Mia madre riattaccò il telefono con un colpo secco, spense la sigaretta e ordinò di prepararsi a partire immediatamente. La Tata divenne seria e le chiese: «Ma cosa sta facendo, signora, cosa sta facendo, per l’amor di Dio…».
«Andremo alla casa in campagna. Chiudiamo questa storia una volta per tutte.»
«E i bambini, pensi ai bambini, signora…»
«Vestili e falli salire in macchina… sali anche tu, e in fretta.»
«Stavolta siamo nei guai…»
«Sì, Tata, siamo nei guai…» rispose, mentre controllava freneticamente che tutto il necessario per il viaggio fosse nella sua borsa, e continuò: «Oggi è capodanno, no? Be’, lo festeggeremo come si deve… in famiglia… noi due, i bambini e il padre… Finisce l’anno, finirà anche questa storia».
Di corsa si precipitò al piano superiore e a metà della rampa di scale si affacciò aggrappandosi al corrimano come fosse una gargouille.
Gridò: «Dobbiamo andare, Reme, su, forza! Mi hai capito? E porta lo champagne, dobbiamo festeggiare».
Quando mia madre chiamava la Tata per nome, si trattava di qualcosa di serio e non era mai di buon auspicio.
«Porto anche i fucili e li carico, signora? Già che ci siamo…»
Scuotendo la testa, rassegnata, invocando la sua armata di santi protettori, la Tata si fece il segno della croce più volte, si diresse verso la zona dei bambini e, dando ordini con voce da sergente, disse: «Miguel… Lucía… Paola… vestitevi, andiamo in campagna!».
Faceva caldo. Nonostante fosse dicembre, faceva molto caldo dentro la nostra Dodge Barreiros, si cuoceva. Il cielo azzurro era accecante, ma se si pensava di abbassare il finestrino, anche solo un po’, entrava un’aria fredda e secca che ti tagliava le guance come un rasoio; così, preferimmo lasciare che i raggi ci cuocessero attraverso il vetro. Visto che erano circa le tre del pomeriggio, il sole, che si stava spostando a ovest, picchiava con tutta la sua forza sul lato destro della macchina e il lato peggiore del viaggio era quello dietro il sedile del passeggero, quello che, non a caso, avevo gentilmente ceduto a mia sorella Lucía affinché si arrostisse viva: la fine che meritava di fare per essere scontrosa e lamentosa. Faceva smorfie, strizzava e si strofinava gli occhi, il che mi rendeva molto felice. Avevo una vera e propria antipatia per lei. Paola, troppo piccola per accorgersi di tutto ciò, era seduta in mezzo a noi due sul sedile posteriore e se ne stava per i fatti suoi, ignara di tutto. Faceva girare una piccola bambola afferrandola per le braccia e giocando a torturarla. Erano entrambe bagnate fradicie, intrappolate nei loro cappotti di lana di mezza stagione abbottonati fino al collo e spessi come coperte di Zamora, che per quanto fingessero di essere inglesi erano sempre di pessima qualità. Ci avevano proibito di toglierli.
Mia madre guidava e fumava. Potevo vedere attraverso lo specchietto retrovisore la sua determinazione e il luccichio della sua rabbia dietro gli occhiali scuri. La Tata ogni tanto si girava per controllare se qualcuno di noi fosse morto di caldo o di fame, dato che avevamo lasciato la nostra casa a Somosaguas senza mangiare niente. Ma nessuno si lamentava. Era come se si potessero sentire i pensieri di tutti, questo sì, ma nessuno si lamentava. Nessuno parlava. Era proibito fare anche quello.
La notte non ero riuscito a dormire. Dal mio letto, continuavo a sentire mia madre parlare a voce alta e discutere con la Tata. Le avevo ascoltate per ore e ore e alla fine, stufo, decisi di andare a vedere cosa stava succedendo, di dare un’occhiata in giro. La Tata non aveva chiuso né la porta della mia stanza, né quella del soppalco che separava la zona dei bambini dalla camera da letto matrimoniale. Quando voleva rendermi partecipe delle cose di casa o testimone di eventi, accostava le porte lasciandole leggermente socchiuse. Forse perché questo la faceva sentire sicura e meno sola nelle liti e negli intrighi di famiglia. Il problema è che verso la fine dell’estate queste liti avevano cominciato a essere molte, troppe, senza tregua, ogni giorno. Poterne parlare con qualcuno di cui si fidava, con il senno di poi, la faceva sentire molto tranquilla. Con me, l’ometto di casa, poteva lamentarsi, confessarsi. Poteva sfogarsi, si sentiva a suo agio e poi si calmava. Mi aveva caricato di questa responsabilità fin da piccolo. Io ascoltavo ed elaboravo. Con le mie sorelle non si comportava così.
Mi alzai dal letto molto lentamente, cercando di evitare il fruscio delle lenzuola. Mia sorella Lucía russava beatamente, intrappolata nelle sue adenoidi. Dopo esser scivolato giù attraverso la stretta fessura della porta nell’oscurità del corridoio, salii in punta di piedi con passo felpato i tre gradini fino al pianerottolo che ci separava dalla zona dei miei genitori, attraversando così il confine. Proprio di fronte, dall’altra parte della scala principale, c’era la porta spalancata della camera da letto dei miei genitori. Tutte le luci erano accese, e le pareti tappezzate di seta damascata giallo oro brillavano e riflettevano una luce che mi era sempre sembrata magica, come fosse ultraterrena, come quella di un tempio o di una chiesa. Mi avvicinai alla ringhiera per poi rannicchiarmi nell’oscurità. Senza farmi sentire, mi aggrappai alle barre, accovacciandomi. Da lì avevo una buona visuale e riuscivo a sentire bene.
Mia madre faceva incessantemente avanti e indietro. Dalla cabina armadio alla camera da letto, dalla camera da letto alla cabina armadio, avanti e indietro, avanti e indietro, tanto che a ogni passaggio smuoveva l’aria e la sua stanza emanava una miscela di profumi, una combinazione di tabacco e tuberosa che mi estasiava, mi conquistava. Era l’inconfondibile “odore di mia madre”, la donna più bella del mondo intero, la più bella di tutte di gran lunga, la madre più perfetta che qualsiasi bambino potesse desiderare di avere, piena di virtù e di misteri, e con la quale vivevo perso e costantemente innamorato. E lei era mia, solo mia, di mia proprietà, mia fortuna, mia dea, e quando si avvicinava o mi abbracciava, quelle poche preziose e rare volte che lo faceva, chiudevo gli occhi e mi lasciavo andare. Crollavo in lei, appoggiavo la testa sul suo maglione di cashmere delicato come la carezza di un amante, respiravo profondamente, appoggiato tra il suo collo e i suoi capelli, le note equilibrate, confortanti, rassicuranti di quell’erotico profumo di sigaretta bionda e tuberosa, cullato dal fresco e impercettibile tintinnio dei suoi tre fili di perle immacolate.
Prego di poterne far sempre tesoro nella mia memoria, perché quella era l’estasi più assoluta, il più sicuro di tutti i rifugi che abbia mai avuto. Quello che mai avrei voluto lasciare.
Accovacciato vicino alla ringhiera, tra la foresta di barre della scala di quercia, osservavo il continuo andirivieni di mia madre mentre trasportava abiti e scarpe, borse e foulard. Credevo che facesse le valigie, che se ne andasse di nuovo, e il mio cuore aveva cominciato a stringersi. Ma se è tornata da poco! Dove la porterà di nuovo papà? Non è giusto, non è mai qui, mai! Il mio sangue ribolliva e maledicevo mio padre, divorato dalla gelosia. Poi notai che la Tata ritornava nella cabina armadio con ogni singola cosa che mia madre portava in camera da letto, e pensai che forse stessero riordinando gli armadi. Eppure, qualcosa non quadrava perché sembrava stessero discutendo, quando di solito queste liti succedevano in silenzio. Forse se tendo l’orecchio… pensai. Ma non riuscivo a capire bene la conversazione, giusto qualche parola quando una delle due passava più vicino a me. «Sono passati anni ormai… lo sanno tutti… ne ho fin sopra i capelli… Signora, io non glielo do… si tolga… Ridammelo, Tata… Non può andarsene, signora… Fino a Milano lo sanno… Non può andarsene… forza, mi dia quel… Lei è una puttana… il signore è un codardo… un traditore… Il signore è come è, signora… Domani parto… Ce ne andiamo, signora… Andrò da sola… Siamo nei guai… Gli sparerò… lo ucciderò…»
C’era davvero qualcosa che non andava e mio padre era il centro di quella conversazione. Questo mi era chiaro, ma c’era altro. Quando parlarono di spari e fucili, iniziai ad avere molta paura.
«Vado a farmi un caffè, torno subito… E non toccare niente, Tata, o sparo anche a te!»
In una sequenza di fotogrammi tagliati dalle barre della ringhiera, mia madre in un attimo scese giù per le scale fino al soggiorno e poi andò a sinistra, verso la cucina, di corsa, ravviandosi i capelli neri e lucidi, emanando demoni e quelle note di tabacco e tuberosa, gelosia e vendetta. Non mi aveva visto, né aveva sentito la mia presenza mentre scendeva, e nello scorrere la mano lungo l’arpa della ringhiera le punte delle sue unghie avevano sfiorato come pitoni quelle delle mie dita dei piedi nella penombra. Un brivido mi percorse la schiena. Paralizzato, trattenendo il respiro, aspettavo che l’eco dei suoi passi svanisse nella profonda oscurità sottostante dell’immenso dipinto del Cóndor di Obregón. Solo allora, liberando in un colpo solo tutte le tensioni, agile e scattante come una pantera, tornai di corsa in camera mia. Con il cuore in gola, mi seppellii vivo nel mio letto, la mia tana, e, senza ossigeno sotto le lenzuola, svenni nel sonno.
All’altezza di Aranjuez, sulla Nacional III, “la carretera de Valencia”, mia sorella Lucía vomitò e fu necessario fermarsi.
«Ecco ci mancava solo questa!» disse mia madre infastidita… no, che dico, furiosa come se fosse tutto un complotto, un sabotaggio dei suoi piani.
«Signora, devo pulire bene la bambina… Non può presentarsi così!»
«Muoviti allora… che siamo già in ritardo!»
E parcheggiati in mezzo al nulla, sul ciglio di una strada impraticabile circondata da altipiani deserti e vigneti spogli, sotto un cielo azzurro illuminato dal sole invernale e lampioni che sfuggivano alla vista, paralleli alla nostra direzione, in quello scenario improbabile con il vomito in sottofondo, mia madre decise di fare uno dei suoi rari gesti di assoluta dolcezza, dalla parvenza “amorevole”, quelli di cui era imprevedibilmente capace ma che dosava all’estremo. Giusto un capriccio.
Quando quei gesti apparivano, la sua tradizionale freddezza veniva tradita, sciolta per brevissimi istanti in un affetto che infondeva speranza anche al cuore più solo, il mio per esempio, i nostri, facendoci credere che da qualche parte in quel gelo, forse al centro, ci fosse ancora amore.
Appoggiata all’auto, a braccia conserte, mi fissava dietro gli occhiali da sole. Mi sorrise. Iniziò tutto così, semplicemente.
«Ehi tu, Mighelino… stai bene? Hai caldo… si vede che hai caldo… Vuoi toglierti il cappotto? Dai, togliamo il cappotto… anche la Paola, su… Toglietevi tutti i cappotti.»
A uno a uno ci spogliò tutti e tre del peso di quei sacchi, con cura ci diede da bere e ci fece fare lunghi sorsi dalla borraccia che la Tata non dimenticava mai di portare in macchina a ogni viaggio, ci pulì la bocca e poi ci asciugò il sudore con il suo fazzoletto, ci pettinò con le dita, scuotendoci leggermente per rinfrescarci le idee; si preoccupava per noi, cercava di strapparci un sorriso con delle battute, frugava nella sua borsa per tirar fuori delle caramelle alla fragola che scartava e metteva in bocca a ognuno. Infine, ci diede un bacio sulla fronte per non sentirsi così in colpa per quel suo sfogo di dolcezza nei nostri confronti che impegnava tutti, e quindi, in cambio, essere in grado di assicurarsi le alleanze di cui avrebbe avuto bisogno per i chilometri a seguire. Non c’erano dubbi al riguardo. Lo sapevo, era qualcosa di già visto e rivisto. Lo faceva sempre e noi ogni volta consapevolmente abboccavamo. Si trattava di messe in scena emotive, barattabili con una serie di interessi specifici, dei quali apparentemente era inconsapevole. Di certo si trattava di un meccanismo che aveva appreso o di un esercizio di sopravvivenza, e non di una caratteristica ereditata.
Togliendosi la giacca occhio di pernice di Fath color grigio cenere, che lanciò in macchina con indolenza, si sistemò sul naso la montatura scura degli occhiali e ci chiese: «Siamo pronti? Tutti a posto? Allora andiamo! Tutti in macchina, bambini… si parte!».
Così saltammo in macchina e, mentre stava ripartendo, chiese alla Tata con un sorriso sarcastico, giusto per infastidirla un po’, cosa le piacesse fare in generale con chiunque e soprattutto dopo i litigi: «Credo che i bambini abbiano fame, Tata… Avresti potuto fargli mangiare qualcosa prima di partire, no?».
La Tata era veramente esausta, perciò sbottò.
«Senta, signora, mi mordo la lingua perché è meglio che taccia… Gliel’ho ripetuto più e più volte che i bambini non potevano passare così tanto tempo senza niente nello stomaco e con un viaggio così lungo davanti. Glielo avevo detto! Forza, andiamo, si sbrighi… starò zitta!»
E nello stesso momento in cui la Tata protestava, mia madre la imitava, ripetendo le sue stesse parole, i toni e i gesti, e quella beffa condivisa ci rendeva complici, ci faceva divertire tantissimo. Cosa che non sembrava succedesse alla Tata.
«Ma stavo scherzando, Tata… scherzavo!»
Quando si arrabbiava, mia madre allungava il braccio toccandole il viso, accarezzandole e arruffandole i capelli. Risate e ancora risate, e dalla gioia tutti che rimbalzavamo sui sedili. E mentre la Tata era ancora imbronciata, mia madre cercava di intonare le note di Fra Martino campanaro urlando per cercare di rallegrare quel muso lungo, senza rendersi conto che la Reme, che si era sentita molto offesa, stava già per i fatti suoi con lo sguardo perso fuori dal finestrino, chiedendosi di nuovo, come tante altre volte, se la sua missione nella vita fosse davvero quella di educarci o piuttosto quella di dover sopportare la volubilità e i capricci di una donna immatura che ci stava trascinando tutti a fondo con lei. Guardala lì, mentre canta come una pazza adolescente, come se non sapesse cosa la sta aspettando, e così felice. Pensava a quanto piccolo avessero il cervello lei e quell’altro, il torero, ai danni che fa la gelosia, che fa male a tal punto da accecarli, a quanto faccia perdere le staffe, e al perché le persone si sposino senza conoscersi. E poi, alla fine, la Tata pensò che se quella era davvero la sua missione, allora non avrebbe certo potuto abbandonarci ai piedi del Calvario. Quindi si voltò e guardò mia madre con pietà, molta pietà e compassione, perché sapeva che non c’era che questo ed era tutto quello che doveva affrontare, cercando di mettere ordine con polso e abilità, e nel frattempo mandar giù molti bocconi amari. Mancava molto poco alle quattro del pomeriggio e ancora meno per arrivare a Villa Paz.
Ci eravamo addormentati profondamente, slogati nell’incubatrice del sedile posteriore, e la voce di mia madre ci svegliò.
«Stiamo arrivando… su, bambini, svegliatevi!»
L’enorme bottiglia di cartone alta quindici metri di Brandy 103 Osborne, con la quale Roger...