La mia vita con Giampaolo Pansa
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La mia vita con Giampaolo Pansa

  1. 416 pagine
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La mia vita con Giampaolo Pansa

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«Dottor Pansa, lei non mi conosce. Mi chiamo Adele Grisendi e sono una comunista sofferente. Posso farle una domanda?» È iniziata così la mia vita con Giampaolo Pansa. Una storia d'amore intensa ed esclusiva. Per trent'anni e un mese ci siamo donati l'uno all'altra con fiducia assoluta, senza negarci nulla di quel che eravamo. Ci siamo protetti sempre. E amati con gioia, con ottimismo e allegria, godendo ogni attimo che il Padreterno ci regalava, divertendoci come ragazzi senza età. Insieme siamo diventati grandi, nel senso che siamo cresciuti, migliorati. Uniti abbiamo infranto il muro eretto dai Gendarmi della memoria e abbiamo affrontato l'odio e le volgarità che ne sono seguiti. Uniti abbiamo visto vecchi amici voltarci le spalle e, nel nome della reciproca umanità, ne abbiamo conosciuti di nuovi.
Scrivere per Giampaolo era la vita. Desiderava che la nostra storia la scrivessimo insieme. Ma un libro dopo l'altro, il tempo è passato e quel progetto non l'abbiamo realizzato. Adesso sono io a scrivere di lui, del nostro incontro e delle giornate piene d'impegni, vissute sempre con serenità. Una serenità mai venuta meno, neppure quando è stato messo al bando dai suoi vecchi giornali e ha dovuto cambiare senza però rinunciare alle sue idee. Scrivo di lui bambino della guerra tornato di continuo agli anni tra il 1940 e il 1945, alla guerra civile tra italiani raccontata senza nascondere le verità scomode che pesano sui vincitori. Di lui attento osservatore dell'Italia per sessant'anni. Un'Italia divenuta sempre più irriconoscibile. Sempre più sull'orlo del burrone. Con lui ho condiviso tutto.

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Informazioni

A chi legge

Alla domanda «Chi è Giampaolo per te?» ho sempre risposto: «È l’uomo della mia vita. L’amore che mi è venuto incontro per caso e ha illuminato un giorno in cui tutto era andato storto. Poi ha trasformato in gioia allegra i tanti che sono venuti dopo».
Ci siamo conosciuti alla fine di novembre del 1989, trentuno anni e due mesi fa. Da quel momento non ci siamo più lasciati. Eravamo due persone profondamente sole dentro e, quando due solitudini si incontrano, può scoccare la scintilla che provoca l’incendio. E se l’incendio colpisce il cuore non esiste via di scampo, non esiste ostacolo insuperabile. È quel che è accaduto a noi.
Con il passare degli anni, Giampa mi ha sempre raccomandato: «Quando non ci sarò più, devi scrivere la nostra storia». Sembrava sapesse che, scrivendo di noi, mi avrebbe tenuto compagnia nel momento più duro dopo il distacco. A dire il vero, Giampaolo la nostra storia desiderava la scrivessimo insieme. Poi, un libro dopo l’altro, il tempo è scappato via e tocca a me onorare l’impegno che mi lega a lui.
Fu il pensionamento del Partito comunista italiano a spingermi a parlargli sul treno da Roma per Firenze e Reggio Emilia il 23 novembre 1989. Quel che mi sorprese di Giampaolo, fin dalle prime parole, fu la cordialità. La disponibilità verso una donna mai vista prima, che i più avrebbero considerato una scocciatrice. E mi colpì la naturalezza con la quale ci scambiammo pensieri privati.
Il dopo incontro in treno è raccontato in questo libro e lascio al lettore il piacere, almeno così spero, di scoprire quel che ci è accaduto. I problemi che abbiamo affrontato, il dolore inevitabilmente provocato alle persone della sua vita precedente, la forza che ci ha trasmesso il legame intenso ed esclusivo che abbiamo vissuto. Un amore che, da subito, si è rivelato impossibile non vivere.
Grazie a Giampaolo io ho ritrovato la sicurezza che si era appannata. Lui ha avuto una nuova giovinezza. Insieme siamo diventati grandi, nel senso che siamo cresciuti, divenuti due persone diverse rispetto a quello che eravamo il giorno in cui ci siamo incontrati.
Sono la signora Pansa anche davanti alla legge dal 14 gennaio del 2016. È stata una giornata molto felice. Giampaolo lo era persino più di me. Lo rivedo contento come non mai mentre mi dice: «Adele, finalmente potrai usare il mio cognome».
Da quel momento, quando mi vedeva firmare un documento con il mio nome e cognome, mi chiedeva rammaricato: «Ti vergogni a usare il mio cognome?». Era come se venisse a galla il senso di colpa per aver tardato tanto a sposarmi. Lo abbracciavo e gli sussurravo scherzando: «Giampaolo, mi hai preso in moglie. Non sono diventata tua figlia». Scuoteva il capo e voleva avere l’ultima parola: «Io sono anche tuo figlio, dunque potresti esserlo pure tu?».
Anche nei momenti difficili, e in questo libro ne racconto alcuni, siamo rimasti di buon animo e abbiamo deciso insieme come affrontarli. Mai un litigio o una crepa. So che sembra difficile a credersi, ma è stato così. Ha contato molto il suo carattere positivo e ottimista, capace di sdrammatizzare. E la sua sicurezza nell’affrontare a muso duro certi passaggi personali e di lavoro, come nel caso degli insulti seguiti all’uscita dei suoi libri revisionisti sulla guerra civile italiana tra il 1943 e il 1946.
Un carattere quello di Giampaolo capace di cambiare il mio, tendente al pessimismo. Per lui il famoso bicchiere era sempre mezzo pieno e, nel descrivere le persone e gli avvenimenti, aveva una dote particolare: faceva emergere pure gli aspetti pittoreschi dei personaggi che dipingeva con le parole sulla carta.
Una sera d’estate ci recammo a cena in un ristorante nel ghetto ebraico di Roma. Il sole era tramontato da un po’, ma resisteva una leggera penombra. Mentre un cameriere ci guidava al nostro tavolo, osservai una persona che ci dava le spalle alzarsi dalla sua sedia come fosse una molla.
Non riconobbi subito la figura esile che ci venne incontro. Poi ascoltai la sua voce entusiasta e sobbalzai: «Ciao, Panzàc. Tu sei Panzàc». Era Roberto Benigni. Ricordavo di averlo visto ancora sconosciuto quando portava i suoi spettacoli nei cinema e nei teatri di provincia. Ma il Benigni di quella sera d’estate a Roma era un divo, un grande attore che pochi anni dopo avrebbe vinto l’Oscar con il suo La vita è bella. E si era alzato per fare festa al mio pittoresco Pansa. Conservo il ricordo di un Giampaolo quasi intimidito e l’immagine della moglie Simonetta che, silenziosa e sorridente, guardava quel folletto di marito con la dolcezza che si riserva a un figlio.
Accadeva anche a me di guardare Giampa in quel modo quando assistevo alle presentazioni dei suoi libri in giro per l’Italia. Rimanevo tranquilla fino a quando la serata cominciava a diventare noiosa, oppure lui si dilungava nelle risposte, un segnale chiaro di stanchezza. E allora, cercando di non essere notata, gli facevo segno con la mano di tagliare, oppure pronunciavo un «Basta» silenzioso.
Reagiva da vero briccone. Con un’occhiata affettuosa e un leggero cenno di assenso con il capo, si rivolgeva al pubblico: «La mia padrona mi sta facendo segno che ho già parlato troppo. Allora smetto». E, mentre la sala si girava verso di me, continuava a parlare fino a quando non aveva detto quel che aveva in mente. Era fatto così, era rimasto il bambino buono che si divertiva a fare i dispetti alla nonna e Caterina lo inseguiva lanciandogli il suo zoccolo di legno. Io mi limitavo a scuotere la testa con un sorriso lieve sulle labbra.
Mentre scrivo, sto diventando malinconica. Giampaolo mi manca enormemente. Durante le mie giornate, a tratti il cuore sanguina. Mi guardo intorno e lui non c’è. Mi manca la sua voce, il parlare con lui, il ridere insieme, vedere un film o parlare di un libro. Mi mancano le sue telefonate.
Difficilmente Giampaolo mi accompagnava quando andavo per commissioni, ma chiamava di continuo. Se si avvicinava il mezzogiorno, diventava impaziente e dal suo cellulare mi chiedeva: «Dolce, dove sei? Quando torni? Mi manchi». E poi, canticchiava: «Torna, questa casa aspetta te!». Soltanto poche volte mi lamentavo dei suoi solleciti, di solito li accoglievo ridendo. Cosa darei per risentire quel «Torna, questa casa aspetta te!».
Sono stata una donna fortunata, so che trent’anni di felicità come la nostra sono un regalo che non tocca a molti. Eppure sembrano durati il tempo di un sospiro. Non so se il disegno del Padre celeste prevede che ci incontreremo nel mondo nuovo, ma credere che sia possibile mi dà la forza di vivere. Come canta Luigi Tenco: «E la speranza ormai è un’abitudine».
Adele Grisendi Pansa
Giampaolo Pansa e Adele Grisendi
La mia vita con Giampaolo Pansa è iniziata il 13 dicembre 1989, la sera di Santa Lucia. La notte più lunga che ci sia, come aggiungeva immancabilmente mia madre Jolanda, che amava le rime.
Quella sera diluviava. Aveva cominciato a piovere a dirotto nel tardo pomeriggio, attorno alle diciassette e con un’intensità via via maggiore. Ero rientrata prima dall’ufficio in sindacato Università. Volevo prepararmi nel modo migliore all’appuntamento che avevo per cena.
A Roma, quando piove, trovare un taxi è un’impresa. Neppure se si ha un marito o un figlio che faccia il tassista è sicuro che uno di loro si presenti a prenderti. Dopo non so quante telefonate e l’ansia che mi cresceva dentro per il timore di non farcela a uscire, finalmente una delle centrali esaudì la mia richiesta. E con un po’ di ritardo raggiunsi l’hotel Ambasciatori, in via Veneto, dove ad attendermi avrei trovato Giampaolo Pansa. Almeno lo speravo, perché avrebbe potuto andarsene visto che non ero puntuale.
Indossavo una gonna a fiori su fondo marrone, la camicetta bianca d’ordinanza con un cardigan leggero della giusta tonalità. Un montgomery sempre marrone con il cappuccio e ai piedi gli stivali con il tacco basso. Il cuore in gola e trafelata, salii veloce i gradini e spinsi la porta girevole dell’hotel. Con un gesto che mi è spontaneo, e che Giampaolo mi avrebbe sempre detto di avere ammirato, scrollai il capo all’indietro con un movimento leggero per abbassare il cappuccio ed entrai.
Nel salire i gradini mi raccomandai di fare attenzione a non inciampare. E mi dicevo: “Te l’immagini la scena di te che ruzzoli a terra? Che bello spettacolo sarebbe”. Poi alzai gli occhi e, oltre il vetro, lo vidi a due metri da me. Giampaolo Pansa stava lì in attesa, accomodato su un’imponente cadrega in legno. Alla destra della porta girevole e il bancone della reception sullo sfondo.
Più della pancia abbondante fasciata nella camicia sulla quale spiccava la cravatta, a colpirmi fu il suo profilo. Il naso forte, la fronte alta e i capelli lunghi sulla nuca. La sedia simile a quella dei papi portati in processione o, più modestamente, alla cadrega dove sedeva di solito il nonno Berto, il padre di mio padre Cesare, rendeva ancora più imponente la sua figura.
Fu come risvegliarmi all’improvviso. Davanti a quell’uomo che era tanto in tutti i sensi e, quasi spaventata per l’azzardo, mi domandai: “Che cosa ci faccio qui?”. Però, anche se avessi avuto l’intenzione di girare i tacchi e scappare, non ne avrei avuto il tempo. Giampaolo si alzò di scatto e mi venne incontro.
Mi salutò con l’entusiasmo che avrei imparato ben presto a conoscere e mi trascinò con sé attraverso il salone dell’Ambasciatori. E mi fece notare gli affreschi alle pareti che ritraevano donne e uomini della borghesia romana anni Quaranta. Una gioia per gli occhi che, nei molti anni vissuti insieme e ormai inesorabilmente alle mie spalle, avrei tante volte pensato di tornare ad ammirare. Sarebbe bastato salire di nuovo i gradini dell’hotel che ha cambiato nome e chiedere il permesso di entrare nel salone affrescato. Non l’ho mai fatto, ma alla prima occasione provvederò.
Giampaolo mi guidò fino alla sala del ristorante dalla scala interna. Un maître ci accolse con gentilezza discreta e facendomi sentire a mio agio. Aveva sulle labbra un sorriso affettuoso e anche un poco complice verso il dottor Pansa. Non saprei dire perché, ma ricordo di aver provato la sensazione che fosse contento di vederlo in compagnia di una donna.
Ordinai un filetto con contorno di spinaci all’agro, ma non toccai cibo. Della conversazione di quella serata non rammento nulla, assolutamente nulla. Ho però precisa memoria di essere stata tempestata di domande. La curiosità in Giampaolo è insopprimibile e lo porta a chiedere di tutto a tutti. A un cameriere come a un manager o un capo politico. E con me non fece eccezione, come del resto era accaduto due settimane prima, quando mi ero rivolta a lui in treno.
Quando interroga, lui segue un metodo semplice: a una domanda ne segue un’altra, poi un’altra e un’altra ancora. Ma quella sera non fu la sua curiosità a impedirmi di cenare, fu la morsa nello stomaco che mi procurava trovarmi lì con lui. Non era dovuta al grande giornalista, ma all’uomo sorprendente e libero, aperto, semplice. La stessa sensazione che mi era rimasta addosso dopo il nostro incontro in treno. Quella sera trovai un Pansa allegro e affascinante. Nonostante la pancia, la pappagorgia e i capelli bisognosi di un bravo barbiere. Ma più di tutto, mi trasmise la sensazione di essere una persona sola, che sentiva il peso della solitudine.
Fin dal momento in cui si era alzato dalla grande sedia nella hall fui consapevole che avrei sofferto come un cane bastonato dopo il dono di quella serata. Seppi che mi sarei ammalata di malinconia, perché l’amore a prima vista esiste e quando ti tocca, quando ti colpisce, non lascia scampo. Eppure non avrei voluto essere in nessun altro posto che non fosse quel divanetto del ristorante dell’Ambasciatori. E poi accadesse quel che immaginavo: un bel saluto caloroso e buona vita.
Però non è andata così. La sera successiva ci ritrovammo di nuovo seduti l’uno di fronte all’altra e così anche la sera dopo e quella seguente ancora. Per settimane, per mesi e per anni trenta.
A ogni incontro scoprivo un uomo buono. Un uomo generoso che aveva un serbatoio d’amore da donare e, al tempo stesso, un serbatoio d’amore da riempire. È toccato a me di diventare la sua compagna nella vita e a lui di diventare l’uomo da amare infinitamente sino al mio ultimo giorno.
Il calore e la disponibilità umana di Giampaolo li avevo conosciuti subito, già la prima volta che gli avevo parlato.
Era accaduto un venerdì di fine novembre di quel 1989, pochi giorni prima di quella cena. Uno degli anni segnati in rosso nel libro della storia del mondo per gli sconvolgimenti nell’Est Europa, dove si stava ormai dissolvendo la vecchia Unione Sovietica. L’uomo nuovo del Cremlino, Mikhail Gorbaciov, aveva aperto con le sue riforme la strada all’autonomia dei vari Paesi che fino ad allora avevano costituito il blocco sovietico.
Sull’onda di quegli avvenimenti, il 24 di quel mese si stava scrivendo una pagina importante anche della storia italiana. Alle Botteghe Oscure, la storica sede del Partito comunista italiano, i massimi dirigenti del partito, il più grande dell’Europa occidentale, erano convocati per decidere la chiusura della vecchia ditta.
Di anni ne sono passati trentuno e non smetto di credere che fu un vero miracolo se riuscii a salire sul treno per Reggio Emilia, dove ero diretta per una visita ai miei vecchi genitori. Il caotico traffico di Roma e i disservizi dei suoi mezzi pubblici, compresi quelli privati come i taxi, avevano congiurato per impedirmi di giungere alla stazione Termini. Quando finalmente ero arrivata, per la prima volta in vita mia fui felice del ritardo alla partenza del treno. Però non immaginavo quale cambiamento stesse per intervenire nella mia esistenza.
In viaggio da alcuni minuti mi resi conto dell’urgenza di mangiare qualcosa. Con i giornali sottobraccio, mi affrettai verso la carrozza bar per un panino. Poi, nell’ultimo vagone prima che si spalancassero le porte, seduto nel posto singolo con lo schienale incollato al treno, notai Giampaolo Pansa.
Come fossi in trance, attraversai il breve spazio che ci separava decisa a disturbarlo. Mentre tenevo gli occhi incollati su di lui, quasi avesse sentito il mio sguardo, alzò il capo e mi fissò come per chiedermi: “Ehi ragazza, che vuoi?”. All’ultimo secondo non me la sentii di rivolgergli la parola e mi rifugiai al bar. Acquistai un panino, ma la fame era scomparsa. Una vocina dentro di me mi sfidava: “Ti dai tante arie e poi, guardati, sei qui a rimuginare. In fin dei conti, Giampaolo Pansa è un uomo come gli altri. Adesso voglio proprio vedere se hai il coraggio di parlargli!”.
Dopo un respiro profondo di incoraggiamento, superai la porta scorrevole del vagone e mi fermai di fianco a lui. E sentii la mia voce che gli diceva: «Dottor Pansa, lei non mi conosce. Mi chiamo Adele Grisendi e sono una comunista sofferente. Posso farle una domanda? Mi dice che cosa è accaduto stamane alle Botteghe Oscure?».
Giampaolo stava leggendo con attenzione un libro, si riscosse e si volse verso di me con uno scatto lieve del capo, sorpreso da quell’approccio inaspettato. E mentre mi osservava con attenzione, appoggiò il libro sulla mensola alla base del finestrino e rispose con voce alta e decisa: «Ah, non so niente. Non sono andato al Comitato centrale stamattina. Ho litigato con il direttore Eugenio Scalfari. Mi ha detto che i miei pezzi erano buoni, ma troppo favorevoli ad Achille Occhetto e alla svolta. Allora gli ho detto di mandarci qualcun altro al Bottegone e sono partito per Firenze. Vado a presentare questo libro del sindaco Giorgio Morales insieme ad Alberto La Volpe, l’ex direttore del Tg2».
Nella sua voce notai risentimento. Poi, come rendendosi conto di poter apparire sgarbato, mi regalò un bel sorriso e mi invitò: «Si sieda». Allungando le braccia e a mani aperte, quasi volesse darmi una spinta perché mi sedessi di fronte a lui. E iniziò a fare domande su domande.
Quando si presentò il ragazzo che occupava il posto dove stavo seduta, senza tanti complimenti Giampaolo lo mandò via. «Il vagone è vuoto, sistemati da un’altra parte. Qui resta la signora» e gli fece segno di allontanarsi con un gesto sbrigativo.
Indossava un paio di pantaloni grigio scuro, una camicia Baggies azzurra, la cravatta e un cardigan pesante di lana blu. Io, come mi avrebbe poi ricordato migliaia di volte, portavo una gonna verde militare, una camicia bianca e un maglioncino anch’esso verde. Lo stesso colore dei collant. Il mio giornale più in vista era «il manifesto» e in seguito lui mi ha sempre detto di aver pensato: “Oh mio Dio, una professoressa del ‘manifesto’ con orribili calze verdi”, ma per mia fortuna non tardò a capire che non ero né l’una né l’altra. Forse qualcosa di peggio, visto che ero una funzionaria della Cgil nazionale, in corso d’Italia a Roma.
Rimasi seduta di fronte a lui rispondendo alle sue domande. Ricordo di avergli detto di avere acquistato sia il suo Il malloppo che il libro di Giorgio Bocca Il padrone in redazione. Commisi un errore che rischiò di costarmi caro. Quando aggiunsi che Bocca l’avevo già letto, mentre il suo ancora no, Giampaolo commentò visibilmente infastidito: «È meglio il mio». Fu talmente deciso che non cercai nemmeno di recuperare dicendogli che avevo terminato in una notte il suo Carte false, un libro che si era rivelato fondamentale per aiutarmi a capire chi e che cosa leggevo sui giornali.
Giampaolo, però, aveva già cambiato argomento. Mi parlò di sé e del suo unico figlio. Aveva avuto un épagneul breton, un bretone, un cane da caccia. Me lo descrisse nei minimi dettagli e poi mi parlò di un libro di Lorenz, E l’uomo incontrò il cane. Per concludere raccontandomi di quando Bret, come lo chiamava lui, aveva sentito che il vecchio suocero se ne stava andando e gli era rimasto accanto con il muso appoggiato sulle coperte fino a...

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  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La mia vita con Giampaolo Pansa
  4. A chi legge
  5. Grazie
  6. Copyright