Qui in agenzia circolano le notizie più assurde. Questo pomeriggio domenicale lo ricorderò per sempre. Qualcuno sussurra che Mussolini abbia impartito disposizioni per l’arresto di tutti i congiurati. Qualcun altro che, nell’incontro con l’ambasciatore del Giappone, il Duce abbia adombrato la possibilità di una pace separata con la Russia.
Sorrentino mi ha sussurrato invece che il Duce è andato dal re, a Villa Savoia, e da allora non si hanno più notizie di lui. Lo aspettavano a Palazzo Venezia ma non è tornato. Qualcuno dice sia andato direttamente a Villa Torlonia.
Non so più cosa pensare. Mi chiama il Presidente. Mi affaccio per sapere se gradisce un caffè. Mi fa cenno di entrare. Non c’è nessuno. È pomeriggio inoltrato, il sole sta per tramontare.
«Ascenzo, ti ricordi quando ti ho detto che non dovevi preoccuparti? Che il Duce aveva tutto sotto controllo? Non ti mentivo. Era la mia speranza, che volevo condividere con te. Ora invece non ne sono più sicuro. Nessuno mi parla, nessuno mi informa, sono tutti spariti. Stamane, mentre venivo, ho visto l’auto del Duce in via Nazionale. Avrei voluto fermarlo e chiedere a Lui, al mio amico di sempre, alla mia guida unica, cosa diavolo stia accadendo.
«Ma mi sono sentito piccolo. So cosa sta vivendo quell’uomo, cosa possa avere nell’animo, quanto gli pesi come una pietra nel cuore il tradimento degli amici più fidati, persino di suo genero. Tutta gente che senza di lui non sarebbe esistita.
«Perché anche tu sei consapevole di come è andato il Gran Consiglio, no? Lo sanno tutti in agenzia. Io l’ho appreso di sfuggita dal direttore, che secondo me si sta preparando a… Ma lasciamo perdere, misureremo sotto il sole le ombre degli uomini. Ora voglio avvertirti che tutto è possibile. Anche il peggio. Aspettiamo gli eventi e abbiamo fiducia nel Duce, ma intanto tu, Maria e i ragazzi pensate anche a prendervi qualche giorno in Abruzzo, o dove vuoi. Ma lontano da qui. Per ora limitati a studiare questa possibilità. Poi decideremo insieme se metterla in atto.»
«Grazie, Eccellenza. Ma in Abruzzo non posso tornare. Tutti sanno come la penso. E molti hanno ancora conti da regolare per quello che ho combinato da ragazzo. Mi permettete una domanda?»
Il Presidente sembra già essere tornato nei suoi cupi pensieri. Mi guarda sfuggente, il capo già chino su fogli dove non c’è scritto nulla. Mi fa cenno di sì con la testa, capisco che ho il tempo contato e allora precipito la domanda: «Ma è vero, come dicono qui, che Mussolini non è tornato a Palazzo Venezia dopo essere stato dal re?».
C’è un secondo di silenzio. Ora Sua Eccellenza alza la testa e mi guarda. Ha negli occhi qualcosa che sta sospeso tra lo smarrimento e la furia.
Forse più il primo.
«Perché, Mussolini è andato al Quirinale?»
«Dicono a Villa Savoia…» E mi rendo conto che sto facendo come Maria quando usa il suo insopportabile: “Dice…”.
Ora il Presidente non è più smarrito. Ha lo sguardo di un animale braccato che ha perso il senso dell’orientamento.
«Sia fatta la volontà di Dio. Fammi venire qui il direttore, subito.»
Entra Suster, il colloquio è breve. Esce agitato.
Poi Sua Eccellenza, si è fatta sera, mi dice di avvertire l’autista che lui sta per tornare a casa, in via Nibby.
Esce e mi dice solo: «A domani. Spero».
Poco dopo anche il direttore imbocca l’uscita. Immagino raggiunga la sua casa.
Si è fatta l’ora di cena ma non ho fame. Non telefono a casa da stamane. Ma non ho voglia. Dovrei rispondere alle domande di Maria, che ormai sono insistenti, e dovrei chiedere se Arnaldo ha dato cenni di vita. Ma non voglio sembrare un debole.
Tornerò a casa quando tutti dormono, come faccio da qualche giorno. Tanto nessuno mi parla, se non per far domande, dal momento in cui io e mio figlio siamo venuti alle mani. Anche Margherita, quando rincaso, fa finta di dormire.
Mi sento solo, a casa. Qui, almeno, mi dicono cosa succede. Mi sembra di essere, io umile usciere, al centro degli eventi.
Per una volta ho persino dato io una notizia, e che notizia, al mio Presidente.
L’orologio nel corridoio segna le 21.40. Devo appuntarlo con precisione, perché è arrivato qualcuno che chiede del direttore.
L’ora è inusuale, la persona è però molto distinta. Ha un plico tra le mani.
Mi dice di avere comunicazioni urgenti per Suster. Io gli chiedo se vuole che chiami il Presidente. Lui mi risponde: «Assolutamente no. Cercatemi il direttore a casa».
Ha un tono imperativo, ingiustificato per un visitatore. Ma non mi sembra il caso di fare il difficile.
«Va bene, chi devo dire?»
L’uomo tira un sospiro e dice d’un fiato: «Sono il professor Casorati, gli dica così. Lui capirà».
Anche io ho capito. Sono usciere, non per questo un cretino o un disinformato.
Il professor Casorati è il capo dell’ufficio stampa della Casa Reale.
Mi tremano le dita mentre compongo il numero. Temo di capire.
Dopo un paio di squilli Suster risponde: «Direttore, sono De Dominicis. Qui in agenzia c’è il professor Casorati che chiede di voi».
L’uomo incalza: «Ditegli che ho tre comunicati riservati e urgenti da consegnargli».
Riferisco al professore le parole di Suster che domanda se non può consegnarli al caporedattore Gallimberti.
L’uomo, severo, mi chiede di passargli la cornetta e mi guarda come per liquidarmi.
Ma quello è il mio posto di lavoro, al massimo posso allontanarmi di qualche metro, per discrezione.
Lo sento dire: «No, non posso darli al caporedattore Gallimberti, devo consegnarli a voi. È cosa della massima urgenza e importanza. Vi aspetto, fate presto».
Ora l’uomo si siede in sala d’aspetto. In agenzia siamo in pochi. Nella zona della presidenza solo io e lui. Non mi degna di uno sguardo. Sta lì, con la sua cartelletta serrata sulle gambe e non ostenta alcuna emozione.
Mi domanda solo, guardando l’orologio: «Dove abita il direttore?».
«In via dei Monti Parioli» gli rispondo.
Ora l’orologio segna le 22.15. Quei minuti con l’ospite muto non passano mai. Darei tutto l’oro del mondo per sapere cosa ci sia scritto in quella cartelletta.
Mi sembra che i ruoli si siano capovolti. Che sia lui a controllare me, non mi toglie gli occhi di dosso. Forse ha paura che chiami il Presidente o qualcun altro, e non il contrario. Improvvisamente lui è il padrone di casa e io l’ospite.
Faccio per alzarmi, ma lui mi scruta e mi chiede persino dove stia andando. Teme che sfugga al suo sguardo, anche solo per un attimo. Ma è anche vero il contrario. Sono io a dover controllare lui. Perciò restiamo fermi lì, come due animali che si studiano prima di attaccarsi.
Ecco Suster, arriva trafelato, ha guidato personalmente la sua auto e, ossequioso, fa strada al professore verso il suo ufficio. Chiude la porta.
Restano a colloquio dieci minuti. Poi Suster esce dalla stanza e mi guarda, come infastidito: «Ci siete solo voi, qui, per fare una telefonata?». «Sì» gli rispondo, ma avrei voluto aggiungere: «Chi altro dovrebbe esserci? Sono qui da anni, ben prima di voi, e ho sempre chiamato tutti, ovunque. Lo sapete benissimo, perché ora fate questa domanda idiota?».
Suster si guarda intorno, deluso. Mi dice: «Allora cercatemi al Quirinale il commendatore Costetti».
Costetti è il capo di gabinetto del ministro della Real Casa, Acquarone. Lo avevo più volte messo in comunicazione con Sua Eccellenza.
Mi risponde e lo passo al direttore. Ora vorrei chiamare a casa il Presidente per informarlo di quello che sta accadendo. Ma sento, impalpabilmente, che qualcuno sta controllando i miei gesti, che da quella porta ora solo socchiusa lo sguardo del professore e quello del direttore mi inchiodano, inerme, al mio posto di lavoro. Se alzassi il telefono, immagino che mi riprenderebbero.
Ma è Suster a uscire di nuovo, con dei fogli in mano, e a dirmi di andare subito da Gallimberti nella sua stanza e poi di cercargli Polverelli al Minculpop e subito dopo il sottosegretario Bastianini.
Lo faccio, rispettando la sequenza che lui mi ha indicato: Gallimberti, Polverelli – non c’è, ma il suo capo di gabinetto Corrias ci fa richiamare poco dopo – e infine Bastianini, che non è in casa. La moglie mi dice di passarle lo stesso il direttore.
All’elenco di chiamate ne manca una, per me importantissima, quella al Presidente. È evidente che lo stanno tenendo fuori dagli eventi. Era il primo che Suster aveva il dovere di cercare.
Ma ora lo fa. Non prima di essersi recato con dei foglietti in mano al reparto telescriventi. Quando torna, mi dice di passargli Sua Eccellenza.
Lo chiamo. Ha la voce tremante e irriconoscibile, sembra un bambino impaurito.
Mi dice: «Che sta succedendo, Ascenzo?».
«Non lo so, Eccellenza, il direttore vuole parlarvi con urgenza. Ve lo passo. Buonasera.»
Intanto sono all’improvviso arrivati dei carabinieri, che hanno preso il controllo della porta dell’agenzia e si sparpagliano nei corridoi.
Sono le 22.40, anche quest’orario devo annotarmi.
Da lontano vedo Sorrentino che allarga le braccia, è bianco in volto.
D’improvviso scende un silenzio di tomba. Si sente solo una radio, accesa ad alto volume. Anzi, è più di una. Sono disseminate nella stanza delle telescriventi, nella redazione, nell’ufficio del direttore all’interno del quale staziona ancora il professore. Accendo anche io quella che è nella stanza di Rosa, la segretaria del Presidente.
È strano, si ascolta, da tutti quegli apparecchi, solo il fruscìo del silenzio. Poi una voce che dice: «Attenzione! Attenzione! Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato presentate da Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini e ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato Sua Eccellenza il Cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio».
Non fa in tempo a finire l’annunciatore che si sente un’esplosione di gioia, anche negli uffici di quella redazione che era sempre stata obbediente al Duce e al fascismo. Io mi sento morire, sono confuso, guardo il distintivo che ho al bavero della divisa e non so cosa fare.
Intanto la radio prosegue dando lettura di due comunicati. Certamente quelli che il professore ha portato a Suster: «Italiani! Assumo da oggi il comando di tutte le Forze Armate. Nell’ora solenne che incombe sui destini della Patria ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita. Ogni italiano si inchini dinanzi alle gravi ferite che hanno lacerato il sacro suolo della Patria. L’Italia, per il valore delle sue Forze Armate, per la decisa volontà di tutti i cittadini, ritroverà, nel rispetto delle istituzioni che ne hanno sempre confortata l’ascesa, la via della riscossa. Italiani! Sono più che mai indissolubilmente unito a voi dalla incrollabile fede nell’immortalità della Patria.
Firmato: Vittorio Emanuele».
E subito dopo: «Italiani! Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a Sua Maestà il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di pot...