Milano in 10 passeggiate
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Milano in 10 passeggiate

  1. 180 pagine
  2. Italian
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Milano in 10 passeggiate

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Milano, la città d'Italia forse meno simile a tutte le altre, con un'identità e un paesaggio unici e a volte poco compresi. Eppure, anche le vie, i palazzi e le panchine di Milano raccontano storie importantissime, a volte lunghe secoli, a volte recenti ma fondamentali per la storia del Paese. Non solo il Duomo o il Cimitero Monumentale, ma ogni piazza, chiesa, viuzza nascosta, portico e perfino lapide a Milano ha una vicenda, magari dimenticata, che vale la pena conoscere e raccontare. Fra le strade della grande città crocevia riecheggiano voci e passi di personaggi straordinari, come Sant'Ambrogio, Alessandro Manzoni, Carlo Emilio Gadda e Umberto Eco, che hanno contribuito a far prosperare il capoluogo lombardo con la loro vita e le loro opere. In un libro che racconta le grandi storie della città, ma che allo stesso tempo propone itinerari veri e percorribili a piedi con facilità, Andrea Kerbaker ci guida con il passo sapiente e sicuro di chi la sua città la scopre giorno per giorno da tutta una vita, ma anche la leggerezza di chi ama Milano conoscendone i difetti e i tic, e forse la ama anche per questo. Il risultato sono dieci personali e raffinati itinerari da fare a piedi - o con la mente - attraverso una storia palpitante di più di 2000 anni, fino ai giorni nostri. Una passeggiata unica, divertente e informativa, dentro e fuori la lettura. Per viaggiare dalla poltrona, e per tornare a viaggiare davvero.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
ISBN
9788831804769
Passeggiata 1

Milano d’autore

In fondo a viale Monza, sul confine verso Sesto San Giovanni, c’è un gruppo di vie che ricordano i filosofi e gli artisti greci: Teocrito, Apelle, Demostene ecc. Un giorno di tanti anni fa, passandoci in Vespa e diretto a una di quelle strade che non trovo, decido di chiedere a un passante che ha l’aria di abitare in zona. «Scusi, sa mica dov’è via Aristotele?» Il signore allarga le braccia in segno di scusa. «No, non lo so proprio» risponde. «Sa, qui le vie hanno nomi così strani…»
Il piccolo aneddoto per dire che la toponomastica segue a volte percorsi che per i cittadini sono del tutto indecifrabili. Chi sarà stato, per esempio, a voler omaggiare Keplero in quel di Milano? Scelta bizzarra, considerata l’assoluta mancanza di legami tra l’astronomo e la nostra città; e tuttavia la strada c’è, da tempo immemorabile: una viuzza sbilenca con poche abitazioni a uno o due piani al principio di viale Zara, nella zona nord della città. Una strada che non avrebbe molte attrattive, se non fosse la protagonista di uno dei più vivaci racconti di Carlo Emilio Gadda, L’incendio di via Keplero, per l’appunto. Il rogo ci fu davvero, giusto un secolo fa, nel corso degli anni Venti del Novecento. Gadda se ne servì per immortalare la scena nel linguaggio tutto suo:
Finalmente, fra persistenti urla, angosce, lacrime, bambini, gridi e strazianti richiami e atterraggi di fortuna e fagotti di roba buttati a salvazione giù dalle finestre, quando già si sentivano arrivare i pompieri a tutta carriera e due autocarri si vuotavano già d’un tre dozzine di guardie municipali in tenuta bianca, ed era in arrivo anche l’autolettiga della Croce Verde, allora, infine, dalle due finestre a destra del terzo, e poco dopo del quarto, il fuoco non poté a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville, tanto attese!, e lingue, a tratti subitanei, serpigne e rosse, celerissime nel manifestarsi e svanire, con tortiglioni neri di fumo, questo però pecioso e crasso come d’un arrosto infernale, e libidinoso solo di morularsi a globi e riglobi o intrefolarsi come un pitone nero su di se stesso, uscito dal profondo e dal sottoterra tra sinistri barbagli; e farfalloni ardenti, così parvero, forse carta o più probabilmente stoffa o pegamoide bruciata, che andarono a svolazzare per tutto il cielo insudiciato da quel fumo, nel nuovo terrore delle scarmigliate, alcune a piè nudi nella polvere della strada incompiuta, altre in ciabatte senza badare alla piscia e alle polpette di cavallo, fra gli stridi e i pianti dei loro mille nati. Sentivano già la testa, e i capegli, vanamente ondulati, avvampare in un’orrida, vivente face.
Il disastro è contemplato dagli abitanti del palazzo in fiamme, un’umanità strampalata e divertente, che non ha eguali nella prosa italiana:
Tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale, fuor dal tanfo e dallo spavento repentino della casa, poi diversi maschi, alcune signore povere e al dir d’ognuno alquanto malandate in gamba, che apparvero ossute e bianche e spettinate, in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta italo-americano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano, poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei.
Oggi, dicevamo, la via Keplero non ha grandi attrattive; ma si può benissimo prendere quel luogo gaddiano per eccellenza come punto di partenza per una passeggiata tutta letteraria, che da lì ci porta verso il centro. E la straordinaria varietà dell’umanità descritta nelle pagine del celebre racconto ci serve da raffronto con chi occupa oggi le case della zona; se infatti – procedendo in direzione sud lungo le vie Taramelli e Sassetti fino all’incrocio con largo De Benedetti – ci soffermiamo su chi ci abita oggi, il cambiamento è clamoroso.
Sono spariti i “mille nati”, in una città da tempo a crescita sotto zero; sparite o quasi anche le signore male in arnese, tutte casa e chiesa; e in questa parte di città gli anziani sono ormai una sparuta minoranza ridotta al lumicino. Al loro posto, la zona, terra di mezzo tra centro e periferia, appare composta quasi integralmente da persone in età di vita attiva: impiegati, tecnici, studenti, modelle (anche loro, sì, tradizionalmente ospitate a dozzine in un residence di via Pola davanti al quale spesso stazionano macchinone guidate da bellocci di vario stampo). Un’umanità che cammina svelta verso mete indefinite, l’aria perennemente indaffarata, lo sguardo e l’orecchio incessantemente al cellulare. Gente moderna, della razza di chi impazza nei telegiornali e nelle pubblicità televisive, con grande percentuale di stranieri, dagli extracomunitari prevalenti alle fermate della filovia 90/91 agli executives della città postindustriale. In tutto un melting pot per cui la città recente ha disegnato un panorama (uno skyline, dicono loro) completamente diverso dalla tradizione, fatto in prevalenza di vetro e acciaio, di cui parleremo in una passeggiata successiva.
Ornamento di separazione
Inutile immaginare cosa avrebbe pensato Gadda di questa trasformazione: l’avrebbe considerata quasi offensiva, come cambiargli sotto il naso gli ingredienti del risotto alla milanese di cui scrisse una ricetta giustamente famosa. A sua parziale consolazione, il cambiamento è palese soprattutto se, mentre camminiamo, guardiamo a sud, nella direzione verso cui ci muoviamo, o a est, verso i grattacieli attorno alla Stazione Centrale. Se invece giriamo gli occhi a ovest, e magari scegliamo di passare per le viuzze del quartiere Isola, troviamo case basse, accoglienti, affini al vecchio mercato che si svolge al martedì e al sabato. Lì il mondo è ancora in parte gaddiano, ma soltanto un po’: e pare quasi un’enclave destinata a rapida estinzione.
La sensazione si rafforza non appena arriviamo al bel giardino della Biblioteca degli Alberi, recentissimo polmone verde della modernità (anche di questa ci occuperemo in una passeggiata successiva) che ci porta dritti dritti alla seconda tappa: la via Solferino del “Corrierone”, dove il quotidiano occupa un intero isolato, con ingresso al mitico numero 28. Qui Gadda buonanima potrebbe tornare a respirare: il palazzo è sì cambiato, ma il suo aspetto è rimasto più classico che mai. Il suo fronte, derivato dall’unione di due o tre diverse facciate di inizio Novecento, mostra un disegno complessivo decisamente compatto, senza alcuna concessione alla fantasia; istituzionale che più istituzionale non si può: tant’è vero che davanti all’ingresso sventolano la bandiera italiana e quella europea, come se ci trovassimo in presenza di un apparato dello Stato, e sotto c’è uno di quei vistosi pannelli che segnalano un pezzo di storia della città. Del resto da oltre cent’anni questo indirizzo rappresenta «un’immagine di continuità nello spirito di riservatezza che ha caratterizzato nel tempo la borghesia industriale milanese della prima metà del secolo scorso, […] pur nella serie di edifici costruiti e ricostruiti in diversi tempi e con criteri sia insediativi che architettonici assai dissimili». Lo ha scritto Vittorio Gregotti, autore di una ristrutturazione del complesso in anni vicini, e l’occasione serve per ricordarlo anche come vittima recente del Covid, primo caduto illustre milanese di un elenco davvero troppo denso.
«Corriere della Sera» a Milano vuol dire un numero di firme celebri così lungo da risultare fin imbarazzante. Qui ne prendiamo solo uno, ma quale: Eugenio Montale, che nelle stanze di via Solferino ha passato trent’anni della sua vita. Un posto che era anche un rifugio: «Scrivimi fermo posta al Corriere» raccomandava a una sua musa negli anni Cinquanta, per evitare che la corrispondenza destasse sospetti nella fedele Mosca, che lo aspettava nell’appartamento di via Bigli. Quella Mosca poi morta anzitempo, al principio degli anni Sessanta, e raccontata nelle meravigliose poesie di Xenia, uno dei più commoventi canzonieri d’amore di tutti i tempi.
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
Di Montale e della Mosca a passeggio in serata mi piace ricordare l’aneddoto raccontato una volta da Livio Garzanti:
Seguivo Montale in lunghe passeggiate dopo l’orario del «Corriere». Una sera si andava per via Manzoni, davanti a noi camminava la Mosca; era piccola, poche ossa, e io la vedevo scura. Aveva un passo breve, incerto e si volgeva spesso, quasi ronzasse gentile con poche parole che restavano nell’aria. Improvvisamente si voltò e nella penombra dei suoi occhi cominciò a distinguermi. Perentoria mi invitò a cena; si era quasi all’angolo di via Bigli dove abitava. Montale rimase in silenzio e io tacqui. Poi, dopo due o tre passi, giusto il tempo per una fulminante meditazione, tornò al marito e con la voce forte dei sordi: «Ma chi è quello?».
Al «Corriere» Montale approda nel 1948, senza troppa voglia. “Il fogliazzo” definisce il quotidiano in una corrispondenza di quei primi giorni con l’amico filologo Gianfranco Contini. E più volte, fino a metà anni Cinquanta, proverà a trovare altri lavori più consoni al suo spirito. Solo col tempo diventa più affezionato, soprattutto quando si diradano gli impegni da cronista e gli rimangono da seguire la terza pagina e la sua grande passione: la musica.
Nel 1961 un altro primario scrittore corrierista, Dino Buzzati, lo descrive così:
Ma è vero che Montale lavora in redazione? È vero che viene al giornale tutte le sere? È vero che lo si può trovare verso le sei, le sette nel suo ufficio? Questo mi sento chiedere spesso, dalla gente di fuori, a cui la cosa sembra inverosimile. Sì, è vero. Verso quell’ora il lungo corridoio bianco al primo piano del «Corriere della Sera» è ancora quieto e silenzioso. Non è ancora cominciata, o sta per cominciare, la cateratta quotidiana di “servizi” e di notizie. Ma da una porta a vetri smerigliati aperta per metà, di fronte a quella del capo-redattore, viene un tic tic di macchina per scrivere. Un battito minuto, discreto e regolare, quasi timido e impacciato al confronto del mitragliamento velocissimo degli stenografi, qualche sala più in là. Chi passa può darsi che metta dentro la testa per curiosità. Vede di schiena Eugenio Montale su una sedia, che scrive un articolo, battendo sui tasti con un dito solo. La macchina per scrivere è una di quelle grandi, da ufficio, collocata su un leggero tavolino, nell’angolo a sinistra. Scrive abbastanza lentamente, ma senza fermarsi, cosicché per una colonna di giornale gli basta poco più di un’ora. Nel caso di cronache musicali fa anche più presto.
Genovese di nascita, fiorentino per un ventennio, Montale è stato milanese solo dopo i cinquant’anni, amato, riverito, coccolato. Ma, visto dalla sua parte, il rapporto con la città raramente è stato così positivo. Nel 1970, scrivendo per il solito «Corriere» un elzeviro intitolato proprio Vivere a Milano, diceva: «Tra il ’25 e il ’30 io venivo a Milano come si va alla Mecca: per rendere il mio tributo a una città d’eccezione». Seguiva una lunga lista di motivi per cui il poeta amava la città, che si concludeva così: «L’amo con tutto il cuore, ma non riesco ad amarla per la souplesse, l’agilità e l’acume della sua intelligenza».
Così capitava spesso che l’uomo, per ritemprarsi, uscisse dal «Corriere» e se ne andasse lungo via Fatebenefratelli per approdare ai Giardini Pubblici. Un percorso che facciamo anche noi per giungere dove, fino a pochi mesi fa, c’è stata una grande quercia, nota appunto come “la quercia di Montale” – ma non so quanto sia leggenda; in ogni caso, nell’autunno del 2019 l’albero è caduto. Se era vera l’affezione del poeta per quell’angolo, probabilmente non era del tutto casuale: da lì, infatti, si può dare uno sguardo al grande slargo di via Marina, forse il luogo più poetico della città, visto che ci si incontrarono, niente meno, Giuseppe Parini e Ugo Foscolo. Lì, infatti, stava una piccola panca che Foscolo ricorda nello Jacopo Ortis:
Jer sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli: egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall’altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpj suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S’assise sopra uno di que’ sedili; ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione; non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l’amore figliale – e poi mi tesseva gli annali recenti, e i delitti di tanti uomicciattoli ch’io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d’animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque gli vedano presso il patibolo – ma ladroncelli, tremanti, saccenti – più onesto insomma è tacerne.
Temo che anche oggi Foscolo e Parini redivivi troverebbero ben poco di cui compiacersi nella modernità. E il Foscolo, oggi come allora, probabilmente andrebbe a cercare consolazione da una delle sue numerose amanti (su tutte la sua coetanea contessa Antonietta Fagnani, coniugata Arese: Foscolo esercitava un fascino particolare sulle donne sposate – anche se all’epoca l’acronimo “milf” ancora non esisteva, il concetto era piuttosto noto). In quella Milano di dimensioni microbiche, per arrivare da lei dal boschetto dei tigli gli bastava percorrere poche centinaia di metri, lungo la via Sant’Andrea. È un percorso che facciamo anche noi, per arrivare in fondo, in piazza Meda, e svoltare a destra nel grande rettangolo della piazza Belgioioso.
Ornamento di separazione
Piazza Belgioioso è una delle poche aree milanesi con grandi palazzi: a sinistra la Casa degli Omenoni, con le sue statue giganti a sorreggere le colonne, oggi sede del Clubino, uno dei circoli più snob della città; a destra un altro edificio, legato a uno degli episodi più drammatici della Milano recente: nel 1993, in piena Mani Pulite, qui aveva l’ufficio Raul Gardini, gran capo della Montedison, che un giorno di luglio si suicidò proprio nell’edificio con un colpo di pistola in testa per sfuggire al più che probabile arresto da parte della squadra di magistrati ch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Milano in 10 passeggiate
  4. Milano, va bene. Ma quale Milano?
  5. Passeggiata 1. Milano d’autore
  6. Passeggiata 2. Due parole in croce
  7. Passeggiata 3. Casetta nera
  8. Passeggiata 4. La città che sale
  9. Passeggiata 5. Delitti esemplari
  10. Passeggiata 6. La vocazione teatrale
  11. Passeggiata 7. Con i piedi di piombo
  12. Passeggiata 8. Grand’abbondanza ci dev’essere in Milano
  13. Passeggiata 9. All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
  14. Ultima passeggiata. Tutta mia la città
  15. Copyright