Ribelle
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Ribelle

La mia fuga dall'Arabia Saudita verso la libertà

  1. 276 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Ribelle

La mia fuga dall'Arabia Saudita verso la libertà

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Informazioni sul libro

Ero convinta che mio padre e mio fratello fossero venuti per uccidermi e ho provato a far capire a quelli delle Nazioni Unite che temevo che qualcuno li avrebbe aiutati. Sapevo come funzionavano le cose in Arabia Saudita: mio padre avrebbe potuto corrompere le guardie perché lo lasciassero entrare. Con queste parole drammatiche, la diciottenne Rahaf ricorda il terrore di quel gennaio 2019, quando - dopo accurata pianificazione - fuggì dalla propria famiglia e dal proprio Paese d'origine. Era certa che, se l'avessero catturata e riportata a casa, sarebbe andata incontro alla morte, lo stesso destino toccato ad altre donne ribelli. Ma riuscì a salvarsi aprendo un account Twitter per lanciare un sos al mondo e chiedere asilo in Occidente. Oggi, a tre anni di distanza da quei fatti, Rahaf pubblica questo libro straordinario in cui non solo ripercorre istante per istante la pericolosissima fuga, ma si abbandona a un racconto immersivo e assolutamente inedito. Tutta la sua vita precedente fa accapponare la pelle. Cresciuta con grandi privilegi economici ma sotto lo stretto controllo dei familiari maschi - compreso il padre, che ricopre un'alta carica politica -, Rahaf ha subìto un'infanzia e un'adolescenza di maltrattamenti, oppressione e inganni. Era, del resto, la norma nel Regno del "tutto proibito" in cui le donne, fin da bambine, vivono secondo i dettami di un sistema repressivo che le affida legalmente al totale controllo dei loro guardiani. Dal disagio nell'indossare il niqab, il velo integrale che toglie l'identità, al senso di privazione per i diritti negati (le ragazze non possono andare in bicicletta per non perdere la verginità!), alle punizioni esemplari per i primi amori proibiti, peggio ancora se omosessuali, Ribelle è un documento unico sulle inaccettabili violenze e umiliazioni che ancora oggi le donne subiscono e, insieme, uno sbalorditivo esempio di tenacia femminile nella ricerca della libertà.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831807395
Capitolo 1

In fuga

31 dicembre 2018

Tra me e la libertà c’era solo un viaggio in macchina. Da più di un anno aspettavo il momento giusto per scappare. Avevo diciotto anni e morivo di paura al solo pensiero che il piano che avevo messo a punto con la massima attenzione potesse ritorcersi contro di me. Ma il mio cuore fremeva di ribellione verso il terrore costante, le regole crudeli e le tradizioni arcaiche che soffocano e a volte uccidono le ragazze come me in Arabia Saudita, e si librava ogni volta che immaginavo una vita lontana da tutto questo.
Il telefono ce l’avevo, ma il passaporto lo teneva in custodia mio fratello maggiore. Dovevo per forza sottrarglielo e nasconderlo il prima possibile, per essere pronta quando sarebbe giunta l’ora di scappare. Cercavo di mantenere la massima calma, dovevo sembrare una figlia obbediente che preparava la valigia per andare in vacanza, e facevo una fatica tremenda a tenere a bada le ondate d’ansia che mi travolgevano mentre dalla mia camera vedevo che tutti in casa si preparavano a partire e poi scendevano di sotto a pranzare prima di mettersi in viaggio per il Kuwait.
Casa nostra, ad Hā’il, dista dieci ore di macchina da Kuwait City, dove saremmo andati a trovare dei parenti e a passare una settimana di vacanza in famiglia. Era l’occasione giusta per mettere in atto il mio piano. Lì seduta guardavo i miei fratelli caricare i bagagli in macchina e provavo un misto di tristezza ed emozione. Ero combattuta tra la voglia di abbracciarli, cosa in realtà proibita perché considerata un atto sessuale, e la speranza che niente e nessuno mi impedisse di svignarmela.
Le pareti della mia camera erano spoglie, non c’era niente che facesse pensare che ci viveva una giovane donna. Mostrare segni di vita sulle pareti di una camera da letto in una società tanto inflessibile non è halal, cioè non è permesso. L’opposto di halal è haram, che significa proibito. Ricordo quando mi hanno sequestrato l’orsacchiotto che tenevo sul letto da piccola perché era diventato haram: solo il Profeta può essere immaginato, in fotografia o in qualche altra forma. Una volta ho fatto dei disegni che ritraevano persone e animali e me li hanno confiscati, perché tutto ciò che ha un’anima è considerato in competizione con il Profeta e pertanto haram. Alla fine del mio primo semestre all’Università di Hā’il, hanno fatto sparire i miei libri e quaderni, per ribadire il fatto che non ci sarei mai più tornata. Seduta sul letto contemplavo la mia vita di ragazza saudita che amava la sua famiglia ma non riusciva a sopportare il mantra del “vietato alle femmine” in cui tutti credevano ciecamente. Ero la figlia e sorella ribelle che si allontanava a causa di una combinazione letale di contraddizioni culturali.
A scuola mi hanno insegnato che l’Arabia Saudita è l’invidia del mondo, il Paese più ricco e più bello di tutti, in cui si trova la maggior parte del petrolio del pianeta, un Paese che obbliga i suoi cittadini a compiere l’haji, il pellegrinaggio alla Mecca, almeno una volta nella loro vita, per rinnovare il senso del proprio ruolo nel mondo. In che modo il petrolio, le località turistiche e i viaggi sacri lo rendessero il più appetibile della terra è una cosa che mi sono chiesta fin da piccola. E mi ha sempre disturbato il fatto che chiunque compia un haji possa essere perdonato per qualsiasi peccato abbia commesso, anche se ha picchiato la moglie o ucciso qualcuno.
Il mio sguardo infantile era affascinato da ben altri aspetti dell’Arabia: le montagne vicine a casa che reclamavano di essere scalate, dove andavamo a fare picnic ed escursioni a volontà, il vasto deserto in continuo mutamento che non ha mai smesso di rapire la mia immaginazione, con le sue dune di sabbia ondulata che cambiano colore, dal freddo nocciola dell’alba al rosso acceso del tramonto. Quando vi facevamo qualche gita serale di famiglia, per sfuggire alla calura soffocante dell’estate, giocavamo a nascondino al buio, brancolando e affondando i piedi nella sabbia soffice in cerca di un appoggio sicuro, e andavamo a caccia di conigli e dipodidi (roditori del deserto), felici e spensierati. Facevamo anche le gare di corsa e naturalmente a chi vinceva spettava un premio. Cantavamo canzoni, recitavamo poesie, e c’era una danza tradizionale chiamata ardah che, pur essendo un’usanza maschile, ballavamo anche noi bambine con i nostri fratelli, per divertimento. Mamma e papà ci raccontavano sempre storie diverse da quelle che sentivamo a scuola. Alcune parlavano della famiglia Āl Rashīd, che governava la nostra regione prima che la famiglia Āl Saʿūd ne trucidasse i membri e prendesse il potere, altre della storia del nostro popolo e della capacità dei nomadi beduini di sopravvivere nel deserto mangiando pochissimo e vivendo in modo molto semplice. Ma le storie che ci appassionavano di più erano quelle su loro due, su come si erano innamorati, su quando erano giovani. Questo tipo di racconti sono il collante che tiene unita una famiglia. Non ci stancavamo mai di sentirli parlare del passato e ora so che stavamo archiviando ricordi preziosi.
Ciononostante, sono stata cosciente delle contraddizioni della mia terra sin da bambina. Il panorama offre soprattutto sfumature di nocciola e bianco, con chiazze di verde nei dintorni delle oasi e montagne con affioramenti rocciosi e alberi, ma i colori tenui del paesaggio dell’Arabia Saudita sono in netto contrasto con tutti quei corpi avvolti in sacchi neri che si muovono tra le vie secondarie. Le donne e le ragazze, dai dodici anni in su, sono obbligate a coprirsi per evitare che un uomo posi lo sguardo sulle loro forme. In realtà, a casa mia, già a nove anni ero costretta a indossare l’abaya, una tunica nera e goffa che copre tutto il corpo dalle spalle in giù, e a partire dai dodici anni anche il niqab, il velo che avvolge il viso come una maschera e lascia liberi solo gli occhi. Ero ancora una bambina quando ho cominciato a chiedermi che razza di punizione fosse mai questa. Se un uomo non riesce a controllare se stesso, perché è la donna a doversi infagottare come se fosse colpa sua? E se le donne devono proprio coprirsi, perché mai gli uomini, quando non indossano jeans e vestiti occidentali, possono portare tuniche bianche che proteggono dai raggi del sole cocente, mentre loro sono costrette al nero che invece li assorbe?
Più della metà della popolazione dell’Arabia Saudita, che conta 34 milioni di persone, ha meno di venticinque anni, un dato che ho sempre considerato un buon presupposto per il cambiamento. Ma coloro che sono a capo del Regno, e pretendono di agire in nome di Dio, continuano ancora a crocifiggere, decapitare e torturare chiunque non sia d’accordo con il governo, nonostante quest’ultimo abbia confermato importanti emendamenti alle severe regole islamiche seguite dai sauditi, e invitato il popolo alla tolleranza e alla moderazione. La Muṭawwiʿa (la polizia religiosa saudita) fa capo a un organo governativo chiamato Comitato per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio e pattuglia le strade e persino le università con la scusa di verificare che i cittadini si comportino a dovere, ossia che i negozi chiudano cinque volte al giorno per le preghiere, che le donne rispettino rigorosamente le norme sull’abbigliamento e che la separazione tra i sessi sia fanaticamente osservata, così come il divieto sul consumo di alcolici. In realtà, moltissime persone non pregano affatto, le ragazze incontrano i loro ragazzi in luoghi segreti e si bevono regolarmente alcolici di nascosto. Dato che il 90 per cento dei lavoratori in Arabia viene dall’estero – i sauditi non fanno gli operai o i camerieri – se riesci a sgattaiolare fuori per vederti con gli amici, il barista indiano o afgano del locale in cui ti trovi non andrà mai a riferirlo a qualcuno, e il più delle volte nemmeno capisce la lingua in cui parli. Gran parte dei sauditi che ha un impiego lavora per il governo, quindi gli uomini dopo pranzo riposano e tendono a ritrovarsi verso le cinque del pomeriggio per passare del tempo insieme fin dopo la mezzanotte.
La mia famiglia è musulmana sunnita della tribù Shammar, che ha governato nella regione nordoccidentale di Hā’il finché la dinastia saudita non ha preso il sopravvento. Ne è capitale l’omonima città di Hā’il. Si tratta della parte più conservatrice dell’Arabia Saudita e il suo popolo è noto per la sua generosità, ragion per cui la nostra porta è quasi sempre aperta per chi desidera bere un caffè o mangiare qualcosa. Facciamo parte di un’élite: viviamo nel quartiere residenziale di Ṣalāḥ al-Dīn, la zona ricca di Hā’il dove non ci sono negozi ma solo abitazioni, in una grande casa con nove camere da letto e due cucine (una al primo piano per cucinare i pasti e l’altra al secondo piano per gli spuntini), dieci bagni, sei salotti e un piccolo giardino. Abbiamo un cuoco, un autista e una governante, e sei automobili di famiglia. Quella che ci aspetta nel vialetto per portarci in Kuwait è una Mercedes nera. La mia famiglia gode anche di molti vantaggi e privilegi, come la possibilità di andare in vacanza in altri Stati arabi, fra cui la Giordania, il Qatar, il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia.
Ma quando si tratta di nutrire l’anima, manca l’essenziale. Per esempio: casa nostra non ha terrazze o balconi, perché una donna perbene non dovrebbe mai sedersi all’esterno, dove qualcuno potrebbe vederla. Le finestre sono sempre chiuse, così nessun uomo può scorgere le donne che vivono all’interno. Una donna – ovvero qualsiasi persona di sesso femminile a partire dai nove anni in su – non può andare al mercato o a trovare i vicini, non può uscire a comprarsi biancheria intima o trucchi, e men che meno fare una passeggiata, senza essere accompagnata da un marito, un fratello o un figlio che la tengano d’occhio. Ci è proibito andare al cinema, ma guardiamo i film americani sul computer. Ai musulmani poi è vietato convertirsi a un’altra religione. Gli atei sono considerati dei terroristi, così come le femministe. L’omosessualità è punibile con la morte. Sposarsi tra cugini è la norma e lo hanno fatto talmente tanti sauditi che i genetisti stanno tentando di convincere la gente a smetterla, perché le malattie genetiche gravi sono aumentate in modo preoccupante. Anche la poligamia maschile è comune: un uomo può divorziare dalla moglie semplicemente pronunciando per tre volte la frase: “Io divorzio da te”. Una pratica chiamata “triplo talaq”.
Questi sono gli ingredienti di un Paese tribale, che si crea leggi proprie e se ne infischia del resto del mondo. L’ipocrisia regna a tal punto che anche se la religione disciplina ogni aspetto, dall’educazione alla giustizia allo stesso governo, il 95 per cento degli edifici storici della Mecca, molti dei quali avevano più di un migliaio di anni, è stato demolito per l’esasperato timore che distogliessero l’attenzione dal Profeta. Persino i palazzi legati alla famiglia di Maometto sono stati distrutti. E mentre gran parte delle donne è costretta a infagottarsi con tuniche simili a sacchi neri, nella rete televisiva di proprietà della famiglia reale le presentatrici dei telegiornali si vestono all’occidentale. In Arabia Saudita la doppiezza è all’ordine del giorno.
Nel mio Paese gli uomini sono tutto. Sono loro a prendere ogni sorta di decisione, a detenere il potere e a custodire le chiavi della cultura e della religione. Le donne, al contrario, sono ignorate, bullizzate, oggetto della distorta ossessione maschile per la purezza. È un castello di carta complicato e contorto che rischia di collassare di fronte a ogni affermazione di verità.
Mio padre, Mohammed Mutlaq al-Qunun, fa parte della classe dirigente dell’Arabia Saudita in quanto governatore di Al Sulaimi, una città a circa centottanta chilometri da Hā’il. Per svolgere il suo lavoro deve interagire con la famiglia reale. Lui non vive con noi. Come consentito dalla legge, ha sposato una seconda moglie quando avevo quattordici anni e una terza quando ne avevo diciassette. La sua poligamia ha cambiato la vita a me, mia madre e i miei sei fratelli e sorelle. Mio padre ha smesso di passare le vacanze con noi, e mia madre Lulu si è sentita completamente rifiutata. Ferita e addolorata, è andata in depressione e le è persino cambiato il carattere. Ha pensato che mio padre si fosse risposato perché era invecchiata e lui voleva donne più giovani. E aveva ragione.
Ecco perché a partire per quella vacanza eravamo solo io, mamma e i miei fratelli e sorelle. Io sono la quinta di sette figli. Mia sorella maggiore, Lamia, è sposata, e la secondogenita, Reem, non poteva venire. Quindi in macchina eravamo in sei. Majed sedeva davanti con mio fratello maggiore Mutlaq, che avrebbe guidato; mamma e io eravamo strizzate sul sedile posteriore, insieme al piccolo Fahad e a Joud, l’ultima arrivata. Io dovevo sedere nel mezzo perché, pur indossando abaya e niqab, non dovevo essere visibile dall’esterno, attraverso i finestrini. Una postazione che si sarebbe rivelata vantaggiosa per scoprire dove mio fratello nascondeva i passaporti e per attuare il disperato tentativo di prendere il mio senza farmi vedere.
Una volta usciti tutti di casa, mentre ci stavamo sistemando in macchina, è arrivato mio padre. Era venuto a salutarci e a regalare a ognuno di noi un po’ di soldi da spendere in vacanza. Io ero già seduta in auto. Il suo sorriso, così ampio e caloroso, è talmente seducente che gli riesce molto facile conquistare le persone. Meno male che avevo il volto coperto dal niqab, perché per quanto mi fossi sforzata di ricambiarlo, si sarebbe accorto della mia tristezza mentre lo guardavo per l’ultima volta. I sentimenti che provavo per lui erano confusi. Mi aveva trattato malissimo e aveva fatto cose terribili a mia sorella e a mia madre, tuttavia, non so come né perché, lo amavo ancora. Le aspettative che lui, mia madre e sicuramente anche i miei fratelli nutrivano nei miei confronti mi allontanavano da loro. Mi chiedevano sacrifici che proprio non riuscivo a fare. Quando mi ero tagliata i capelli mi avevano rinchiuso in una stanza finché non avevano trovato una scusa decente per giustificare la mia testa rapata. Alla fine mi avevano costretto a indossare un turbante per nascondere il mio aspetto e avevano detto a tutti che avevo avuto un incidente domestico, che mi ero bruciata i capelli ed ero stata costretta a rasarli. Uscire senza il viso coperto dal niqab è un’offesa che richiede una punizione severa, e per avere trasgredito a quella regola ho ricevuto una sacco di schiaffi, calci e pugni. Se avessero scoperto che avevo già fatto sesso con un uomo, mi avrebbero uccisa per salvare l’onore, oppure, nel migliore dei casi, obbligata a sposare uno sconosciuto. Se non me ne fossi andata non avrei potuto vivere la mia vita e al minimo sbaglio avrei rischiato la morte. Consideravo quel viaggio come il primo giorno di una nuova vita che aspettavo da un secolo, da quando li avevo pregati di farmi continuare gli studi universitari in un’altra città e mi avevano seccamente negato quel diritto. La vacanza in Kuwait era la mia unica possibilità per non vivere in trappola come mia madre e le mie sorelle maggiori.
Quando l’auto si è allontanata dall’unica casa che avessi mai conosciuto, non mi sono voltata. Ma non appena abbiamo lasciato il quartiere e ci siamo diretti verso l’autostrada, il mio sguardo si è ineluttabilmente posato, in lontananza, sulle due cime di Aja e Salma, simboli della felicità e della tragedia che tuttora mi accompagnano. Hā’il è circondata dalle montagne, ma quelle due vette in particolare, che si stagliano a nord della città, sono tra le più alte e riconoscibili della regione. Le conoscono tutti come scenario della storia d’amore tra Aja, che apparteneva alla tribù degli Amaleciti, e Salma, proveniente da un’altra tribù. Dopo che i genitori di entrambi avevano impedito loro di sposarsi, i due sfortunati amanti erano fuggiti insieme, ma solo per finire, ahimè, catturati e uccisi dalle rispettive famiglie. Aja era stato crocifisso su una cima e Salma sull’altra. Ho sempre saputo che la loro storia ci veniva raccontata per metterci in guardia, non per via del suo romanticismo.
La riflessione su quei giorni lontani passati in montagna non è durata molto, perché dovevo escogitare al più presto un modo per prendere il passaporto. Avevo seguito i movimenti di mio fratello Mutlaq quando era entrato in macchina. Sapevo che li aveva tutti lui, essendo la figura maschile più anziana; il suo ruolo durante la gita era tenere sempre con sé i documenti importanti. Di solito durante i viaggi li teneva in tasca, perché aveva paura che glieli rubassero, ma stavolta era tranquillo, come del resto anche tutti gli altri, perché eravamo insieme in macchina e stavamo andando a trovare dei parenti in Kuwait. Dacché si era seduto al posto di guida non gli avevo più tolto gli occhi di dosso e lo avevo visto infilare i passaporti nel vano portaoggetti. A parte il passaporto, ero preoccupata anche per il telefono, avevo paura di perderlo o che qualcuno me lo chiedesse per fare una chiamata e poi se lo tenesse. Ogni dettaglio del mio piano era nel cellulare, con un nome in codice, incluse le istruzioni per prenotare un volo qualsiasi, per entrare in certi siti web, per raggiungere la Thailandia dal Kuwait e, una volta lì, per capire cosa fare, dove stare e come prenotare un volo per l’Australia, la mia destinazione finale, il Paese a cui avrei chiesto asilo. Nel telefono c’erano anche tutti i contatti di amici e amiche fuggiti prima di me, che vivevano all’estero. Da oltre un anno mi sentivo con loro, che si erano stabiliti in Germania, Francia, Inghilterra, Canada, Svezia e Australia. Mi avevano dato un sacco di consigli su come evitare trappole come quella delle autorità australiane che non vogliono immigrati e chiedono di parlare al telefono con i genitori delle ragazze saudite che arrivano in aeroporto da sole. Un’amica mi aveva avvisato, così un mio amico che vive nel Regno Unito mi aveva dato il suo numero di telefono e, se fosse stato necessario, avrebbe risposto lui, fingendosi mio padre. Avevo ogni genere di soluzione per ogni potenziale problema, tutto memorizzato sul cellulare. Avevo anche dei soldi, circa diecimila riyal sauditi, che corrispondono a circa 2300 euro, depositati sul conto di un’amica. Li avevo messi da parte un po’ alla volta negli ultimi sette mesi e avevo il PIN per prelevarli. Il piano era andare in Kuwait con la mia famiglia e, non appena entrata in possesso del passaporto, scappare, andare all’aeroporto, comprare un biglietto per la Thailandia e da lì una coincidenza per l’Australia. Laggiù avevo delle amiche che mi avrebbero accolto allo sbarco.
Abbiamo attraversato il confine per entrare in Kuwait a mezzanotte. Il tempo di arrivare in albergo e la temperatura era già scesa di sette o otto gradi. Tremavo di freddo, ma era più per la paura che per la brezza notturna. Abbiamo fatto il check-in alle due del mattino. Ancora non avevo recuperato il passaporto perché non ce n’era stata l’occasione. Ho esaminato la suite dell’hotel: due camere (una per i miei fratelli e l’altra per me, mia sorella e mia madre), un bagno e un salotto. Era il luogo da cui sarei scappata, e il fatto di avere mia madre in camera mi avrebbe creato problemi, perché ha il sonno leggero e se qualcuno si muove di notte si sveglia subito. Così ho chiesto a mamma di poter dormire in salotto, con la scusa che la camera era piccola e c’era solo un letto matrimoniale per tutte e tre, ma ha deciso che in salotto ci avrebbe dormito lei.
La vacanza era stressante. Dovevo fingere di divertirmi a fare acquisti, mangiare, visitare i centri commerciali e i ristoranti e girare per la città quando in realtà ero tesa come una corda di violino, sempre in guardia e pronta a cogliere il momento giusto per dileguarmi. Abbiamo passato diversi giorni al centro commerciale, a comprare vestiti e altre cose. Di nascosto dagli altri mi sono comprata una minigonna e l’ho ficcata in borsa. A casa non avrei certo potuto indossare niente che mettesse in mostra le gambe, ma presto avrei potuto sfruttarla in Australia, e saperla nella borsa era come un’iniezione di energia per la mia imminente fuga dalla famiglia. Siamo anche andati al mare, un’esperienza nuova per me, che ha inasprito la mia opinione sui sacrifici imposti alle donne saudite. Mia madre ha detto che le donne che stavano in spiaggia e facevano il bagno in costume erano ragazzacce, prostitute insomma. Ma io sapevo che non era vero. Perché entrare in acqua a nuotare e schizzarsi, rinfrescarsi e divertirsi, era giusto per i maschi, cioè per i miei fratelli, e immorale per me? Ero lì su una spiaggia, immobile, avvolta da capo a piedi nel mio abaya, e continuavo a sudare e a giurare a me stessa che non appena arrivata in Australia mi sarei comprata un bikini e avrei nuotato quanto mi pareva. In realtà non lo so nemmeno fare, perché alle ragazze saudite della mia regione non insegnano niente del genere.
Quel giorno in spiaggia mi ha rivelato altre cose. Non avevo mai visto l’oceano prima di allora, con le sue correnti e il fragore delle onde. Una vista incantevole, la marea che si alza, il blu dell’acqua al largo e le creste bianche delle...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ribelle
  4. Capitolo 1. In fuga
  5. Capitolo 2. Bambina
  6. Capitolo 3. Ordini sacri
  7. Capitolo 4. Amare verità
  8. Capitolo 5. Codici segreti
  9. Capitolo 6. Evasione
  10. Capitolo 7. Trionfi e conseguenze
  11. Lettera alle mie sorelle che devono fuggire dalle vite che vivono
  12. Copyright