Chi è protagonista della Casa in collina? Corrado, dietro al quale è fin troppo facile cogliere la sinopia di Cesare, oppure la collina, la guerra, la resistenza – agita o meno che sia – la politica, la storia, la religione, la riflessione sul ruolo dell’intellettuale, la solitudine, la morte? Non penso esista una sola chiave di lettura, al contrario credo che Pavese conceda a ognuno la possibilità di attraversare queste pagine assecondando il proprio interesse, a patto di non mettere nulla a tacere, lasciando che i temi si affollino, si sovrappongano, si intreccino secondo una tecnica narrativa che fin da subito vuole tradurre in parole il clima di quel momento storico e le sue contraddizioni. Per questa ragione il primo capitolo del romanzo si presenta al lettore come una mise en abyme di quasi tutti i percorsi elencati, come se lo scrittore volesse subito rendere tangibile tale pluralità.
Fin dalla prima riga incontriamo la collina (quella prossima a una città, Torino, per ora non menzionata, dove la voce narrante dice di aver vissuto in un passato non meglio individuato, e «altre» colline, quelle delle Langhe, che appartengono alla sua infanzia ma anche al suo presente). Poche righe dopo apprendiamo che l’azione narrativa si svolge in un periodo di guerra – «il soprassalto notturno degli allarmi» e il formicolìo di «povera gente che sfollava a dormire magari nei prati»1 – e contemporaneamente che chi sta raccontando non è uno di loro, perché per lui la collina è qualcosa di più di un rifugio o «un luogo tra gli altri», è «un aspetto delle cose, un modo di vivere». Tale separatezza si traduce nell’immagine di quest’uomo che «sale ormai solo, tra le siepi e il muretto», senza «tristezze», assorbito dalla natura che lo circonda «fiutando le cose e la terra», consapevole che ad attenderlo ci sono una casa sicura e confortevole e una finestra a cui affacciarsi il mattino successivo (particolare questo funzionale al ritratto del personaggio).2 La solitudine è la sua cifra e per ben nove volte, se ho contato bene, si definisce solo nel primo capitolo ammettendo di «sussultare», ma «di dispetto per la solitudine che se ne andava» col suono degli allarmi. La buia collina, in contrasto col «lago di luce» della città illuminata dalle stelle, ma anche dalle bombe, come si intuisce dalla correzione registrata nel manoscritto,3 è innanzitutto per quest’uomo il luogo del ricordo, quello remoto dell’infanzia, delle «altre» colline e quello prossimo della collina torinese, delle serate spensierate che hanno preceduto l’oggi sconvolto dalla guerra.4
Un punto a capo segna il brusco passaggio dal racconto di quanto sta accadendo alla riflessione su cosa la guerra significhi per Corrado – questo, lo abbiamo accennato in apertura, è il nome del protagonista e della voce narrante, ma il lettore deve arrivare sino al quarto capitolo per conoscerlo – una guerra subito privatizzata, vissuta come occasione per «starsene solo», per «chiudersi in sé», per «vivere alla giornata», senza scrupoli e senza rimpianti, per «accucciarsi» come in una «tana» e lasciarla passare (un modo per suggerire il legame fra l’uomo e il mondo animale che va ben al di là del semplice cenno alla compagnia di Belbo, il grosso cane che nel romanzo lo accompagna nelle scorribande sulle colline torinesi). La guerra ha offerto, e offre, a Corrado la possibilità di «salvarsi» e di narrare la «storia di una lunga illusione», la sua – forse è questa la chiave di lettura del romanzo? – alla quale «ripenserà» in chiusura «salendo e scendendo» le «altre» colline, quelle del suo paese a cui ha fatto ritorno: è lì che, specularmente a quanto narrato nel primo capitolo, Corrado incontrerà di nuovo se stesso, ma non più il se stesso «ragazzo» – uno dei tanti che popolano queste pagine5 – grazie al quale, un tempo, si era fatto «un compagno, un collega» e, non in ultimo, un «figliolo», ma il se stesso di adesso, quello «che è sfuggito alle bombe, sfuggito ai tedeschi, sfuggito ai rimorsi e al dolore», è «staccato» da tutto, spettatore della sua stessa esistenza, come se non avesse mai lasciato quella finestra a cui si affacciava la mattina, dopo i bombardamenti. Ma cos’è questa «lunga illusione» e cosa l’ha alimentata? È forse l’illusione che la guerra possa giustificare tutto e tracciare un «orizzonte» entro il quale sia legittimo rimanere (accanto alla «tana» proprio l’«orizzonte» era stato evocato da Pavese), che si possa vivere in tempo di guerra sottraendosi a quello che ciò comporta? Non abbiamo ancora, a questa altezza, gli elementi per rispondere – ammesso che la chiusa del romanzo porti con sé una risposta – e per questo Pavese, nuovamente con un punto a capo, riporta l’azione al presente, al momento in cui Corrado incontra, sul sentiero che lo conduce a casa, Belbo, il cane a cui si è fatto cenno, e decide di vagare per la collina rimandando il ritorno dalle «due padrone» – sue e di Belbo –, ovvero Elvira, la «zitella quarantenne, […] accollata, ossuta» segretamente, ma nemmeno troppo, innamorata di lui, capace, quando i tedeschi arriveranno alla «villa» in cerca di Corrado, di depistarli e di procurargli un rifugio sicuro, e la di lei madre mai nominata e rassicurante come una «collina oscurata» durante una notte di bombe.
È la collina a dominare la scena narrativa in questo primo capitolo,6 una collina non necessariamente pacificante, capace di rivelare a chi, come il protagonista, lo sa intendere «il suo […] antico indifferente cuore», solcata da «burroni», penetrata da profonde «radici»: è su questa collina che quella sera Corrado avverte «un brusìo di voci, frammisto di canti». Sono le voci di coloro che nel romanzo diventeranno i suoi compagni/antagonisti, ovvero il gruppo delle Fontane, ed è per seguire questo richiamo che l’uomo sceglie di dimenticarsi delle due «vecchie» che lo attendono e di andare inconsapevolmente incontro al proprio destino. Ed è alla collina che Pavese affida la funzione di trait d’union fra il Corrado dell’estate del 1943, quando si avvia il romanzo, e quello che attende nascosto fra le «altre» la fine del conflitto: fin da subito infatti la collina torinese gli rimanda il «sapore più antico, contadino, remoto» della sua terra d’origine. Bellissima l’immagine del vecchio Gregorio, il padre di Cate, la protagonista femminile della Casa in collina, «che tranquillo, in panciotto e spalle curve, masticava i bocconi» e «non parlava, sembrava ascoltasse, guardava tranquillo, come se quei discorsi li sentisse ogni giorno da quando era nato». Gregorio che «ricorda – a Corrado – il suo paese», che finirà, come gli altri del gruppo delle Fontane, deportato, e che Pavese rievoca nell’ultimo capitolo paragonandolo a un altro padre, quello del protagonista che «va e viene in cantina, col passo del vecchio Gregorio», ma a differenza di quell’altro è indifferente, o forse inconsapevole, di fronte a quanto sta accadendo, preoccupato piuttosto di salvare la roba dalle razzie delle bande partigiane.
Sulla collina sorgono le case, altre protagoniste di questa narrazione. Su quella torinese ve ne sono due: la «villa» dove abita Corrado e l’osteria Le Fontane dove vivono Cate, il piccolo Dino e un gruppo di giovani che, a differenza del protagonista, hanno scelto di combattere. La «villa» sembra dare fisicità all’indifferenza di coloro che la abitano e che si ostinano a vivere come se la guerra non esistesse, ma non è solo questo. Il nitore di quella casa, le premure delle due donne, le torte che, malgrado la carenza di cibo che attanaglia la città, continuano a portare in tavola, non fanno che ricacciare Corrado in una dimensione infantile sempre più difficile da abbandonare: «c’era una pace, in quella casa, un rifugio, un calore come d’infanzia», riflette Corrado, un’infanzia pacificante, che ha poco da spartire con quelle «paure» alimentate dalla collina dei «burroni» e delle profonde «radici», che «cova nel buio» i suoi segreti. Un’aura di magia avvolge questo luogo, un’aura che finisce con l’investire anche Le Fontane: la «smorta facciata» dell’osteria, a cui Corrado getta un ultimo sguardo allontanandosi, si trasforma, nel medesimo capitolo, il secondo, in una «casa in mezzo ai boschi» – non è questo il solo passo in cui il romanzo scivola verso toni da narrazione fiabesca7 – e il descriverla, nel quarto capitolo, come un luogo «rustico», con un’«aria abbandonata», anziché attenuare questa sensazione, serve da spunto al narratore che, giunto al nono capitolo, racconta come proprio l’osteria ora «abbandonata, senza vita» condivida con la collina quella profonda natura segreta, perché anch’essa è «una parte del bosco» e come tale, aggiunge Corrado, «si poteva soltanto spiarla, fiutarla; non viverci o possederla a fondo».
Speculari a queste due case sono quelle sulle «altre» colline. Il «casolare» «nascosto» dove vive Otino, una sorta di alter ego del protagonista ma, diciamo così, risolto, senza sensi di colpa per aver rifiutato la guerra e aver scelto la campagna, e la «casa» natale di Corrado, che sembra riassumere quelle che l’hanno preceduta, dove abitano il padre di cui si è detto e le due «donne di casa» – la madre e la sorella del protagonista – che condividono con le padrone della «villa» una sorta di risentimento per una guerra che ai loro occhi appare nulla più che un insieme di «risse di ragazzi».
La collina e la «villa» sono i luoghi dove Corrado può sottrarsi alla guerra, come non è possibile fare in città, una città dalla quale la gente fugge per farvi ritorno, come la «risacca», la mattina, una città «condannata», «in fiamme» sotto i bombardamenti – «la città si era fatta più selvaggia dei miei boschi», dice Corrado – che però è anche il luogo in cui si organizzano comizi, si discute di politica, si festeggia fra le macerie nell’illusione che la guerra sia finita. Anche in città però Corrado trova un rifugio: la scuola. È lì che il «professore», questo è il suo mestiere, si reca dopo il devastante bombardamento che ha raso al suolo Torino, ma che ha risparmiato proprio quell’edificio, per celebrare una sorta di rito che lui stesso paragona all’agire pietoso delle «donne che compongono un morto, lo lavano e lo vestono»: il rito di «riordinare il registro di classe per gli scrutini imminenti», fare «addizioni», scrivere «giudizi» consapevole che, in qualsiasi momento, «il cielo poteva di nuovo muggire, incendiarsi, e della scuola non restare che una buca cavernosa». Ma la scuola, a differenza delle Fontane, non è il luogo di chi combatte, bensì di chi, come lui, cerca di continuare la vita di sempre e di dimenticare coloro che sono capaci di scelte diverse, come Castelli che, convinto dal collega di ginnastica di fede fascista, si licenzia per non servire «quel governo» e, arrestato, viene rapidamente dimenticato da tutti: «Silvio Pellico almeno» sorrise un giorno il preside «si è accontentato di andar dentro, senza mettere nei guai nessun collega».8
Ma a un certo punto la guerra raggiunge anche la collina: la natura improvvisamente sembra nutrirsi del sangue e dei corpi dei caduti – «il sangue sparso era assorbito dalla terra» e «dove un corpo era caduto riaffioravano radici», si legge nel sesto capitolo – piovono le bombe, le creste sono attraversate da soldati in fuga come il giovane che «sperava di arrivare in Valdarno», e, un bel mattino, compaiono i tedeschi che, dopo aver scoperto le armi nascoste in cantina, arrestano tutti gli abitanti delle Fontane vanno alla «villa» in cerca di Corrado. Malgrado tutto però la collina continua a garantire a Corrado di essere spettatore e non protagonista di una guerra che sembra non riguardarlo,9 di cui può discutere, come un nuovo Berecche, «sulle cartine dei giornali e sull’atlante».10 Sono molti i momenti in cui Pavese ritrae Corrado ...