Il termine radicale viene dal latino radix, che significa radice. Considerate alcuni contesti comuni in cui viene usato radicale: le riforme sociali radicali sono rivolte ai principi fondamentali della società; il concetto di accettazione radicale, propagandato da varie filosofie di vita, ci incoraggia ad accettare le cose come sono, non solo superficialmente ma anche alla radice; e qualsiasi rivoluzione radicale che non affronta le cause che sono alla radice del nostro sistema è, be’, forse non è così radicale come annunciato. Similmente, una critica radicale riguarda i fondamenti del suo oggetto, e una sfida radicale si confronta con i fondamenti del suo oggetto.
A questo punto abbiamo esplorato due modi importanti con cui la dieta basata su cibo integro vegetale (WFPB) sfida radicalmente lo status quo. La prima sfida radicale ha come obiettivo le nostre credenze su malattia e salute, e il nostro potere su di esse. Per esempio, mette in discussione la nostra convinzione che le malattie debbano essere distinte: nella denominazione, nella patologia e nella gestione. Di conseguenza crediamo che, con le informazioni sufficienti, le malattie possano essere gestite in maniera tecnica e specifica. Questo ci spinge a scoprire ancora più dettagli distinti su patologia e gestione – il territorio della scienza moderna – e incoraggia soluzioni ancora più specifiche e isolate, tanto nell’identificazione delle cause quanto nella messa a punto dei trattamenti. Un simile approccio potrebbe sembrare abbastanza corretto e ragionevole, ma ha un costo: ci svia dal concetto di interconnessione, l’essenza della Natura. La dieta WFPB, la cui efficacia è spiegata dall’interconnessione della Natura, viene quindi ignorata. Le prove che la sostengono sfidano questi e molti altri approcci storicamente radicati e istituzionalmente imposti, riguardanti la malattia e le sue cause, e così facendo sfidano la nostra comprensione e il nostro modo di vedere un ampio spettro di cure convenzionali della malattia.
La seconda sfida radicale la dieta WFPB la pone al settore della nutrizione, che da almeno la metà del XIX secolo tende alla confusione e all’uso scorretto. La dieta WFPB chiarisce la nutrizione, sintetizza raccomandazioni alimentari per la grande maggioranza della gente con due semplicissime istruzioni (consumare i cibi integri vegetali ed evitare quelli animali), ed emancipa il singolo. Nella sua spinta per la chiarezza, la semplicità e l’accessibilità, sfida schemi alimentari consolidati e dominanti. Inoltre, mette in questione annosi miti della scienza alimentare, in particolare la nostra venerazione per le proteine animali. Di conseguenza, sfida i perduranti dibattiti su grassi, colesterolo e altro; o piuttosto, semplifica tali dibattiti estinguendoli.
Siamo ora arrivati alla terza ragione per cui la dieta WFPB è controversa, e si tratta forse della più radicale di tutte: questa dieta e le prove a suo sostegno sfidano radicalmente il nostro approccio verso la scienza e le prove stesse. Questa sfida è intrinseca nelle prove di cui parlo a sostegno della dieta WFPB perché esse non rientrano nei parametri convenzionali. Con ciò, non intendo affatto dire che la dieta WFPB sia sostenuta da una “cattiva” evidenza; al contrario, è supportata da un’eccezionale quantità di prove scientificamente solidissime. Piuttosto, essa non rientra nei confini di quella che molti scienziati indicano come la “migliore” scienza e la “migliore” evidenza. Il problema è che queste denominazioni sono basate su giudizi umani di valore. La comunità scientifica favorisce da tempo certi tipi di prove, certe metodologie e certe interpretazioni ristrette, e le prove a favore di una dieta WFPB non sempre vi aderiscono. Insomma, la dieta WFPB ci costringe a ripensare la nostra idea di quella che è una “buona” evidenza.
LA SOGGETTIVITÀ DELLA SCIENZA “OGGETTIVA”
La mia critica nei confronti di questi giudizi di valore non va assolutamente presa come un argomento contro tutta la scienza tradizionale. Non sto suggerendo che dovremmo buttare via il metodo scientifico né guardare con sospetto ai suoi obiettivi. Senza dubbio, il contributo della scienza moderna alle nostre vite è straordinario, e non è privo di merito l’ideale “oggettivo” dello scienziato di verità suggellate ermeticamente. Quello che intendo piuttosto suggerire è un’applicazione più sfumata di questi metodi.
Il “mondo reale” non è facile da controllare come un esperimento in doppio cieco condotto in un ambiente di laboratorio, e nemmeno lo sono le attività che circondano l’attuale condotta della scienza: la competizione per i fondi di ricerca, la politica accademica, l’elaborazione delle pratiche e qualsiasi altro ambito in cui gli scienziati possano avere occasione di litigare. Il “mondo reale” pullula di errori umani. Non è un compito facile cercare di dare un senso a questi errori, ma almeno dovremmo ammettere che esistono. E il modo in cui celebriamo selettivamente certi tipi di prove e certe metodologie di ricerca, allo stesso tempo ignorandone o svalutandone altri, è solo un esempio di come la scienza possa diventare suscettibile all’errore umano.
Non sto suggerendo che si tratti di una vera e propria cospirazione perpetrata dagli scienziati del mondo: piuttosto che sia un punto debole e una lacuna. Per fare giusto un esempio (ce ne saranno altri più avanti), la nostra smisurata esaltazione dello studio in doppio cieco controllato con placebo, spesso chiamato “gold standard” negli studi di intervento, non è sempre garantita, soprattutto nel campo della nutrizione. È un’impostazione eccellente per testare pillole, perché implica solo il cambiamento di una variabile per volta, ma non per testare un intero stile di vita dietetico; questo infatti contiene infinite variabili i cui rapporti ed esiti in continuo cambiamento sono impossibili da controllare completamente. Di conseguenza, il nostro apprezzamento selettivo per questo tipo di studio attesta un apprezzamento selettivo per le soluzioni farmaceutiche e un rifiuto selettivo per le soluzioni nutrizionali sfumate.
Non sto insinuando che gli studi in doppio cieco controllati con placebo siano in qualche modo “scadenti”; solo che non sono sempre il meglio, e che la nostra esaltazione di questa impostazione di studio non deriva da un’autorità sovrumana, ma dal nostro stesso giudizio fallibile. Il fascino di questa impostazione è ovvio e comprensibile. Non sorprende che veniamo attratti dalle impostazioni di studio più semplici e ordinate. Ciò sembra eliminare, il più possibile, l’influenza parziale dell’osservatore umano, e riflette anche la secolare deriva verso la scienza riduzionista, conseguenza della teoria locale delle cause della malattia risalente a metà Ottocento.
Ciò che spero di fare in questa terza parte del libro è sfidare quanti criticherebbero, scarterebbero o ignorerebbero la dieta WFPB e le prove che la supportano per il fatto che non è dimostrata dagli standard più rigorosi della scienza. Spero di chiarire che questi standard non sono scolpiti nella pietra. Soprattutto quando si tratta di nutrizione, dobbiamo chiederci che cos’è la buona scienza, che cos’è la buona evidenza, e chi stabilisce questi standard.
La risposta all’ultima domanda, come abbiamo visto nelle due sezioni precedenti, spesso è: le istituzioni, soggette alle stesse parzialità dei loro fondatori e della loro associazione. Ricordiamo alcuni modi con cui la scienza della salute è soggetta ai pregiudizi dei suoi custodi:
- degli undici soci fondatori dell’American Association for Cancer Research (AACR), nessuno aveva una formazione di alcun tipo in nutrizione. La ricerca successiva finanziata da questa organizzazione, tanto allora quanto oggi, propende per i trattamenti preferiti dai fondatori, in particolare la chirurgia;
- alla fondamentale conferenza dell’American Cancer Society (ACS), al lago di Mohonk nel 1926, l’elenco di oratori escludeva pionieri di epidemiologia come Frederick Hoffman e critici della radioterapia come Charles Gibson;
- alla stessa conferenza, il professore di chirurgia clinica Howard Lilienthal distorse clamorosamente la ricerca di Gibson per esaltare il proprio trattamento d’elezione del cancro: la chirurgia;
- in uno studio del 1926 pubblicato da Copeman e Greenwood, sponsorizzato dalla British Empire Cancer Campaign (BECC), gli autori rifecero le diagnosi sui certificati di morte e scartarono i dati in disaccordo con i risultati attesi;
- la ricerca di Russell Chittenden e Irving Fisher, entrambi docenti di Yale che studiarono la dieta e la performance atletica, fu rapidamente dimenticata, come lo fu nel 1983 la pubblicazione di nove dattiloscritti che investigavano il ruolo delle proteine animali nella progressione dell’aterosclerosi.1
Naturalmente, questi sono esempi macroscopici, e forse alcuni sono datati, ma ciò non significa che simili pregiudizi e conseguenze non sussistano. E per quanto gli esempi odierni possano non sempre puzzare con tanta evidenza di gioco sporco, possono essere ancora più pericolosi, perché sono più che mai radicati profondamente nelle nostre istituzioni, celebrati ripetutamente come “il meglio della scienza”, e noi sembriamo aver dimenticato che le alternative esistono.
LA SCIENZA RIDUZIONISTA E GLI STANDARD DELLA PROVA
Nonostante un crescente volume di ricerche condotte nell’ultimo secolo, non solo in ambito nutrizionale ma anche in altre specialità di salute e medicina, è difficile dire se la nostra conoscenza collettiva in questa sfera della scienza sia progredita. Spesso gli scienziati battibeccano su dettagli davvero minimi dei loro rispettivi, compartimentati settori. Anzi, sono questi minimi dettagli ad attirare quasi esclusivamente la nostra attenzione, un fenomeno detto riduzionismo scientifico. Questa centralità del riduzionismo è facile da ignorare perché è ovunque, ma è anche difficile da non vedere una volta che lo si cerca. E concentrarsi esclusivamente sui dettagli ha molte conseguenze.
La grande maggioranza dei risultati di ricerca degli ultimi decenni appartiene alla fazione del riduzionismo scient...