A ogni chilometro, il suo cuore fuggiva un po’ più lontano.
La bambina, nove anni, era seduta sul sedile del passeggero e faceva correre il dito sulla pelle rovinata del bracciolo beige. La brezza che entrava dal finestrino le soffiò in faccia una ciocca di capelli biondi. Lei li scostò e sollevò lo sguardo sull’uomo al volante della macchina: aveva una espressione seria e guidava con gli occhi fissi sulla strada, puntati oltre il muso bianco dell’automobile.
«Ti prego» mormorò la bambina.
«No.»
Lei intrecciò le mani in grembo.
Forse avrebbe potuto saltare giù al primo semaforo rosso.
Forse, se lui avesse rallentato abbastanza…
Si chiese se si sarebbe fatta male a buttarsi fuori dall’auto in corsa. Immaginò se stessa mentre rotolava nell’erba alta che cresceva sul ciglio della strada, il freddo e l’umido della rugiada sul viso e sulle mani.
E poi? Dove sarebbe andata?
Il clic della freccia interruppe il filo dei suoi pensieri e trasalì come se avesse udito uno sparo. L’automobile rallentò e sobbalzò mentre si immetteva nel vialetto d’ingresso. Quando la piccola vide il basso edificio di mattoni capì di non avere più speranze.
L’auto si fermò, i freni emisero un lamento.
«Dammi un bacio» disse l’uomo chinandosi su di lei e slacciandole la cintura di sicurezza.
La bambina si aggrappò alla striscia di nylon come se fosse un’ancora di salvezza e disse: «Non voglio. Ti prego».
«Sarah.»
«Solo per oggi? Per favore…»
«No.»
«Non lasciarmi qui.»
«Avanti, scendi.»
«Non sono pronta!»
«Fa’ del tuo meglio.»
«Ma io ho paura.»
«Non c’è motivo di aver…»
«Ti prego!»
«Sarah.» La voce dell’uomo si indurì. «Io sarò qui vicino, a Blackfoot Pond.»
Lei non sapeva più cosa dire. Aprì la portiera, ma non si mosse.
«Dammi un bacio.»
La bambina si allungò e sfiorò la guancia del padre con un bacio frettoloso, poi scese. Rimase in piedi nella fredda aria primaverile che odorava del gas di scarico dell’autobus della scuola, fece tre passi verso l’edificio, guardò la macchina che si allontanava. D’un tratto le venne in mente il Garfield di peluche attaccato al finestrino posteriore della station wagon dei suoi. Ricordò il momento in cui l’aveva appeso, quando aveva leccato le piccole ventose prima di farle aderire al vetro. Chissà perché, le venne da piangere.
Forse suo padre l’avrebbe guardata dallo specchietto, avrebbe cambiato idea e sarebbe tornato a prenderla.
Ma l’auto svanì oltre la collina.
Sarah si girò ed entrò nell’edificio. Strinse al petto il cestino del pranzo e percorse il corridoio trascinando i piedi. I bambini che le passavano accanto erano tutti alti come lei, ma lei si sentiva più piccola.
Minuscola, debole.
Si fermò davanti all’aula della terza, sbirciò dentro. Inspirò profondamente, avvertendo sulla pelle il caldo formicolio della paura. Esitò solo un attimo. Poi si fece strada riluttante tra la folla di bambini urlanti che correvano nella sua direzione.
Notò il foglietto a nemmeno dieci metri dal punto in cui la notte precedente avevano trovato il corpo.
Era infilzato sullo stelo di una rosa selvatica del colore del sangue rappreso e fluttuava nel vento umido inviando il suo messaggio nella fioca luce del mattino.
Bill Corde si diresse verso il pezzo di carta passando attraverso un groviglio di ginestre, giovani aceri e duri rami di forsizia.
Come avevano fatto a non vederlo?
Si graffiò il polpaccio su un arbusto e imprecò a bassa voce, senza rallentare il passo.
Corde era alto quasi un metro e novanta, i capelli corti dello stesso grigio dei gatti certosini, nonostante non avesse ancora compiuto quarant’anni. Era pallido perché quella primavera era riuscito ad andare a pescare soltanto due volte. Aveva un fisico asciutto, sebbene la cintura dei pantaloni mettesse in evidenza un accenno di pancetta; del resto, l’unica ginnastica che si concedeva ultimamente era qualche partita di softball. Quel mattino, come sempre, la camicia della sua uniforme era pulita e inamidata e i pantaloni beige esibivano una piega perfetta.
Corde aveva il grado di tenente ed era un detective.
Ripensò a come il luogo gli era apparso meno di dodici ore prima, alla luce delle torce degli agenti e a quella ancor meno affidabile del primo quarto di luna. Aveva ordinato ai suoi uomini di setacciare l’area. Erano poliziotti giovani e severi (quelli che avevano ricevuto un addestramento di tipo militare), oppure giovani e arroganti (i diplomati all’accademia di polizia statale), ma tutti quanti erano ansiosi di far bene.
Guida in stato di ebbrezza, eccesso di velocità e violenze domestiche: quelli erano i loro cavalli di battaglia. Conoscevano le armi grazie alle battute di caccia della stagione autunnale, non certo in virtù dell’assidua frequentazione del poligono di tiro di Higgins, e tutto ciò che sapevano sugli omicidi l’avevano imparato dalla tivù. Però avevano ricevuto l’ordine di passare al setaccio la scena del crimine e l’avevano fatto con tenacia e senso del dovere.
Ma nessuno di loro aveva individuato il foglietto di carta verso cui Bill Corde si stava facendo largo tra i cespugli irti di spine.
Oh, povera ragazza…
…che giace ai piedi di una diga profonda tre metri.
…che giace in questo gelido lago di fango ed erba bassa e fiori azzurri.
…che porta la riga da una parte e ha la faccia lunga e la gola tumefatta. Le sue labbra sono carnose. A ogni lobo porta tre sottili cerchi d’oro. Ha le dita dei piedi magre e lunghe, con le unghie dipinte di rosso scuro.
…che giace supina, le braccia incrociate sul petto, come se qualcuno l’avesse già preparata per la cassa. La camicetta rosa a fiori è abbottonata fino al collo. La gonna, rimboccata sotto le cosce, le copre appena le ginocchia.
«Abbiamo il suo nome. Jennie Gebben, studentessa.»
La notte precedente Bill Corde si era accovacciato – il ginocchio aveva schioccato – e si era chinato sul viso di lei. Lo spicchio di luna color madreperla si specchiava nei suoi giovani occhi color nocciola non ancora vitrei. Aveva sentito odore di erba, di fango, di metano, di olio per automobili, di menta sulle labbra e un profumo di spezie che emanava dalla pelle. Si era alzato per poi inerpicarsi in cima alla diga che tratteneva le acque fangose di Blackfoot Pond. Si era voltato e aveva abbassato lo sguardo sulla ragazza. La luce evanescente della luna sembrava provenire da un altro mondo, una luce da effetti speciali: avvolta in quel chiarore, Jennie Gebben dava l’impressione di muoversi. Ma non era il movimento di un corpo vivo: era come se dondolasse, come se stesse per sciogliersi nel fango. Corde le aveva sussurrato qualche parola, se non a lei a ciò che rimaneva, poi aveva aiutato i suoi uomini a perlustrare la zona.
Ora, nel chiarore radioso del mattino, penetrò un ultimo viluppo di forsizie e raggiunse il cespuglio di rose. Con la mano infilata in una bustina di plastica, strappò il foglietto dalle spine color ruggine.
Jim Slocum gridò: «Tutto quanto?».
Corde non gli rispose. I ragazzi dell’ufficio dello sceriffo non avevano trascurato nulla la sera prima: non avevano trovato il foglietto perché era stato ritagliato dal «Register» di quel giorno.
Slocum ripeté: «Ehi, tutta l’area?».
Corde fece un cenno di assenso: «Certo».
Slocum mugugnò e continuò a srotolare il nastro giallo della polizia intorno al cerchio di terra umida in cui era stato ritrovato il corpo della ragazza. Dopo Corde, Jim Slocum era l’agente più anziano di New Lebanon, un uomo muscoloso con il cranio rotondo e le orecchie a punta, che nel 1974 si era rapato i capelli a zero a parte le basette, e da allora non aveva cambiato look. Tolte le capatine a qualche parco divertimenti, le battute di caccia e le visite natalizie alla famiglia della moglie, non metteva mai piede fuori dalla contea. Adesso, mentre sistemava il nastro giallo, fischiettava un motivetto.
Sulla strada, un gruppetto di giornalisti stazionava in attesa. Corde non avrebbe rivelato nulla sul caso, ma tanto quelli erano segugi di campagna beneducati, animati dal sacro fuoco dello scoop, ma senza rotture di scatole. Si sarebbero accontentati di scattare un paio di foto e restare lì a osservare la scena del crimine, che l’indomani avrebbero descritto nei loro articoli usando aggettivi da film dell’orrore.
Con in mano il ritaglio di giornale protetto da una bustina di plastica, Corde si guardò intorno. Dalla diga alla sua destra il terreno saliva verso un vasto bosco attraversato dalla statale 302, che conduceva al centro commerciale e da lì a una decina di altre statali, a due autostrade e infine a quarantotto altri Stati e due Paesi stranieri dove un killer in fuga avrebbe potuto nascondersi fino alla fine dei suoi giorni.
Camminando avanti e indietro, il detective contemplò il bosco a labbra serrate. Era arrivato sul posto insieme a Slocum cinque minuti prima, precisamente alle otto e mezzo. Il «Register» veniva consegnato nelle case e nei supermercati intorno alle sette e un quarto: quindi, chiunque avesse abbandonato lì quel pezzo di giornale lo aveva fatto circa un’ora prima.
Restò ad ascoltare il sibilo del vento attraverso il filo spinato mentre osservava con attenzione il terreno dietro il cespuglio di rose. Individuò due orme troppo sbiadite per essere identificate e tirò un calcio a un grosso ramo che sembrava essere caduto da poco; una colonia d’insetti simili ad armadilli sciamò via. Poi il tenente si arrampicò fino in cima alla diga, aggrappandosi ai tubi di metallo verde della ringhiera interrata.
Aggrottò le folte sopracciglia mentre scrutava i riflessi del sole sull’acqua increspata del lago. Dietro di lui, il bosco si estendeva infinito, abbacinante.
Ascolta…
Alzò la testa e tese l’orecchio verso il fiume di luce.
Dei passi!
Fissò di nuovo lo sguardo sulla vegetazione scura. Sollevò la mano per proteggersi dal sole che gli pungeva gli occhi. Vedeva tutto, e niente.
Dove?
Quando abbassò la mano, il palmo si posò sul calcio della pistola d’ordinanza.
Si mise a correre.
Il tragitto dalla scuola elementare a Blackfoot Pond era di circa cinque chilometri lungo la statale 302 (che però le era stata proibita); ma se si tagliava per il bosco ci voleva solo mezz’ora. Sarah scelse il bosco.
Evitò le zone acquitrinose non perc...