
«Allora ho preso coraggio e gli ho fatto la domanda che mi tormentava. C’è un’altra?»
L’ambiente attorno a noi era scomparso del tutto. Non c’erano più le tende bianche e le pareti verdi, la grande finestra che si affacciava sul parco dell’ospedale, i pochi mobili asettici. Eravamo solo due ragazze innamorate, in attesa di una risposta che, sapevamo, ci avrebbe fatto molto male.
«Mi ha risposto che si stava scrivendo alcuni messaggi con un’altra. E la nostra storia è iniziata via messaggi. Capisci? Poi ha continuato dicendo che quest’altra non era uno sfizio, ma era nato qualcosa di molto importante. Si era innamorato. Profondamente.»
Mentre diceva questo, Lisa piangeva in silenzio e io ho sentito distintamente il suono prodotto dal suo cuore spezzato.
CRASH.
Il cuore sgretolato in un milione di pezzi piccolissimi, come un bicchiere di vetro quando cade a terra battendo esattamente in un punto critico della sua struttura. Avete presente quando poi per settimane continuate a trovare minuscole schegge di vetro in tutta la casa?
Lisa fa un profondo respiro e continua.
«Nessuno ti porterà via tutto questo...
«Andrea era molto attivo su Facebook. E l’amore ai tempi di Facebook è roba da masochisti. Troppe informazioni, troppo facile scoprire tradimenti e inganni, troppo facile soffrire. Sono bastati pochi clic per capire chi è quest’altra. Una collega. L’amante dell’amante, in pratica. Figlio di puttana.
«Andrea si era proprio innamorato. Innamorato perso. Un amore melenso fatto di messaggini in codice sulla bacheca Facebook di lei, spesso utilizzando le stesse parole che aveva detto a me poche settimane prima. Canzoni dedicate, citazioni d’amore, poesie di autori famosi come status... Roba da vomitare. Dall’invidia, più che dalla nausea.
«Ero convinta che la sua freddezza derivasse da un suo modo di essere. E sopportavo il senso d’incompletezza che lo stare con lui mi procurava, certa che quello fosse il massimo che avrei mai potuto ottenere da un carattere così freddo. E ogni volta che mi sentivo trascurata o non amata, davo la colpa al fatto che avendo una famiglia e dei figli, lui dovesse essere cauto, anche nei sentimenti. E che non fosse una persona particolarmente sdolcinata. Ma in silenzio ne soffrivo.
«Mi sbagliavo. Lui è la persona più romantica del mondo. Ero io che non ero abbastanza per lui. O non è mai stato innamorato di me. O lo è stato per poco, giusto il tempo di conoscere quest’altra, che in pochi giorni è riuscita ad accenderlo come io non avevo mai fatto, rivelando un Andrea romantico, dolce e innamoratissimo, per avere il quale avrei dato la vita.»
A quel punto anch’io stavo piangendo. A dirotto. Di delusione, di rabbia, di incredulità, di paura. Com’è possibile fidarsi di qualcuno dopo aver vissuto un’esperienza del genere? Com’è possibile ferire una persona a tal punto, cambiare repentinamente idea di fronte a un in...