Una rivoluzione gentile
eBook - ePub

Una rivoluzione gentile

Riflessioni su un Paese che cambia

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Una rivoluzione gentile

Riflessioni su un Paese che cambia

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

In quest'epoca di incertezza e di paura abbiamo bisogno di un antidoto all'odio. Ma si può lottare per la giustizia sociale e climatica, per il rispetto delle donne e in favore della solidarietà usando come arma, semplicemente, la gentilezza?È la sfida che Dacia Maraini lancia in questo libro che racchiude sette anni di riflessioni apparse sulla stampa nazionale. Accompagnandoci nel suo universo intellettuale e civile, la scrittrice ci rende partecipi del suo sguardo sul mondo.La lotta contro la violenza e i femminicidi, i rapporti delle donne con la Storia e il patriarcato, la maternità, la libertà di pensiero e le sue contraddizioni sono solo alcuni dei grandi temi del nostro tempo e delle questioni a lei più care. E ancora, l'ambiente come punto focale del nostro orizzonte, l'importanza della salvaguardia dell'acqua, delle piante, degli animali e le scelte in campo alimentare che fanno la differenza. Senza dimenticare la solidarietà tra le generazioni e tra classi sociali diverse, e il valore dei progetti universali.Perché solo una rivoluzione gentile può indicarci la strada per un futuro luminoso.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Una rivoluzione gentile di Dacia Maraini in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Sozialwissenschaften e Sozialwissenschaftliche Biographien. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831804899

Il futuro è solidale

Il senso del Natale di cui andare fieri

Ricordo il primo Natale dopo due anni di campo di concentramento. A Tokyo, fra le macerie di una città distrutta dalle bombe. Mi ero ferita al ginocchio, cadendo su un pezzo di vetro. Ero pelle e ossa. Il medico americano da cui ero stata visitata aveva dichiarato che il mio cuore «fa pensare a una melanzana tanto è asfittico». Eppure mi sentivo felice perché ero viva, perché presto, appena ci fosse stata una nave disponibile, sarei tornata nel mio Paese, perché la guerra era finita e potevo finalmente liberarmi dalle pulci, dormire la notte e riempire lo stomaco contratto dalla fame.
Ricordo una bellissima festa organizzata dai soldati americani che volevano risarcirci di tanto patimento. Una sala rallegrata da festoni. Le candele che mandavano bagliori dorati sopra una tovaglia candida. Un albero guarnito di palle rosse e bianche che scintillavano contro le foglie verde scuro dell’abete. Un soldato che cantava accompagnandosi con la chitarra. Un altro si chinava su noi bambine offrendoci bastoncini di zucchero che a me parevano le bacchette magiche di una fata benefica.
Era la fine della guerra e il Natale, più che la nascita di Cristo, raffigurava per noi la vita riconquistata. Gli americani erano i salvatori e quella era la festa della libertà. Non capisco chi vuole censurare i rituali di un popolo per «rispetto verso altri rituali». Solo rafforzando le nostre identità possiamo confrontarci con altre culture, altre tradizioni, altre religioni. Accogliere non vuol dire appiattirci e censurare le nostre memorie. Semmai aggiungiamo altre feste al nostro calendario, ma non dimentichiamo che «non possiamo non dirci cristiani». Anche per chi non si considera credente, praticante, il Natale rappresenta una festa familiare, in cui si celebra la gioia di stare insieme e di regalarsi dei pensieri amichevoli.
Un giorno così vicino poi al grande passaggio da un anno all’altro. Invecchiamo, ci carichiamo di nuove responsabilità, ma nello stesso tempo ci prepariamo alle novità e ai cambiamenti, ricostruendo (anche se con fatica) la nostra fiducia in un futuro comune. Del Natale dobbiamo andare fieri perché accanto al bambino in culla, festeggiamo l’albero della libertà, che porta nelle radici il ricordo delle conquiste fatte: la separazione di Stato e Chiesa, il riconoscimento dei diritti umani, il rifiuto della schiavitù, la codificazione del concetto di uguaglianza fra i sessi.
(“Corriere della Sera”, Rubrica Il sale sulla coda, 1 dicembre 2015)

Quei muri antistorici destinati a sgretolarsi

Nel tempo della crisi galoppante, nel tempo dei barconi che attraversano ogni giorno il Mediterraneo per approdare sulle spiagge dell’Europa più esposta, nel tempo in cui si assiste con sgomento alla morte per annegamento di tanti che fuggono da guerre e fame, nel tempo in cui le nostre scuole si stanno riempiendo di bambini nati da genitori stranieri e diventeranno presto italiani, la paura sta montando come un lievito che fa maturare il pane. Solo che quando il lievito è troppo, il pane esplode e non rimane nulla da mangiare.
La Storia non sta ferma, come non stanno ferme le cellule del nostro corpo che muoiono e rinascono in continuazione. Le cellule però non le vediamo e quindi non ce ne occupiamo, mentre i mutamenti visibili ci terrorizzano.
Chi pensa di fermare la Storia fa come lo struzzo che caccia la testa sotto la sabbia, rimanendo ridicolmente esposto dal collo in su. La logica, la saggezza, l’interesse comune vogliono che i cambiamenti si affrontino, anche quando sono dolorosi. Chi si oppone alle trasformazioni storiche è destinato a soccombere, come uno che, nella voglia di rimanere sempre giovane, decida di fermare la morte coi belletti.
Un corpo che non lascia libera la metamorfosi delle unità biologiche, è un corpo imbalsamato che cadrà a pezzi, sgretolato. Mi viene in mente Dorian Gray e la sua illusione di eterna bellezza, o anche Faust che baratta la coscienza con la vita eterna. Sia Wilde che Goethe ci mostrano la presunzione e la inutilità di volere piegare a nostro agio la natura. La fine è grottesca e umiliante.
In tempo di globalizzazione le piccole patrie non possono sopravvivere. Vengono fagocitate dalle grandi patrie. Anziché isolarsi bisogna allearsi. Pur mantenendo la propria identità. Prendiamo esempio dalla Svizzera, che è una e tante nello stesso tempo, ha una moneta unica e un unico Parlamento che però tiene conto della volontà dei cantoni e ciascun cantone parla la sua lingua. Chiudersi dentro un muro che isola e consola è la cosa più antistorica che esista. Non ci sono muri che fermino il movimento dei popoli. Solo costruendo cammini, facendo progetti comuni a lunga scadenza, si può governare il futuro. E su questo dovrebbe ingegnarsi l’Europa. Che ha già dato tanto: settanta anni di pace, la libertà di movimento, la libertà di studio e di ricerca, una moneta solida con cui si sono costruite città intere. Ha peccato di burocrazia? Ha sbagliato strategie? Certo e anche spesso. Ma non per questo la si butta via. La si aggiusta, come si aggiustano le cose buone e importanti che abbiamo conquistato con tanta fatica.
(“Corriere della Sera”, Rubrica Il sale sulla coda, 28 giugno 2016)

La vendetta del comandante che non può essere giustizia

Soldati che si coprono la testa con le braccia mentre un uomo, che sembra uscito dall’Inferno di Dante, li picchia con un lungo bastone, giudici che camminano a testa bassa, mentre la folla urla e sputa, ragazzi seminudi dalle mani legate dietro la schiena che aspettano il colpo, corpi accartocciati per terra che vengono frustati senza pietà. L’enorme purga è cominciata. La vendetta sacra si erge a giustiziera.
Ma la vendetta può chiamarsi giustizia? È questo che vorremmo chiedere al grande comandante Erdoğan. Crede davvero che la vendetta purifichi il Paese, rimetta a posto la sua autorità calpestata, e costituisca un atto nobile di esemplare punizione?
Non si rende conto che i suoi metodi assomigliano molto a quelli dell’Isis, che fanno spettacolo di una violenza voluta da un dio feroce e sanguinario? Un dio che non conosce pietà, non conosce comprensione, non conosce pudore e non ha neanche un poco di rispetto per gli esseri che lui stesso ha creato?
Tutto si trova in quel sottile confine fra storia antica e storia moderna: il passaggio dalla vendetta alla giustizia. La vendetta è gratificante, lo sappiamo, la vendetta è dolce, la vendetta fa bene al cuore e al sangue che scorre più rapido nelle vene. Tutti siamo affascinati dalla vendetta: il modo più rapido di rivalersi sull’altro, il modo più bruciante per ricostruire il nostro “onore” offeso.
La Bibbia e il Corano offrono la stessa arma a chi si considera tradito e oltraggiato. Ma per l’appunto, sia il Corano che la Bibbia ci raccontano, come in una bellissima epopea, i sentimenti più nobili del momento. Sentimenti che oggi risultano intollerabili, come ci risulta intollerabile la crocifissione, l’impalamento, il rogo, la lapidazione.
Non so se possiamo chiamarlo, con presunzione, progresso, ma certo evoluzione sì: le tante, troppe guerre fatte in nome di vendette nazionali, l’avere riconosciuto l’insensatezza del razzismo ideologico e religioso, il rifiuto e la condanna della schiavitù, l’avere separato lo Stato dalla Chiesa, l’avere stabilito i diritti dell’uomo, ci hanno portati a un punto in cui la giustizia si è dovuta separare dalla vendetta e prendere una strada più vicina alla legge, al codice, all’umana presunzione che un colpevole possa avere le sue ragioni, abbia il diritto di difendersi e chiedere giudici imparziali che non sono lì per vendicarsi ma per applicare la legge.
E invece sento parlare del ripristino della pena di morte. È questo il suo pensiero, comandante Erdoğan? Il suo segreto, sensualissimo desiderio di vendetta?
Una cosa che colpisce guardando le fotografie che mettono in evidenza l’umiliazione dei soldati e dei giudici è l’assenza totale di figure femminili. Immagino che la vendetta sia, per il comandante Erdoğan, una questione squisitamente maschile, che riguarda chi combatte, chi protesta, chi congiura e chi tradisce. Ma dove sono le donne turche in tutto questo?
Io sono stata di recente in Turchia: Ankara e Istanbul sono città moderne, dove le donne studiano, si laureano, lavorano, guidano la macchina, prendono la parola. Possibile che siano state messe tutte a tacere? Non ne ho vista una nella folla che inveiva contro i soldati che prendevano a bastonate quei giovani figli e fratelli che avevano in mente un progetto di libertà dalla tirannia.
C’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico in queste punizioni plateali che debbono servire da esempio. Per quanto si condanni il «diabolico mondo moderno» con la sua libertà di critica, la sua libertà sessuale, la sua libertà di religione, quando si tratta di diffondere la propria parola e raccogliere consensi, non ci si fa scrupolo di usare ciò che prima si è disapprovato. Il massimo della spregiudicatezza tecnologica si sposa con il massimo dell’arcaismo storico. Sono proprio le contraddizioni che l’Isis ci propone tutti i giorni quasi fosse una grande conquista.
Per chi crede nei diritti dell’essere umano sono forme di schizofrenia storica. Una malattia della fede e della memoria, una peste della ragione.
Ma allora, che fare? Mi sembra chiaro che il solo modo di combatterla questa peste consista nel difendere e proteggere e tutelare quelle conquiste che tanto sono costate. Smettere le risse e unirsi contro chi si è innamorato della morte e vuole uccidere la vita.
(“Corriere della Sera”, 19 luglio 2016)

Tra i migranti accolti sui monti d’Abruzzo

«Per quale ragione ci vuole conoscere?» mi chiede subito Narcisse, un bel giovane alto e magro, fuggito da un Camerun immiserito e incanaglito per cercare lavoro. «Perché voglio capire» gli rispondo. «Il problema dei migranti rimane astratto finché non ci si rende conto che prima di ogni questione ideologica o sociale, si tratta di persone e le persone vanno viste da vicino, conosciute e ascoltate.»
I ragazzi, fra i diciotto e i venticinque anni, sono seduti in cerchio, nella sala dell’albergo Scoiattolo di Pescasseroli, che è costruito in cima a una collina e ha una vista da aereo su tutta la valle. La conversazione andrà avanti in tre lingue: l’inglese, il francese e l’arabo. Per l’inglese e il francese ce la caviamo, Eugenio Murrali che mi accompagna in questa avventura di conoscenza ed io. Per l’arabo c’è la scintillante Hala, una siriana che ha sposato un pescasserolese e ora gestisce assieme al marito Francesco una pizzeria in piazza Sant’Antonio.
Ci sono ragazzi che vengono dalla Somalia e mi sembra che conoscano meglio la cultura italiana, altri arrivano da Gambia, Nigeria, Ghana. Sono qui grazie alla Società gestione orizzonti dei fratelli Sante e Annalisa Gentile, che mette a disposizione dei migranti, assieme all’albergo e ai pasti, la presenza di una psicologa, Fabiola Petrarca che è la umanissima e molto amata responsabile del centro, una insegnante di italiano, Francesca dell’Ova, una mediatrice culturale, Tiziana Del Gobbo, un portiere e autista, Luciano Fortini, e un cuoco che cucina tenendo conto dei tabù delle diverse etnie.
Pescasseroli li ha accolti bene. Con la gentilezza un poco sospettosa di tutti i montanari, abituati a centenari isolamenti, ma senza pregiudizi e ostilità. Ha subito creato una associazione, MamaAfrica, che si occupa dei ragazzi procurando loro scarpe, piumini, biciclette, organizzando gite in montagna e partite di calcio coi ragazzi del luogo. L’iniziativa nasce da Francesco Paglia, un uomo dai capelli grigi sebbene ancora giovane che i ragazzi chiamano “Granpà”, e che gestisce un negozio di artigianato del cuoio. Oltre a lui ci sono i volontari che si chiamano Lorenza, Daniela, Carmelina, Annamaria, Francesco, Maria Grazia, Domenico, Luigina e Hala la siriana. Sono commoventi nel loro gratuito dedicarsi, giorno dopo giorno, a rendere confortevole il soggiorno di questi giovani e disorientati ospiti stranieri.
La società Orizzonti si lamenta dei ritardi nell’erogazione dei fondi stabiliti. Roma fornisce trentacinque euro al giorno per rifugiato. Di questi, due euro e cinquanta vanno alla persona, il resto serve per pagare le spese di soggiorno, vitto e alloggio. Si parla di un assottigliamento dei finanziamenti e si prospetta la chiusura di molti centri di accoglienza. I ragazzi sono preoccupati: finire per strada vuol dire fare i barboni o darsi all’accattonaggio, o cadere nelle mani della criminalità. Ma ascoltiamo le storie di alcuni di loro, come Rachid, scappato da Mogadiscio dopo che il padre è stato ammazzato dagli Shebab. «Gli Shebab sono degli affiliati alla vecchia al-Qaeda, ora sospettati di essere in rapporti con l’Isis» mi spiega Francesco.
Rachid è un ragazzo pacato, che ragiona e riflette. «Facevo il pescatore come mio padre. Ma dopo che l’hanno ucciso, ho deciso di andare via. Gli Shebab stanno diventando potenti in Somalia e chi non si adegua alle loro regole o non prega a modo loro o non obbedisce ai loro ordini è in pericolo di vita.» Anche Rachid ha patito il carcere in Libia, come tanti, in condizioni terribili, dopo che gli hanno rubato tutti i soldi e quel poco di bagaglio che aveva con sé. «Cosa vorresti fare qui da noi?» gli chiedo. «Pescare, come facevo al mio Paese. Anche nel lago qui vicino. Sono bravo, mi basterebbero pochi soldi ma vorrei lavorare. Qui sto chiuso e non faccio niente.»
Musa viene dal Gambia, e porta occhiali spessi come fondi di bottiglia. È stato operato in Africa ma ha perso un occhio. Ora è in cura presso medici italiani che forse gli salveranno l’altro occhio. Quasi tutti dicono che vogliono restare in Italia, come Assad, anche lui proveniente dalla Somalia. Porta un cespuglio di capelli ritti sopra un cranio semirasato, ha un sorriso dolce e gli occhi accesi. «Ho lasciato mia moglie in Etiopia e non so quando potremo vederci. Lei non riesce a venire in Italia e io sono bloccato qui. A Mogadiscio facevo l’operaio.» Ha ventidue anni, è magro come sono magri e asciutti gli abitanti dei Paesi desertici.
Ruben è un tecnico nigeriano specializzato in frigoriferi. Più vecchio degli altri, parla con voce lenta e saggia. La moglie è morta, ha lasciato una figlia alla sorella, e vorrebbe farle venire in Europa. Chiede che lo prendano ad aggiustare frigoriferi. «Anche per un salario piccolo, lavorerei e manderei soldi a casa.» Ruben è uno dei pochi che ha accettato l’incarico del comune di fare volontariato pur di fare qualcosa.
Habib viene dal Gambia, faceva il gommista. Il suo viaggio è stato drammatico. È stato tenuto prigioniero nove mesi in Algeria e due mesi in Libia. È un bravissimo calciatore. «Mi vengono a chiamare i bambini di Pescasseroli perché giochi con loro» dice ridendo. Habib ha un corpo sottile e dinoccolato, due occhi furbi e una bocca che sorride su denti bianchissimi ma storti e rotti.
Un altro motivo per cui alcuni ragazzi scappano è l’intolleranza di fronte all’omosessualità. In Nigeria rischiano quattordici anni di carcere. In altri Paesi c’è la pena di morte.
Alcuni sono musulmani. A una certa ora srotolano i tappetini per pregare. Altri sono cristiani e portano una piccola croce di plastica appesa al collo, come Blessing, nigeriana, una bella ragazza che parla con voce velata, i grandi occhi liquidi che contengono ombre dolenti, le mani che si muovono con grazia. Blessing racconta che ha rischiato di morire nel suo viaggio verso l’Italia, che è stata un mese in prigione in Libia. Tutti raccontano di queste prigioni libiche fatte di privazioni, di prepotenze, di fame, di parassiti, di freddo e di caldo, di condizioni igieniche disastrose.
Najib...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una rivoluzione gentile
  4. Premessa a. Una rivoluzione gentile
  5. Dalla parte delle donne
  6. Il futuro è solidale
  7. Noi, abitanti di un pianeta da proteggere
  8. Copyright