Uomini vicini alla vita
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Uomini vicini alla vita

  1. 272 pagine
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Uomini vicini alla vita

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Nei primi anni Trenta del secolo scorso Berlino è una città ancora innocente. Sofferente per la sconfitta e i colpi inferti dalla Prima guerra mondiale ma ignara della forza distruttiva delle bombe, è una culla fredda in cui una folla di emarginati cerca rifugio. Sono reduci dal fronte, straccioni, matti, prostitute, uomini e donne dalle esistenze schiacciate, anime povere ma non ancora arrese. La sera, ognuno trascina la propria storia minima al Fröhlicher Waidmann, un locale dove si ascolta la musica di un giovane pianista e si balla, si beve birra e grappa alla menta, si vuole chiudere la giornata con un'illusione di allegria, tramortendo i pensieri prima che il grigiore riaffiori, sempre uguale, all'arrivo dell'alba.
È una toccante celebrazione della vita, talora disillusa, pungente, ma sempre molto umana, quella descritta da Ulrich Alexander Boschwitz nel suo primo romanzo; una storia di emarginazione e piccole lotte quotidiane, che già lascia intravedere lo sguardo unico di un autore giovanissimo eppure capace di raccontare, con pacata grazia, le debolezze e le fatiche degli esclusi. E il loro bisogno, feroce, di sottomettere gli altri per non soccombere; per quanto la solitudine e la miseria spingano sempre a cercare un compagno, una panchina e un pezzetto di sole da condividere.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831804981

1

Walter Schreiber era un bonaccione. Sprizzava giovialità e si mostrava sempre comprensivo con tutti. Viveva, e vivere era un diritto che non riconosceva solo a se stesso. Concedeva un’esistenza anche agli altri, purché non commerciassero in ortaggi.
Gli affari andavano bene. Eppure lo scantinato dove vendeva la sua merce si trovava in una zona estremamente povera. Lo circondavano casermoni zeppi di gente che guadagnava poco o nulla perché erano tempi duri. Molti erano costretti a vivere del sussidio statale di disoccupazione, altri ancora non potevano contare sul minimo sostegno, men che meno trovavano lavoro. Eppure, in un modo o nell’altro riuscivano a racimolare quanto bastava per comprare da Walter Schreiber patate e ortaggi a buon mercato. Mangiare è un’abitudine che nessuno può togliersi, nemmeno nei periodi più neri.
Come facessero, era una domanda su cui Walter Schreiber non si scervellava troppo. Se ne stava laggiù nel suo scantinato con un sorriso gentile stampato sulla faccia larga, pacioccona, e vendeva. Il negozio non era più caro degli altri e Schreiber non faceva credito a nessuno per principio, aveva un senso della giustizia che glielo impediva.
«Quello che vale per uno, deve valere anche per l’altro» diceva sempre. «Visto che non è possibile fare credito a duecento persone, meglio non farlo a nessuno. Perché quello che do a uno non potrei negarlo all’altro, e alla fine se la passerebbero male tutti, compreso me.»
A volte, però, qualcosa regalava. Soprattutto se era merce diventata invendibile. Ormai la qualità era un principio che aveva preso piede persino nel suo quartiere, e per quanto la gente non andasse tanto per il sottile, in autunno si guardava bene dal comprare le patate dell’anno prima, tutte cosparse di germogli. Quando nemmeno il prezzo più stracciato bastava a incoraggiare all’acquisto, lui riusciva comunque a separarsi dalla mercanzia regalandola.
Il magazzino di Schreiber, al quale si accedeva dalla strada scendendo dei gradini, era molto spazioso e fin troppo grande per i suoi scopi. La bottega l’aveva allestita alla bell’e meglio nel locale principale. La luce non mancava, e aveva rivestito le pareti nude con la carta da parati. Verdura, frutta e ceste di patate erano tutte allineate in bell’ordine.
Prima di lui, entrambi i locali erano stati utilizzati da un carbonaio, ma quello piccolo sul retro, collegato al primo da una porta e qualche gradino, Schreiber l’aveva lasciato vuoto anche perché era situato un metro più in basso ed era talmente umido da essere assolutamente inadatto a ospitare un negozio di frutta e verdura. Qui teneva soltanto vecchie ceste di ortaggi e cassette di frutta secca.
Appena varcava quella soglia, era letteralmente assalito da un senso di malessere. Solo una piccola bocca di lupo dava sulla strada, facendo filtrare una luce livida attraverso il vetro sporco. L’umidità era talmente insana da provocargli un attacco di tosse ogni volta che scendeva a prendere qualcosa. Gli sarebbe piaciuto costruire un muro spesso per dividere il negozio dalla cantina che il proprietario dell’edificio gli aveva concesso quasi gratis. Perché ogni mattina ci metteva un bel po’ a mandar via quell’aria pesante che durante la notte penetrava fin nel locale principale.
Schreiber stava facendo i conti in piedi davanti al piccolo scrittoio di cui era molto fiero perché dava a tutta la bottega un’aria seria, da vero esercizio commerciale.
Erano le due. Per un breve intervallo di tempo non ebbe niente da fare. L’attività era ferma. Quando a un certo punto sentì dei passi per le scale, lasciò lo scrittoio e, fregandosi le mani, andò incontro al probabile cliente.
Entrò un vecchio. Schreiber lo osservò sbigottito. Non che i suoi clienti l’avessero abituato a chissà quale eleganza, ma quell’uomo era una specie di attaccapanni ambulante. Sulle spalle gli ballava una giacca fin troppo ampia. I pantaloni un tempo sportivi, di taglio americano, adesso una pezza scolorita, erano troppo larghi e gli avvolgevano le gambe come sacchi vuoti. L’ex proprietario doveva essere stato un omaccione corpulento. Altrimenti non si spiegava la differenza fra il capo indossato e chi lo indossava. Questo era un omino minuto e, a vederlo camminare, sembrava portare una gonna invece dei pantaloni. Il cavallo gli arrivava alle ginocchia e le gambe, evidentemente troppo lunghe, erano state tagliate con le forbici e in fondo erano tutte sfilacciate. Per finire portava un cappello che gli calzava molto bene, esaltando ancora di più quell’aria ridicola da spaventapasseri. Aveva una faccia giallognola e ossuta. Si guardava intorno con occhi spenti.
Schreiber era ansioso di sentire cosa voleva. Bene che vada, pensò, un chilo di patate o di carote.
Il vecchio gli si avvicinò. «Buongiorno» disse. Aveva una voce indefinita e tremendamente apatica. «Ho sentito dire che ha una cantina libera. Forse potrei prenderla in affitto.»
Lì per lì, Schreiber non rispose. Esaminò ancora una volta l’uomo minuziosamente. Un tipo strano. E per di più neanche della zona. Schreiber conosceva il vicinato. E quello non l’aveva mai visto.
«Da chi l’ha saputo?» domandò incuriosito.
«E chi se lo ricorda. Qualcuno del dormitorio, credo... Non è vero?» fece l’altro guardandolo speranzoso.
Schreiber confermò con un cenno. «Sì, sì, è vero. Però non potrebbe abitarci. È un bel fondo per un negozio, ma abitarci non è proprio possibile.»
«Già» disse l’uomo facendo un passo avanti. Schreiber sentì un forte odore di grappa. «Be’, vorrei vederla comunque. Tanto non pensavo di venirci ad abitare. Solo di dormirci. Però deve costare pochissimo.»
Schreiber rifletté. Evvivaddio, se poteva ricavarne qualche spicciolo, perché non farlo? Sperava almeno che quell’uomo fosse una persona onesta e non gli rubasse le scorte. Comunque un modo per evitarlo l’avrebbe trovato.
A quell’ultimo pensiero, annuì energicamente. Poi disse: «Venga con me. Gliela mostro». Il vecchio, secondo Schreiber fra i sessantacinque e i settant’anni, lo seguì con passo stanco.
Schreiber si fermò davanti alla porta che era sporca, grande e tenuta insieme da fasce metalliche, si frugò in tasca alla ricerca della chiave e, girandola due volte nella serratura, disse: «L’aria, qui dentro, è un po’ pesante».
Il vecchio non ebbe nessuna reazione. Adesso, nel primo pomeriggio, la cantina era rischiarata da una luce smorta. I due scesero i gradini e furono investiti da un’aria umida che sapeva di muffa. Accatastate in un angolo, gerle e ceste.
L’uomo fece il giro della cantina per esaminarla. Camminò lungo le pareti, le tastò, s’infilò fra le ceste e ispezionò tutto scrupolosamente. Schreiber cominciava a fremere. Risalì le scale fino a metà per gettare un’occhiata in negozio. Non c’era nessuno.
«Allora, le piace?» chiese.
Invece di rispondere, l’uomo gli tese le mani bagnaticce per aver toccato le pareti.
«Sì, sì» ammise Schreiber rammaricandosi. «In effetti è un po’ umida.»
«Quanto costerebbe?»
Schreiber rimuginò accigliato. «Posso darle questa cantina per un marco e cinquanta a settimana, è praticamente regalata» disse alla fine con un gran sorriso e un tono di sufficienza.
Il vecchio era d’accordo. Dopo aver rovistato nelle tasche dei pantaloni tirò fuori una manciata di monetine grandi e piccole e si mise a contarle a una a una.
«Quando verrebbe?» chiese Schreiber ricontando gli spiccioli coscienziosamente. Il vecchio si levò il cappello, chinò in segno di saluto la testa lucida come una palla da biliardo e rispose: «Mi chiamo Fundholz. Emil Fundholz. Verrò stasera insieme a Tönnchen e forse a Grissmann». Nel sentire che il vecchio sarebbe stato accompagnato da altre due persone, la faccia di Schreiber si riempì di sbigottimento.
«Se intendete abitare qui in tre, verrà a costare più di un marco e cinquanta.»
Schreiber non aveva mai dato un alloggio in affitto. Ma, come in stato di sonnambulismo, immaginava quello che un locatario avrebbe detto in casi del genere.
Il vecchio scosse la testa con forza. «Staremo qui solo io e Tönnchen. Grissmann passerebbe a trovarci ogni tanto» spiegò.
Schreiber prese atto e memorizzò i nomi. «A-ah, Grissmann solo di passaggio. Ma per questo Tönnchen bisognerà pagare un marco in più.»
Il vecchio gli allungò la mano aperta. «Allora mi restituisca i soldi» disse senza scomporsi.
Schreiber sentì che un cliente stava entrando in negozio. «Non ho più tempo» obiettò con il tono di chi è molto indaffarato. «Ma per una volta passi. Lasciamo pure le cose come stanno. Più di due persone, però, qui non possono dormire. Sennò il prezzo aumenta. Facciamo così: venite tutte le sere alle sette e io vi chiudo a chiave in cantina. La mattina, alle sei e mezza, quando rientro dai mercati generali, vi faccio uscire.»
Quella soluzione gli era venuta in mente lì per lì e la trovò perfetta. Così avrebbe potuto affittare la cantina senza dover temere che la sera gliela svaligiassero.
Fundholz lo seguì borbottando una protesta incomprensibile, ma Walter Schreiber stava già servendo tutto allegro la moglie di un operaio che chiedeva patate, carote e dadi per il brodo. Fundholz si fermò ad aspettare.
La donna lo squadrò stupita. «Bella giornata, oggi» disse.
Fundholz non rispose e distolse lo sguardo con espressione assente.
Walter Schreiber intervenne e confermò: «Non è bella, è bellissima!». Rivolse alla donna un sorriso furbesco e le fece l’occhiolino.
Fundholz sembrò non notarlo, sfilò dalla tasca dei pantaloni un enorme fazzoletto a righe blu e verdi e si soffiò rumorosamente il naso. La donna, sorridendo, pagò e uscì, mentre Walter Schreiber guardava Fundholz corrucciato. Che voleva ancora? Quel cencio ambulante avrebbe finito per alienargli le simpatie della clientela.
«Be’, questa storia che alle sette ci chiude dentro non mi piace!» Stavolta Fundholz parlò in tono fermo e deciso. «Può chiuderci alle undici, ma alle sette no!»
Schreiber ammise che un uomo adulto non poteva coricarsi alle sette e accettò. «Bene. La sera verrò qui alle dieci per farvi entrare. Ma se non siete puntuali, potete andarvene a dormire al Tiergarten. La mattina devo uscire di casa presto e non posso giocare a fare il portiere per i nottambuli.»
Il vecchio fece una risata chioccia: «Nottambuli, questa è buona. Nottambuli è davvero buona». Sempre ridendo salì i gradini. Arrivato in cima, si girò ancora una volta. «Allora a stasera alle dieci.»
Poi si rimise il cappello e sparì dalla vista di Schreiber.

2

Walter Schreiber viveva in un alloggio di due stanze a pochi isolati di distanza dal negozio. Se non faceva troppo freddo e non pioveva, scendeva in strada e si fermava a fumare sotto il portone. Gli bastava poco per sentirsi soffocare. Aveva tre figli, il più grande di sette anni, e in quel piccolo appartamento il chiasso era infernale.
Dato però che era un bonaccione e per di più fiero di avere bambini così vispi, non lo sfiorava nemmeno da lontano l’idea di impedire seriamente che si sfogassero. Solo quando andava a dormire non voleva sentire volare una mosca.
La moglie era malata da tempo. Tubercolosi, dicevano i medici. Ma la parola di un medico per Walter Schreiber valeva meno di niente, e così quella degli omeopati. Molto di più si fidava del suo sano buon senso e dell’arte medica di sua invenzione. Secondo la quale, se la moglie era sempre più debilitata e, quando tossiva, aveva addirittura cominciato a sputare sangue, era perché non mangiava abbastanza. Perciò la costringeva ogni giorno a spazzolarsi una grossa porzione di carne: la carne fortificava!
Un lusso che solo raramente concedeva a se stesso. Certo era strano. La moglie continuava a deperire, appena finiva di mangiare le saliva sempre la febbre, e poi stava sviluppando un’autentica avversione per la carne e il grasso. Walter Schreiber, però, insisteva a imporle quello che lui considerava il rimedio più efficace. Benché la moglie facesse scoppiare un putiferio per ogni bistecca, neanche lui volesse ammazzarla. E dire che la car...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Uomini vicini alla vita
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. Postfazione del curatore
  44. Copyright