Boris Pasternak scrisse di Majakovskij più volte. Alla sua tragica morte egli dedicò una lirica, Smert’ poeta [La morte del Poeta], che con evidenza si collegava alla tradizione dell’omonima celebre poesia di Michail Lermontov, composta in occasione della morte di Aleksandr Puškin. La lirica nella prima redazione si concludeva con i versi:
Il tuo sparo fu come un Etna
In un pianoro di uomini e donne codardi.
Pasternak considerava Vladimir Majakovskij il primo poeta della sua epoca, di lui aveva scritto nelle sue autobiografie, Ochrannaja gramota [Il salvacondotto] e Ljudi i položenija [Uomini e posizioni], in una serie di flashback che andavano dal primo incontro all’epoca delle schermaglie futuriste fino alla scioccante visione del suo corpo riverso poche ore dopo la morte.
Parlando di lui il 12 aprile 1933 all’Università di Mosca in una serata dedicata alla memoria del poeta, tra il disappunto dei compagni di penna di Majakovskij, – tra loro Osip Brik, Sergej Kirsanov e Nikolaj Aseev, – inclini a evidenziare il carattere coerentemente proletario e partitico dell’opera di Majakovskij, Pasternak ne sottolineò invece la natura tragica e contraddittoria. Riconoscendo alla sua opera un carattere profetico, Pasternak poneva in risalto di Majakovskij lo spirito rivoluzionario (revoljucionnost’), «uno spirito rivoluzionario del tutto autonomo, generato non solo dagli eventi storici, ma anche dal suo tipo, dalla sua costituzione, dal suo pensiero, dalla sua voce. Egli sognò la rivoluzione, prima che quella accadesse. Il suo spirito rivoluzionario è uno spirito rivoluzionario innato, di un tipo del tutto particolare, non ho paura a dirlo, individuale, che è in grado di concorrere con un certo tono ufficialmente riconosciuto della nostra rivoluzione»1.
Di Majakovskij Pasternak scrisse anche nella parte sesta del Dottor Živago, L’accampamento di Mosca, attraverso le parole di Jurij Živago, il quale così rispondeva a Dudorov che gli chiedeva se avesse letto i poemi di Majakovskij: «Vi ho già risposto, Innokentij. Non è colpa mia se non avete sentito. Ma ve lo ripeterò. Majakovskij mi è sempre piaciuto. È come una continuazione di Dostoevskij. O meglio, è una lirica scritta da qualcuno dei suoi personaggi giovani e inquieti, come Ippolit, Raskol’nikov o il protagonista de L’adolescente. Che talento travolgente! Come riesce a dire tutto, una volta per sempre, in modo implacabile e assolutamente coerente! E, soprattutto, con che audacia e che slancio scaraventa le cose in faccia alla società e anche più lontano, nello spazio!».2
E così Majakovskij appare come un poeta orientato verso il futuro e, al tempo stesso, fortemente radicato nella grande tradizione letteraria russa, il tragico alfiere di una rivoluzione sociale e individuale e, contemporaneamente, una nuova inimitabile voce nel concitato dialogare degli autori russi e dei loro eroi.
Di Majakovskij abbiamo altrettanto autorevoli ritratti e interpretazioni da parte di molti altri suoi contemporanei. Pensiamo a Marina Cvetaeva, Roman Jakobson, Anna Achmatova, Lev Trockij, per non parlare delle persone a lui più vicine (dai familiari ai membri della nuova «famiglia», costituita da Lilja Brik e Osip Brik, a Elsa Triolet), dei tanti suoi correligionari (da David Burljuk a Vasilij Kamenskij), dei critici formalisti vicini alla letteratura d’avanguardia (da Jurij Tynjanov a Boris Ejchenbaum) e dei tanti suoi avversari (da Ivan Bunin a Vladislav Chodasevič). Due libri profondamente diversi, contrapposti, uno di Georgij Šengeli3, l’altro di Viktor Šklovskij4, in decenni diversi, segnarono differenti prospettive di consuntivo critico sul nostro, mentre giovani esponenti del formalismo, tra loro in primo luogo Vladimir Trenin e Nikolaj Chardžiev, avviarono con acribia negli anni bui dello ždanovismo lo studio fattuale del retaggio biografico e artistico di Majakovskij nel contesto del futurismo e, più in generale, della letteratura e delle arti d’avanguardia nel primo trentennio del xx secolo. A tutta questa tradizione critica e memorialistica, corroborata poi, in epoca post-bellica, da fondamentali studi pubblicati anche all’estero (mi riferisco, ad esempio, ai libri di Ripellino, Stahlberger, Wotylinski, Jangfeldt), avremo poi modo di tornare, ma adesso, partendo proprio dalle parole che Pasternak attribuisce a Jurij Živago, proviamo a ripercorrere oggi il cammino artistico, a rileggere la testimonianza artistica e di vita del poeta Vladimir Vladimirovič Majakovskij.
Nel suo appassionato saggio, scritto ancora a caldo, l’anno successivo alla morte del poeta, Roman Jakobson notava: «È stato Majakovskij a scrivere che persino il vestito del poeta, persino le sue conversazioni domestiche con la moglie devono essere determinate da tutta la sua produzione poetica. Majakovskij comprendeva con chiarezza la profonda efficacia vitale della congiunzione tra biografia e poesia».5
Allo stesso tempo, proprio come aveva notato Lev Trockij, Majakovskij è ‘majakomorfo’ e «popola di sé le piazze, le vie e i campi della rivoluzione».6 Scrisse Marina Cvetaeva: «C’è una formula per Pasternak e per Majakovskij. È il doppio verso di Tjutčev: “Tutto è in me e io sono in tutto”. Tutto in me: Pasternak. Io in tutto: Majakovskij».7
Vi è insomma un complesso processo di identificazione tra l’autore e i suoi eroi, tra la quotidianità vissuta e il suo mondo poetico e artistico, tra la vita affettiva del poeta e gli slanci, le aspettative dei suoi eroi. Majakovskij, per dirla con Živago, è nel contempo Dostoevskij e Raskol’nikov. In questa prospettiva una lettura critica della sua autobiografia, che venne redatta più volte in diverse varianti8, senza dubbio costituisce, certo in sintonia con le numerose incarnazioni dell’eroe lirico majakovskiano, una chiave d’accesso privilegiato alla comprensione dell’opera del poeta. Da questa ci dipartiamo per il nostro viaggio nel mondo poetico majakovskiano.
Per Majakovskij la poesia è la dimensione totalizzante dell’essere: «Sono poeta. E per questo sono interessante. E di questo scrivo».9 Tutta la sua vita, anche nella sua fase iniziale, – nacque nel Caucaso georgiano, nel piccolo villaggio di Bagdadi, non lontano dall’antica città di Kutaisi in data 7 luglio 1893, figlio di una guardia forestale, Vladimir Konstantinovič Majakovskij e di Aleksandra Alekseevna Pavlenko – sembra orientata verso quella dimensione.
Viktor Šklovskij, nel parlare dell’infanzia e della vita familiare di Majakovskij, prima che questi si trasferisse a Mosca a seguito della morte del padre, intitolava l’intero capitolo Il paesaggio.10 Certo il grande critico e scrittore si riferiva non solo alla vita quotidiana nell’infanzia del poeta, ma intendeva anche il maestoso paesaggio del Caucaso, così selvaggio e assoluto. La natura del Caucaso sembrava aver temprato la natura poetica del giovane, aver predisposto l’iperbolico afflato del suo sistema di tropi e immagini, ma anche il suo spirito d’inquieto ribelle (la revoljucionnost’ individuata da Pasternak). Il Caucaso ricorrerà spesso in forma mitico-simbolica nella sua lirica, e spesso con riferimenti autobiografici, come, ad esempio, nella poesia Vladikavkaz-Tiflis (1924): «Non appena / il piede / misi nel Caucaso, // Ricordai, / che sono / georgiano».
Allo stesso tempo tutta la vita a lui d’intorno, con l’incessante quotidiano scorrere degli eventi, altro non era che un lontano paesaggio di fronte al quale grandeggiava già, goffa, ingombrante, ma poderosa, la titanica figura del poeta. E in quel paesaggio scorrevano gli eventi storici, dalla guerra antigiapponese ai disordini nel Caucaso, alla prima rivoluzione russa dell’anno 1905. E il giovane Vladimir fu trasportato dal vento della rivoluzione. Se il primo libro che aveva letto era il racconto per l’infanzia Ptičnica Agaf’ja [Agata l’allevatrice di pollame] di Klavdija Lukasêvič, e poi era rimasto incantato dal Don Chisciotte («Quello, sì, era un libro! Mi feci una spada di legno e una corazza e menai colpi su tutto ciò che mi stava d’intorno»), ben presto, insieme all’allegoria rivoluzionaria del Burevestnik [La procellaria] di Maksim Gor’kij, egli assimilò la letteratura politico-rivoluzionaria, lesse libelli e trattati, amò Lassalle, rimanendo comunque fedele alla propria dimensione artistica. Il giovane Majakovskij recepiva infatti tutto artisticamente: ora le manifestazioni politiche del 1905 appaiono ai suoi occhi variopinte tele geometriche, – nero gli anarchici, rosso i socialrivoluzionari, azzurro i socialdemocratici, negli altri colori dell’iride i federalisti, – ora come Demostene, lungo il fiume Rioni egli va declamando, riempitasi la bocca di sassolini.
Proseguendo con difficoltà gli studi, Majakovskij giunse a Mosca nel 1906 con la madre e le sorelle. Qui si provò anche a lavorare, dipingendo uova pasquali á la russe, poi scrisse versi per un giornalino illegale dal titolo «Poryv» [Lo slancio] in uno stile che anni dopo, nell’autobiografia, il poeta definì «nel genere dell’odierno Kirillov», un poeta proletario il cui stile era fortemente patetico, retorico e caratterizzato da un improbabile uso delle metafore (di lui Majakovskij scriverà criticamente nel saggio Kak delat’ stichi? [Come fare versi?]). Proprio in questo periodo, come riferirà molti anni dopo David Burljuk, Majakovskij frequentò il poeta simbolista Viktor Gofman.11
Nel 1908 Majakovskij entrò nella frazione bolscevica del partito socialdemocratico. Di lì a poco gli arresti e la cella d’isolamento nel carcere Butyrki. Gli undici mesi di prigione furono segnati da un crescente interesse per la letteratura (lesse i simbolisti e i classici dell’Ottocento, ma non riuscì a finire Anna Karenina) e, in particolare, per la composizione di versi. Majakovskij riempì un intero quaderno di poesie. Il quaderno gli fu confiscato all’uscita dalla prigione e di questo il poeta si dichiarerà poi lieto, dato il carattere ancora immaturo di quelle prime prove di penna. Uscito di prigione non si decise a diventare un rivoluzionario di professione, preferì studiare. Si dedicò alla pittura. Il che nella concezione sincretica che è propria del pensiero estetico di Majakovskij e, più in generale, delle avanguardie del tempo, non deve stupire. L’aver seguito i corsi di S. Žukovskij, prima, e del realista P. Kelin, poi, fece di lui un discreto professionista. Fu ammesso a frequentare l’Učilišče živopisi, vajanija i zodčestva [Istituto di pittura, scultura e architettura] di Mosca. Proprio qui, agli inizi del settembre 1911, conobbe il poeta e pittore David Burljuk, già attivo rappresentante dell’arte d’avanguardia e ideatore del primo almanacco dei budetljane [futuristi, quelli di ciò che sarà] Sadok sudej [Il vivaio dei giudici, 1910].
Così Majakovskij cominciò ad amare la nuova pittura, allora fortemente orientata verso la coeva pittura francese e legata ai gruppi Sojuz molodeži [Unione della gioventù] di Pietroburgo (tra i membri P. Filonov e O. Rozanova) e Bubnovyj Valet [Il fante di quadri] di Mosca (a esso era legato lo stesso Burljuk). Da questo secondo gruppo si staccarono poi i giovani artisti dell’Oslinyj Chvost [La coda dell’asino] (tra i quali Larionov, Gon...