Gennaio 2019. Io e Jacopo, col quale ho condiviso l’esperienza in Rojava, siamo tornati in Europa da quasi sei mesi. Afrin è occupata da dieci. Il nuovo anno non ha neanche tre giorni.
Siamo tornati qui per parlare di quello che succede in Kurdistan, in Siria, per raccontare l’esperienza della rivoluzione confederale. E da quando siamo arrivati, abbiamo cominciato ad andare in giro per scuole, centri sociali, festival di ogni sorta, sagre, rassegne, università pubbliche e private, centri di ricerca, fondazioni, gruppi di teatro, associazioni, cooperative, parrocchie... Se ci invitano e vogliono ascoltare, noi andiamo.
Troppe poche persone sapevano di quel che stava accadendo in quelle terre: si era parlato di guerra civile siriana, di guerra all’Isis, ma sempre poco e il più delle volte male. Leggere i giornali non aiutava a informarsi né a comprendere. Se della guerra si sapeva poco, ancora meno conosciuta era la straordinaria esperienza politica e sociale del Confederalismo democratico. Se non fosse stato per il prezioso lavoro d’informazione indipendente svolto da alcuni siti, non avremmo mai saputo che le Ypg e Ypj, l’esercito popolare che stava affrontando e sconfiggendo l’Isis, erano mosse dall’intelligenza politica di un’intera società.
Il ritorno non è stato facile. Andiamo in giro con gli occhi affollati, pieni di cose, molte delle quali difficili da riconoscere per le persone che incontriamo. Una guerra, con le incolmabili assenze che lascia. L’inestinguibile debito che chi sopravvive ha verso le cadute e i caduti. La storia di un popolo che da decenni lotta e resiste, con migliaia di vite donate per la ricerca di una libertà di cui poter godere insieme. Una filosofia e una cultura rivoluzionarie, un mondo in cui le donne decidono per se stesse e sono protagoniste della vita propria e della comunità. Un sistema diverso dallo Stato e dal capitalismo, più giusto ed efficace nel confrontarsi con le questioni che ogni società affronta.
Raccontavamo di un vissuto immenso, usando il nostro, che ne era solo una minuscola parte, come una crepa da cui affacciarsi per allargare l’orizzonte. Spesso eravamo in difficoltà. Tutti ci guardavano come fossimo creature da un altro pianeta. Non era l’ingenuità di certe domande o la mancanza di delicatezza di altre a disturbarmi. Del resto io stessa, un anno prima, ero nella stessa situazione: in Europa c’è la pace da settant’anni, non sappiamo cosa sia la guerra. Quello che mi stupiva era rendermi conto che le persone che avevo di fronte non avevano alcuna percezione di un punto cruciale del mondo contemporaneo: la guerra non è un’eccezione.
Quando partiva il che-persone-straordinarie-che-siete, nel giro di due secondi ero a disagio. Lo capivo, ma non mi faceva meno male. L’istinto era quello di interrompere la cantilena con qualcosa che avrebbe creato tensione e messo tutti a disagio, credo di averlo fatto qualche volta, così per condividere un po’ la posizione del cazzo in cui mi sentivo io.
In certi casi ci rimanevo proprio male, ma mi rendevo conto d’essere ipersensibile: non volevo mortificare nessuno, quindi tendevo a stare in silenzio o a dire solo lo stretto necessario. Anche le persone a noi più vicine ci si rivolgevano con una certa cautela che mi rendeva guardinga. Avevo sempre paura di essere una presenza troppo ingombrante, di pesare sugli altri, qualunque cosa facessi o dicessi. Quando avvertivo questa sensazione m’incupivo, mi sentivo sola e irraggiungibile, ghiacciata. Altre volte invece ero proprio irata. Non sono io che sono di troppo, siete voi che avete la testa piena di cazzate e manco uno spazietto per il mondo in cui, vi piaccia o no, vivete. Avevo la sensazione che il mio vissuto andasse bene solo finché c’era da fare della retorica, poi basta: rimettitelo dentro, potresti metterci a disagio. Mi sentivo tranquilla solo con Jacopo e pochissime altre persone. La cosa era reciproca, infatti non ci separavamo mai troppo a lungo. Per un anno, Jacopo e io abbiamo fatto tutto insieme.
Pensavo alle mie compagne lontane. Finché ero con loro, tutto lo schifo che ti lascia la guerra lo gestivamo insieme. Perché sono qui? Me lo chiedevo troppo spesso. A ripensarci ora, mi sento davvero ingiusta: quelle sensazioni parlavano molto più di me che della gente che mi stava attorno.
Sono ancora i primi di gennaio 2019 quando ci svegliamo al Can Tonal, in Catalogna. È la prima volta, da mesi, che abbassiamo del tutto la guardia. Certe cose le capisci solo quando ne hai esperienza diretta e in questo posto di esperienza ne hanno: un loro compagno è stato nelle Ypg, alcuni di loro sono stati in delegazione in Rojava già nel 2014. Conoscono il nostro vissuto e, almeno in parte, lo condividono.
Il Can Tonal è una specie di piccola comune poco distante da Barcellona: un gruppo di persone ha acquistato collettivamente un terreno incolto e ha tirato su un ecovillaggio. Hanno fatto tutto con le loro mani. All’inizio la gente nei dintorni non capiva chi fossero, era diffidente. Non stento a crederlo: ritrovarsi un gruppo di persone che comincia a vivere in tenda in aperta campagna è una di quelle cose che ti fa fare delle domande. Piano piano il progetto ha preso forma, le persone si sono conosciute e ora tutti danno una mano alla comune. Chi coltiva e vive nei dintorni passa a salutare, si ferma per fare due chiacchiere, c’è proprio una bella atmosfera. E anche se nemmeno Ana, una compagna che adoro e con cui passo molto tempo, è riuscita a sciogliere le mie riserve sui bagni a secco, devo ammettere che questo posto è una gran cosa.
La situazione in Catalogna è complessa. Mentre noi eravamo in Kurdistan c’è stato un referendum per l’indipendenza della regione che ha visto un confronto durissimo tra la popolazione catalana e il governo centrale spagnolo, che ha cercato di impedire il voto con l’esercito.
Mentre siamo lì, si svolgono dei seminari di discussione sul post referendum. Ci sono organizzazioni sindacali e gruppi autonomi, il dialogo è acceso, sentito: è evidente che gli avvenimenti dei mesi precedenti hanno attraversato e scosso tutta la società. Per immaginare una possibile soluzione per la penisola iberica, il gruppo del Can Tonal ha proposto un seminario di approfondimento sul Confederalismo democratico. Ci hanno invitati a partecipare e siamo loro ospiti da quasi una settimana, ma ormai la maggior parte delle persone se n’è andata. Siamo giusto una decina e trascorriamo molto tempo nei campi e a discutere.
Per essere gennaio, oggi è proprio una giornata calda. La mattinata l’ho passata a leggere al sole, tra poco sarà il momento di cominciare a preparare il pranzo. Torno in camera, guardo il telefono al quale non riservo attenzioni da due giorni: che lusso. Davide ha chiamato varie volte, ho anche parecchi messaggi. È successo qualcosa.
Ciao Universo, sono io. Per favore, nessuna notizia di morte.
Mi basta questo, il resto fai tu. Ti prego, dammi retta. Grazie.
Ho formulato la mia preghiera, ora posso guardare lo schermo. Senza che me ne accorga, la mano libera mi scivola in tasca e trovo i sassolini con cui do da fare alle mani quando devo sfogare energia cinetica. Faccio partire la chiamata, metto in vivavoce e comincio a leggere: «Chiamami appena puoi. È urgente. Vi cerca la Digos».
La Digos, Divisione investigazioni generali e operazioni speciali (detta anche polizia politica), fa capo alla direzione centrale della polizia di prevenzione del ministero dell’Interno. I digossini non vanno in giro in divisa, ma in molti casi sono ampiamente riconoscibili. Per esempio, durante le occupazioni a scuola, improvvisamente sui ponteggi di una facciata in ristrutturazione cominciavano a spuntare degli operai con i mocassini. Nel mio quartiere, periodicamente, agli angoli delle strade comparivano signori seduti su delle moto, che leggevano lo stesso giornale per dieci ore consecutive. Ricordo che mi domandavo se era un modo per farci capire che ci controllavano oppure se avevano davvero la convinzione di passare inosservati e, nel secondo caso, se questo fosse più indicativo del fatto che erano scemi loro o che pensavano lo fossimo noi. La loro occupazione principale è quella di raccogliere informazioni sulla vita delle persone. In piazza, durante le manifestazioni, li riconosci subito: sono quelli in borghese con gli auricolari, che riprendono e fanno foto. Quelli che ti si avvicinano facendo minacce, più o meno velate, chiamandoti per nome. Tendono ad avere gli stessi gusti in fatto di moda, come la passione per il borsello a tracolla, per le Hogan (scarpe costose e di dubbio gusto) e per gli occhiali da sole tra i più brutti che abbia mai visto.
Scendo le scale di corsa, vado a cercare Jacopo. Ci troviamo sui gradini.
«Hai visto il telefono?» mi chiede.
«Sì, sto chiamando Davide.»
Ascoltiamo in silenzio gli squilli del telefono.
«Ehi, ciao. Hai visto i miei messaggi?» risponde Davide.
«Sì, abbiamo visto, c’è anche Jacopo, che succede?»
«Mi hanno notificato una richiesta di sorveglianza speciale, per me, te Jacopo, Fabrizio e Paolo. Per la partecipazione alle Ypg. Ho già sentito Lea, chiamate Novaro. Ora vi mando tutto il documento in mail.»
«Cosa dicono i fogli?»
«Sorveglianza speciale con divieto di dimora a Torino per due anni, in quanto aderenti alle Ypg e Ypj, “per aver preso parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’art. 270-sexies del codice penale”.»
Ok cervello, che informazioni abbiamo al riguardo?
Cerca il file sorveglianza speciale.
La sorveglianza speciale è una misura preventiva, il che vuol dire che viene imposta quando non c’è un reato, ma solo il sospetto che possa avvenire: chi la riceve non è colpevole di qualcosa in particolare, ma è riconosciuto come potenziale pericolo per la società. La sorveglianza speciale può comportare diverse restrizioni: sicuramente ci sono dei rientri notturni, ma non ricordo bene il resto. La sostanza, però, è che devi smettere di fare politica. Finora ne hanno chieste parecchie, ma date poche. Ci sono dei precedenti, l’hanno già avuta dei compagni da quando sono a Torino, ma nessuno dei casi che conosco si riferisce alla partecipazione a un conflitto all’estero oppure all’uso delle armi.
«Scusa, ma se nei documenti si parla di terrorismo, perché non ci accusano di quello? Ne hai parlato con l’avvocata?»
«Sì» risponde Davide, «dice che probabilmente è perché non c’erano gli estremi per inquisirci per terrorismo, sennò l’avrebbero fatto, come quando ci aveva provato la procura di Nuoro. E visto che a quelli non era andata bene, avranno pensato che la sorveglianza hanno più possibilità di portarsela a casa. Ma non deve succedere. Dobbiamo prendere parola pubblicamente in ogni modo, dobbiamo tirare su una campagna, organizzarci bene. La situazione è molto grave, c’è in gioco il nome delle Ypg e Ypj.»
Io e Jacopo ci guardiamo annuendo.
«Siamo d’accordo. Hai già sentito altre persone?»
«No, aspettavo voi. Dobbiamo organizzare una conferenza stampa al più presto, alcune agenzie danno già la notizia, ci chiamano “foreign fighters”, come quelli che si uniscono all’Isis. La faccenda va chiarita immediatamente.»
«Sì, e in tempi brevi. Noi però siamo all’estero, non torneremo in Italia prima di qualche giorno e non si può aspettare così tanto. Chi c’è a Torino oltre te?»
«Solo Fabrizio. Paolo è a Pachino.»
«Per me è da fare comunque. Tu e Fabrizio fate la conferenza stampa e noi tre possiamo prendere parola in altro modo....