Francesco Paolo Figliuolo, completo dei tre nomi, mi accoglie sorridente, in abiti civili. Sono gli ultimi giorni di agosto, ma una camicia corallo non me l’aspettavo. Brilla nella luce romana, contrasta con i capelli scuri e i muri bianchi: un involontario tocco hollywoodiano, ma sospetto che sia la versione militare dell’informalità. Il generale tiene la camicia fuori dai pantaloni chiari. L’appartamento è a Roma, al secondo piano di un edificio severo in una via stretta, leggermente claustrofobica. Luce dalle finestre, tavoli bassi bianchi in salotto, il tavolo da pranzo rettangolare, qualche fotografia, rari soprammobili, quadri solitari, poco di tutto. Un alloggio di servizio, vicino al Comando dell’Esercito, ma si vede lo sforzo per farlo sembrare domestico.
Non avevo mai incontrato di persona il generale Figliuolo. Confesso che mi aspettavo la divisa, la distesa di medaglie sul petto, il cappello da alpino con la penna. Non glielo dico, ovviamente. Mi risponderebbe: uno che gira per casa col cappello è un matto, e forse non passa sotto le porte. E il Commissario matto non è di sicuro: tutto quello che ha fatto, e come lo ha fatto, lo dimostra. Estrae, per prima cosa, un foglio da una cartella in pelle: un’organizzazione novecentesca che, in qualche modo, mi tranquillizza.
Francesco Figliuolo è un uomo di altezza media e in buona forma: si vede da come si muove, si siede e si alza (l’occhio di un coetaneo non sbaglia, in queste faccende). Non ha però quella forma fisica esagerata che, in alcuni sessantenni, profuma di silenziosa disperazione: il tempo passa, e si cerca di ingannarlo con infiniti pomeriggi in palestra. Ha gli occhi svelti e i capelli scuri. Non se li tinge, come sapete.
È presente, al nostro primo incontro, il tenente colonnello Mario Renna, il suo addetto stampa, alto e robusto, in abiti civili scuri, con una cravatta che sembra uscire da un romanzo di Italo Svevo. Presto ci lascerà, discreto. Il generale Figliuolo non ha l’aria di uno che chiede permessi quando non è necessario. Sembra contento del progetto che andiamo a iniziare. Un entusiasmo quasi infantile, che mi spiazza e mi lusinga.
È stato lui a cercarmi, come avete letto. Quando l’editore Rizzoli gli ha proposto di scrivere un libro ha chiesto se poteva farlo con me: avevo un lettore ai vertici delle forze armate e non lo sapevo. Avevo sempre escluso, finora, i libri a quattro mani: ma ogni regola ha un’eccezione, e questa eccezione mi piace.
Il Commissario ha preparato un vassoio di dolci. Ospitalità abbondante del sud. Ci sediamo in sala da pranzo, io a capotavola, con le spalle alla finestra, lui sul lato lungo. Accendo il registratore del telefono. La camicia corallo mi distrae, e penso a dove sarà il cappello con la penna. Dentro un armadio, in cucina? O in camera, posato sulla scrivania, come un volatile in attesa?
* * *
Allora, iniziamo. Dov’è nato? E quando?
Sono nato a Potenza nel 1961.
Giorno e mese?
11 luglio.
Un martedì.
Lei come lo sa?
Calendario perpetuo.
Cos’altro ha scoperto?
L’11 luglio sono nati Giorgio Armani, il cantante Achille Lauro, Lino Banfi e la FIAT. Lei legge l’oroscopo?
Non ho tempo: dovrei?
Che mestiere facevano suo papà e sua mamma?
Mio papà era un sottufficiale dell’Esercito e mia mamma casalinga, anche se poi a un certo punto ha fatto la commerciante. Aveva un negozio di merceria e abbigliamento. Però non abbiamo vissuto sempre a Potenza. Nei primi tre anni della mia vita sono stato a Bari, papà era uno specialista dell’aviazione dell’Esercito, aerei leggeri ed elicotteri. Lavorava in officina ed era un elettromeccanico di bordo. Poi siamo andati a Bologna, abitavamo in via Speranza, mio padre lavorava a Borgo Panigale, all’aeroporto militare.
Come si chiama?
Papà? Salvatore.
E la mamma?
La mamma Maria Dora. Abitano ancora a Potenza. Papà è del 1932, la mamma del 1935.
Suo papà era un duro?
Sì, era duro. Lui credeva di dare un’educazione vecchio stampo, sostanzialmente. Funzionava così: mamma riferiva a papà che cosa avevano combinato i figli, e lui procedeva all’esecuzione sommaria. Da ragazzino, avrò avuto tredici o quattordici anni, a cena ho rifiutato quello che c’era in tavola. Mio padre ha preso il piatto, l’ha rovesciato nella spazzatura e me l’ha rimesso davanti: «Domani avrai più appetito». Da ragazzo non avevo un grande rapporto con mio papà. Quello è nato dopo, piano piano. Ho scoperto una persona dolce, una delle persone più buone e generose che conosco.
Duri da giovani, dolci da vecchi. Anche mio papà ha seguito questo percorso.
Suo papà, da quanto leggo, era notaio a Crema: lo vedevate ogni giorno. Mio papà ha trascorso lunghi periodi lontano da casa. A Potenza c’era solamente un reparto addestramento reclute, dove lui ha lavorato nell’ultima parte della carriera. Dopo aver prestato servizio a Bari e a Bologna, è stato a Pontecagnano, vicino a Salerno. Tornava in famiglia solo il fine settimana, e non sempre. Quello era il momento del redde rationem. La mamma riferiva le mie malefatte e lui metteva in atto la parte educativa, che allora era… diciamo che si andava per le spicce, ecco.
Senza diritto di replica.
Senza diritto di replica.
Esecuzione sommaria.
Esecuzione sommaria.
Anche a suo fratello e a sua sorella veniva imposta la stessa disciplina? Oppure il primogenito faceva da apripista?
Normalmente io facevo da apripista, anzi da parafulmine. Ma anche mio fratello – il più piccolo, sei anni più giovane di me, oggi fa l’ingegnere – ne combinava di tutti i colori. Era abilissimo a sparire, quando tirava aria di punizioni.
C’era complicità tra di voi, oppure ognuno per sé, delazione libera?
C’era abbastanza complicità. Be’, ogni tanto mia sorella ingenuamente confessava qualche nostra malefatta.
Se chiude gli occhi, e pensa a suo padre in quei momenti, lo vede in divisa o in borghese?
Non ricordo, ma lo vedo tanto giovane ed energico…
Volavano scapaccioni?
Eh, qualche scapaccione cercava di darlo… poi, insomma, uno cercava di scappare. Ecco, lì ho imparato che bisogna avere sempre un piano per la via di fuga.
La mamma interveniva?
Mia mamma Dora, grandissima lavoratrice, era una proprio tosta. Quando sgarravamo, non ce la faceva passare liscia: era capace di darci il resto. Però due caratteri diversi: papà apprensivo, mamma fatalista.
Due zie, sorelle di papà, avevano una profumeria. Appena potevo, da bambino, ero là. Lei andava spesso in merceria da mamma Dora?
Sì, mi piaceva. Al pomeriggio stavo spesso in negozio. C’era bisogno di una mano perché i nonni materni vivevano con noi, e mia mamma a volte doveva assentarsi – abitavamo a pochi metri dal negozio – per accudire la nonna che aveva bisogno di assistenza. In autunno, all’apertura delle scuole, aiutavo a vendere quaderni e materiali di cancelleria. E venivo ripagato con qualche soldino.
Immagino che oggi papà e mamma saranno molto orgogliosi di lei. Ma i genitori mettono sempre in imbarazzo i figli, a qualsiasi età. E questo, le confesso, mi pare salutare. Non mi dica che non le è successo, perché non ci credo.
Quando mi hanno nominato Commissario – una cosa del tutto imprevedibile, mi creda – i miei genitori mi hanno stupito. Sono stati assaliti dalle televisioni, e mio papà su Rai 3 ha spiegato le qualità del figlio come se redigesse le «note caratteristiche», la scheda valutativa militare: «Persona seria, che non ammette indulgenze. Va diritto per la sua via. Si arrabbia un po’». Chiaro, papà è generoso, ma ogni tanto mi mette in leggera difficoltà… Lui nega: «Noi siamo anziani, qui tutti vengono a chiedere di te! E io cosa devo fare?». Insomma, ha sempre ragione lui.
Mio padre, settimo figlio in una famiglia di agricoltori, è poi diventato notaio, come lei sa. Io sono laureato in legge, ma ho scelto un altro mestiere. Sarebbe interessante capire perché uno sceglie, o rifiuta, la professione del padre.
Nel mio caso hanno certamente contato la spinta e l’orgoglio del genitore. Papà era sottufficiale. I sottufficiali rappresentano l’ossatura portante di una forza armata, ma l’attività direttiva tocca agli ufficiali. Mio padre mi spronava: avanti, prova a diventare ufficiale! Intravedeva anche una promozione sociale per la famiglia Figliuolo, immagino.
Da piccolo respirava l’aria della caserma?
Non più di tanto. Ho frequentato il liceo classico. Inizialmente pensavo di scegliere lettere e filosofia, mi appassionava. Anche la storia mi piaceva, devo dire. Poi sono stato folgorato sulla via di Damasco. Ho cominciato a pensare: bah, il militare non mi dispiacerebbe, si fanno tante attività oltre a studiare, l’Accademia di Modena è prestigiosa, potrò raggiungere presto l’autosufficienza economica. A volte mi chiedo: ho barattato la libertà per l’indipendenza?
L’asilo?
L’asilo non me lo ricordo.
Non se lo ricorda?
Mah, forse non ci sono andato. Ho fatto la prima elementare a Bologna, papà era in un ente logistico che si chiamava «Quarto reparto riparazione aviazione leggera dell’Esercito». Quando l’ho visitato – ero già generale – mi hanno regalato una foto che ritrae papà vicino a un aereo leggero, che probabilmente stava manutenzionando per il successivo collaudo. Era in tenuta di volo.
Ricordi della scuola a Bologna?
Un episodio, in prima elementare. Allora ognuno doveva avere una bella grafia. Io non ero portato per la calligrafia, e mio padre era un po’… insomma… deluso da come scriveva il figlio. E non mancava di farmelo notare. Però a scuola ero bravo e prendevo tutti dieci. Addirittura ogni tanto, quando non me li davano, me li mettevo da solo! Una volta sono stato sospeso, in prima elementare: la maestra era assente, io ero salito in piedi sul banco e incitavo gli altri a fare chiasso. Mi è rimasto impresso. Anche perché papà e mamma si sono arrabbiati. Però non tantissimo, poi gli è passata.
Le scuole elementari le ha frequentate interamente a Bologna?
Solo la prima. Poi siamo tornati a Potenza, anche se mio padre ha continuato a lavorare a Bologna, dove è nato mio fratello, che è stato in Brasile per la FIAT e att...