Atlante freddo (Nero Rizzoli)
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Atlante freddo (Nero Rizzoli)

Trilogia criminale

  1. 336 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Atlante freddo (Nero Rizzoli)

Trilogia criminale

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Informazioni sul libro

Chiara è magrissima, ha un'aria buffa, calza degli zoccoli e porta lunghi capelli scuri che contrastano col suo nome. Ogni tanto le sembra di incepparsi mentre i pensieri scorrono fuori sincrono. Per crescere ha solo la scuola della strada e le lezioni che le impartirà un destino beffardo. Da Bari a Torino, passando per Bologna, la trilogia Atlante freddo è un racconto di formazione in nero, un "giro d'Italia" da Sudest a Nordovest scandito da fughe rocambolesche, incontri sorprendenti e perdite che fanno malissimo. Così Chiara viene coinvolta nel piano di Vincenzino, che per scalare le gerarchie criminali è pronto a tutto: anche a rapire la figlia di un boss. A Bologna, la ragazza dovrà sopravvivere a una notte di sangue che travolgerà le esistenze di un gruppo di venditori ambulanti al soldo di uno sfruttatore senza scrupoli. A Torino si troverà in mezzo al regolamento di conti tra alcuni reduci della lotta armata e Abdellah, il ras che controlla il racket di phonecenter per immigrati.
Editore dal fiuto eccezionale, acuto esploratore della cultura di massa e ispiratore del "nuovo poliziesco italiano", Luigi Bernardi mette in scena una schiera di sconfitti senza speranza, di outsider della malavita e marginali che popolano le ombre delle città. Racconta l'Italia di fine anni Novanta tracciando la mappa del Paese come se fosse il referto di un'autopsia, il crudo esame di un corpo ormai gelido. Al termine della corsa, l'unica vittoria possibile non è arrivare per primi al traguardo, bensì rimanere in piedi.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831802598

VITTIMA FACILE

Voglio ciò che mi spetta lo voglio perché è mio m’aspetta.
Giovanni Lindo Ferretti/C.S.I.

1

Francesca cammina piano, stringe un libro al petto. Fa sempre così, si stringe qualcosa contro il petto quando cammina. Un sacchetto con dentro uno o due compact appena comprati, la busta di un negozio di maglieria, la pochette di tela indiana con i documenti e i soldi, oppure un libro, come oggi.
Vincenzino cammina disordinato, come chi non sa da che parte andare e potrebbe cambiare direzione a ogni momento. Ha lo sguardo sospettoso, colpisce tutto senza saldarsi su niente, niente tranne le gambe di Francesca. Le lunghe gambe di Francesca, che si alzano sul marciapiede, attraversano strade, accelerano e rallentano, Vincenzino non le perde d’occhio un solo istante, lascia che siano loro a condurgli il passo.
Francesca è alta, ha capelli neri lunghi e lisci che si inchinano morbidi sulle spalle, occhi scuri, sopracciglia decise e il naso sbagliato. Se non fosse per quel rostro d’aquila che le deforma il profilo, Francesca sarebbe una ragazza appena carina, così è incantevole. La prominenza del setto prima attrae lo sguardo che pretende di sfiorarle il viso, poi lo distrae, alla fine lo imprigiona dentro gli occhi ipnotici che vegliano sopra. Difficile liberarsi, dopo.
Per un poeta sarebbe lecito pedinare Francesca, scriverebbe che i suoi occhi sono del colore della terra arata di fresco, che sanno accarezzare e frustare, che promettono il miele e l’aceto, che fanno vedere anche quello che non c’è. Vincenzino non è un poeta, non ha mai letto una poesia, neanche quelle di scuola. Ha altri motivi per incalzare Francesca. Buoni motivi che l’hanno trasformato in un’ombra insolente, motivi migliori che scrivere dei versi.
Vincenzino si è organizzato nei minimi dettagli, anche in quelli meno significativi, forse superflui. Gli ha dato soddisfazione farlo. Al mercatino del suo rione ha estorto un paio di comode scarpe, un’imitazione di quelle morbide e voluminose che aveva visto calzare a Francesca. La moto l’ha procurata una sera vicino al carcere minorile. La macchina non gli è servita mai, fino a ieri pomeriggio, quando non ha avuto difficoltà a soffiarne una, potente, anche bella da vedere.
Francesca ha poco seno, le caviglie grosse le appesantiscono il passo. Ma è lo stesso incantevole. Cammina con la testa alta, comoda dentro un arioso vestito blu che le arriva giusto dove la coscia si irrigidisce nelle prime ossa del ginocchio. Muove appena il braccio libero, avanti e indietro, sfiora con la mano la piccola borsa di pelle bianca che porta a tracolla.
Vincenzino ha una banda, la sua, due ragazzetti poco più grandi di lui e una brunetta selvaggia, capricciosa, con un nome che non le assomiglia. Francesca è figlia di un importatore di liquori, ricco come pochi nella regione. Vincenzino è figlio di chissà chi, ha smesso di chiederselo. Lui e la sua banda hanno deciso di rapire Francesca, stanno per farlo.
Dopo chiederanno molti soldi per liberarla, un mucchio di soldi, una quantità capace di influenzare il destino.
Francesca cammina e stringe il suo libro al petto. È un romanzo che ha appena comprato, lo ha trovato per caso fra centinaia ammucchiati su una grande bancarella. E dire che lo aveva cercato nelle librerie più importanti della città, invano. Quando lo ha visto, ha sentito il cuore ruzzolarle dentro. Dopo si è detta che certe fortune chiedono qualcosa in cambio, poi non ci ha pensato più. È un libro sottile, di un centinaio di pagine, con una copertina molto bianca e il titolo veloce. Racconta la storia di un fratello e una sorella naturali. I due si ritrovano dopo una separazione durata molti anni, scoprono di amarsi adesso come si erano amati allora, quando non si sapevano consanguinei. Il loro attaccamento non è diminuito con l’assenza, né per il crescere dei corpi, anche se poi devono arrendersi all’evidenza che i grandi amori sono quelli impossibili. Francesca ha già letto quel libro, gliel’ha prestato un amico qualche mese prima, le è piaciuto così tanto da desiderarne una copia tutta per sé, la copia che adesso tiene stretta contro il petto.
Francesca cammina piano, Vincenzino sente l’urgenza nelle gambe. Saetta un’ultima volta gli occhi intorno, allunga il passo. È pronto per raggiungerla.

2

Chiara sta girando intorno alla macchina. L’ha parcheggiata in seconda fila, quasi in mezzo alla strada, per mantenere agibili tutte e quattro le portiere. È stata un’idea sua, non gliel’ha suggerita nessuno. Quando se n’è resa conto, ha sentito una vampata di orgoglio scottarle il viso.
Chiara si passa una mano sulla nuca, asciuga il sudore sotto i capelli. Ancora una volta si chiede se non avrebbe dovuto accorciarli. Si risponde che comunque le stanno meglio così.
Chiara non aveva mai guidato un’auto di quel tipo, tanto grande, importante. Gliel’aveva portata Vincenzino la sera prima. Le aveva detto di esercitarsi alla guida. Lei per poco non gli saltava al collo dalla contentezza, poi però si era trattenuta, come inceppata. Aveva guardato prima l’auto poi lui, alla fine si era decisa a montare su, accendere il motore, ingranare la marcia. Dopo una trentina di chilometri lungo le strade svelte dell’entroterra, aveva deciso che si trattava di una macchina come tante, con un buon passo e una notevole accelerazione. L’avrebbe domata con un’altra mezz’ora scarsa di pratica, era ripartita concedendosi una sgommata, come un ragazzo.
Chiara non ha ancora la patente. Non è un problema, in questa città i ragazzi cominciano a condurre un’automobile anche tre o quattro anni prima di avere l’età giusta. Chiara compirà i diciotto fra alcuni mesi, però guida con naturalezza da tre anni, è brava e Vincenzino se ne serve spesso. Lui è troppo occupato a pensare ai colpi, a tenere la contabilità, per avere il tempo di cambiare le marce, girare lo sterzo.
Chiara un giorno aveva immaginato che le sarebbe piaciuto diventare una pilota professionista, partecipare a quelle gare nelle quali ci si impone solo grazie a una precisa combinazione di velocità e resistenza. Aveva passato ore a figurarsi dentro una tuta maculata dagli adesivi degli sponsor, aveva anche giocato alla scelta delle marche che le sarebbe piaciuto reclamizzare in giro per il mondo. Su tutte c’erano l’etichetta verde dei vestiti e quella con la vela delle sigarette, ma era un desiderio che si era comportato come tutti gli altri da cui si faceva attraversare, se n’era andato quasi subito, spiccio.
Adesso Chiara, in questo primo pomeriggio scottato dal sole, tiene i sensi bene in allerta, i ragazzi le fanno un segno, l’azione sta per cominciare, lei è pronta. Deve solo strofinarsi gli occhi, perché tutta questa luce le impedisce di vedere nitido intorno. Prima però infila una mano in tasca, trova la pallina di Balmamion, la stringe fino a scaldarla.

3

Pino e Nicola sono alti, robusti, bene allenati. Hanno i capelli corti e neri, gli occhi decisi. Molti li scambiano per fratelli. Vincenzino li vede, sono lì a pochi metri, fermi all’angolo all’isolato, stanno fingendo una discussione, forse litigano davvero, per una questione di calcio o di un film che hanno visto insieme. Lo fanno sempre. Chiara dev’essere in attesa dietro l’angolo, al posto di guida. La situazione è quella che Vincenzino aveva immaginato e predisposto. Non c’è un solo elemento fuori luogo, tranne questo sole troppo luminoso che impasticcia i colori, smorza i riflessi.
Dopo giorni di attesa, di nervi scoperti, è arrivato il momento dell’azione. Sarà rapida, efficace, senza alternative. Vincenzino scaccia il pensiero di una birra, ha accelerato ancora il passo, arriva dritto alle spalle della sua vittima, la tocca, è sua.
Francesca continua a stringere il libro al petto anche quando sente una spinta forte che le ribalta l’equilibrio. Fa in tempo a vedere quattro braccia davanti a sé. Le smanacciano il corpo, lo afferrano prima che rovini a terra. Sente le braccia che la tengono, vorrebbe cacciare un urlo, la mano che l’ha spintonata le si è chiusa sulla bocca, la tappa come un bavaglio forte. Adesso sei mani l’abbrancano e maneggiano in cerca di appigli solidi, stringono. La trascinano per qualche metro, la gettano sul sedile posteriore di un’automobile metallizzata.
Vincenzino balza sul sedile accanto a Chiara, gli altri due dietro, ai fianchi di Francesca. Chiara innesta la marcia, Vincenzino si passa la mano sulla fronte umida, si gira, guarda Francesca, le intima di non fiatare o sarà peggio per lei. Dopo, guarda Pino e Nicola, dice di non toccare la ragazza o dovranno fare i conti con lui.
È un buon capo, Vincenzino, sa come farsi rispettare. Una volta ha sentito dire che il rispetto dei subordinati vale la più potente delle armi, non se l’è più dimenticato. Pino e Nicola annuiscono, senza sprecare le parole. Le piccole mani di Chiara si fanno ubbidire dalla meccanica forte dell’automobile tedesca. Francesca è domata, spaurita dentro la morsa del fiato dei suoi rapitori, china la testa come a farsi proteggere dallo scudo di capelli scuri, non dice niente anche se potrebbe. Continua a stringere il libro al petto, forse un poco più forte di prima.
Fino a qui, tutto bene.

4

L’uomo non si guardava intorno, non aveva motivi per farlo, non aveva niente da nascondere, niente da temere. Era solo un po’ spazientito, stava aspettando che il tipo davanti a lui terminasse l’operazione allo sportello del bancomat. Doveva essere uno previdente. Si era fatto stampare la strisciolina dell’estratto conto, l’aveva guardata a lungo, sembrava che calcolasse mentalmente qualcosa. Alla fine, aveva richiesto il prelievo, digitando per la seconda volta il codice segreto. L’uomo, sbirciando da dietro il cliente, aveva colto una fugace esitazione dopo il terzo numero, aveva sorriso quando dalla fessura erano uscite soltanto due banconote da cinquantamila lire. Evidentemente, aveva dedotto, ci sono persone che per prelevare centomila lire devono essere ben certe di averne la disponibilità.
L’uomo non aveva di questi problemi, non era ricco, eppure alcuni milioni sul conto corrente non gli mancavano mai. «Bisogna avere di che fare fronte agli imprevisti» diceva sempre. Se lo stava ripetendo anche quel giorno, quando aveva sentito qualcosa di duro premergli contro la schiena, proprio sulle vertebre. Dopo, una voce gli aveva sibilato parole decise: adesso tiri fuori mezzo milione per me. La cosa che lo schiacciava sul dorso si era messa a spingere più forte, sollecitandolo a muovere il passo verso il distributore di denaro, che il cliente di prima finalmente aveva lasciato libero.
Un paio di minuti dopo, Vincenzino aveva intascato veloce tre banconote da centomila e quattro da cinquanta, si era infilato di corsa in una viuzza laterale. L’uomo gli aveva consegnato i soldi senza fare storie, aveva giusto tirato un respiro lungo per rimuovere un riflesso di stizza. Dopo, aveva scosso due o tre volte il capo, era entrato in banca, si era seduto a un tavolo, si era acceso una sigaretta. Finito di fumare, aveva compilato un assegno staccandolo dal blocchetto che teneva nel portafoglio, si era messo in fila e se lo era fatto cambiare alla cassa. Quel giorno aveva bisogno di contanti, doveva andare in posta a fare un vaglia per sua figlia che studiava architettura, su al Nord. Neppure per un istante aveva pensato di sporgere denuncia, era inutile. La prossima volta sarebbe stato più attento, per questa non c’era più niente da fare.
Accadeva poco più di un mese prima del rapimento di Francesca. Vincenzino stava accumulando prove generali per diventare qualcuno nel mondo del crimine.

5

Il padre di Francesca fatica a capire perché tutto d’un colpo dovrebbe mettersi in affari con i cinesi. Ne ha due davanti, seduti sul divano, gli occhi immobili, fissi in un’espressione che gli pare di grande aspettativa, sempre che da quelle facce tutte uguali si possa capire qualcosa.
L’avvocato e l’interprete si sono messi sulle poltrone. Il padre di Francesca se ne sta a cavalcioni sulla sedia, girata al contrario davanti alla scrivania. Ha le gambe divaricate, i gomiti appoggiati allo schienale, le mani strette a pugno sotto il mento. È la posizione che preferisce quando deve trattare di cose importanti, quella che gli lascia liberi i pensieri perché garantisce la sveltezza delle braccia. L’ha imparata ai tempi in cui alle riunioni di quel tipo ci si andava con la pistola in tasca, carica. È bastata una lezione, per non scordarla più.
Allora poteva succedere che qualcuno si trovasse in disaccordo con gli altri, o si innervosisse per una parola di troppo scappata a una bocca qualsiasi. E poteva capitare che questo qualcuno tirasse fuori la pistola, la puntasse sui compari. Facile che ci scappasse pure il colpo, e il morto. Una volta, il padre di Francesca aveva visto la stizza di uno seduto al suo tavolo trasformarsi in canna d’acciaio. Aveva approfittato della posizione parzialmente arretrata e delle braccia libere, lo aveva freddato prima che combinasse guai seri. Quella volta, si era seduto così per caso, perché la schiena gli faceva male. Da allora non aveva più cambiato posizione, durante le riunioni.
Il padre di Francesca guarda i cinesi che ha di fronte, si chiede se siano armati. Hanno tutti e due il corpo dilatato, da celare il minimo rigonfiamento. Sono grassi, grassi e unti. Puzzano a guardarli. Persino i loro vestiti sono grassi e unti, con il fetore delle cucine dei loro stomachevoli ristoranti inzuppato nelle trame dei tessuti. Il padre di Francesca continua a non capire perché dovrebbe mettersi in affari con loro. Sono settimane che l’avvocato glielo spiega, gli presenta dei prospetti pieni di cifre, numeri illuminanti, non abbastanza da cancellare il disagio di venire a patti con persone di cui non riesce a distinguere la faccia, capire l’espressione.
Si sono scambiati poche parole, più che altro convenevoli. Il pigolio del telefono cellulare dell’avvocato non interrompe nessun discorso, solo il silenzio che veglia sull’inizio della trattativa.
L’avvocato passa la mano nella tasca interna della giacca, tira fuori l’apparecchio, preme un tasto, risponde. Gli occhi si rabbuiano subito.
«Va bene» dice. Ascolta qualche altra parola, indurisce la faccia. «Aspettami lì» aggiunge con un tono che taglia corto. Dopo, si rimette in tasca il telefono, dice all’interprete che c’è un problema, che la riunione è rinviata, che chiamerà lui per fissare un nuovo incontro.
Il padre di Francesca non capisce. Non afferra le parole che i cinesi dicono all’interprete, poi neanche quelle che si scambiano fra loro. Gli pare solo che l’aspettativa si sia trasformata in allarme. Hanno paura, o fretta di concludere, pensa. O tutte e due.
L’avvocato gli viene incontro, gli batte la mano sulla spalla, lo guida in un angolo della stanza.
«Hanno rapito tua figlia» dice, «me l’hanno comunicato adesso i ragazzi.» Fa una pausa come per permettere a entrambi di assimilare la notizia. «Andiamo da te, i rapitori chiameranno sicuramente lì» aggiunge.
Il padre di Francesca è come se non capisse.
«Va bene, andiamo» risponde solo.
Se non ci fosse l’avvocato a fargli strada, non saprebbe che direzione prendere.

6

Chiara ripensa alla prima volta che era successo.
Il ceffone l’aveva lasciata di stucco. Si era sentito il rumore piatto della mano di sua madre che si schiantava contro la guancia, la testa le si era piegata di lato, era saltata all’indietro, aveva impattato come contro un ostacolo invisibile, era rimbalzata in avanti, venuta a raccogliere il pesante manrovescio che aveva completato l’opera. Dopo era arrivato il dolore. Chiara si era messa subito a piangere, lunghi singhiozzi che le tagliavano il respiro. Aveva cercato di parlare, quelle che uscivano erano parole danneggiate, un balbettare incomprensibile. Voleva dire che non era colpa sua se gli spaghetti non le riusciva di girarli per il verso giusto, era la sua mano che si rifiutava. Voleva anche dire che non c’era nessuna differenza se gli spaghetti si arrotolavano in un senso o nell’altro, intorno alla forchetta. Che se erano cotti bene e il sugo cucinato come si deve, erano buoni lo stesso. Né sua madre né suo nonno avevano capito la ragione della protesta, si erano accontentati di vederla andare a letto, il capo chino, senza cena e con un fazzoletto premuto sulla guancia, dove l’anello di sua madre le aveva tagliato la pelle.
Chiara adesso pensa a quanti ceffoni così le occorrerebbero per scuotere Vincenzino dall’indi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Atlante freddo
  4. Una vittoria senza trionfi
  5. VITTIMA FACILE
  6. ROSA PICCOLA
  7. MUSICA FINITA
  8. NOTA ALL’EDIZIONE DEL 2006
  9. Copyright