La guerra di Franci
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La guerra di Franci

  1. 240 pagine
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La guerra di Franci

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Informazioni sul libro

Quando Hitler invade la Cecoslovacchia, nel marzo del 1939, Franci Rabinek ha diciannove anni. È una giovane donna passionale e inquieta, nata in una famiglia di ebrei non praticanti di Praga. Il padre è un ex ufficiale dell'esercito austriaco, la madre è proprietaria di un rinomato atelier di alta moda.
Nell'estate del '42 Franci viene deportata insieme al marito e ai genitori nel ghetto di Terezín, la cittadella fortificata dove sono segregati trentacinquemila ebrei. È la prima tappa di un viaggio di tre anni, che passerà per l'inferno di Auschwitz-Birkenau - qui Franci si salverà grazie al suo incredibile sangue freddo, affermando di essere un'elettricista -, poi per il campo di lavoro di Amburgo e per il campo di concentramento di Bergen-Belsen. Nel 1945, la liberazione e il ritorno a casa. Un viaggio a cui, nonostante la degradazione e le umiliazioni, la pervasività del dolore e della morte, Franci sopravvive, per poi raccontare, con voce prodigiosamente lieve, la sua storia.
Rimasta chiusa in un cassetto per oltre cinquant'anni e pubblicata grazie alla figlia dell'autrice, la scrittrice e giornalista Helen Epstein, La guerra di Franci è una nuova testimonianza, pulsante e necessaria, del dramma di un'intera civiltà.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831802963

1

Era una calda giornata d’inizio settembre del 1942 e il Palazzo Industriale di Praga pullulava di gente. La maggior parte stava sdraiata o seduta sulla poca paglia che copriva il pavimento, gli altri vagavano in giro storditi e increduli. Erano spariti i lucidi manufatti dell’industria cecoslovacca che avevano sempre dato a quel luogo l’aria di un festoso luna park.
Eravamo venuti spesso al Palazzo Industriale quand’ero bambina e l’azienda elettrotecnica di mio padre, la Korálek & Rabinek, aveva uno stand.1 Era sempre stata una gioia. Rientravo a casa con campioni gratuiti, palloncini e una quantità di cataloghi patinati. Ma quella volta non sarei tornata perché il Palazzo Industriale era stato convertito in centro di raccolta degli indesiderabili, cioè degli ebrei, che dovevano essere deportati a causa delle leggi di Norimberga sulla razza.
Nessuno di noi avrebbe dovuto stupirsi. La trappola era scattata tre anni prima, ma le umiliazioni sistematiche e il lavaggio del cervello erano stati graduali e solo in parte riusciti. La nostra umanità era ancora integra. Fino a quel momento non ci eravamo resi pienamente conto della situazione. E fu un duro colpo vederci all’improvviso trattati come bestie.
Avevo ventidue anni e stavo sdraiata con la testa sul grembo di mia madre in una specie di torpore. Ero stata da poco operata di tonsillectomia, non mangiavo da qualche giorno e facevo fatica a inspirare l’aria piena di pulviscolo. Mia madre mi accarezzava i capelli e cercava di farmi bere un po’ d’acqua, mentre mio padre vagava fra i suoi conoscenti nella speranza di capire cosa ci aspettasse. Gruppi di SS entravano e uscivano come furie, urlando ordini e radunando piccole squadre di ebrei a cui far pulire le latrine. Sceglievano con cura gli anziani dall’aria più distinta, gli uomini che portavano gli occhiali. Mio padre era uno di questi.
Quando, in ospedale, mi avevano detto che ero stata selezionata con i miei genitori per un trasporto, l’infermiere, un nostro amico, mi aveva detto: «Possiamo tirartene fuori con la scusa dell’intervento». Ci avevo riflettuto per qualche istante, poi gli avevo detto: «Non voglio lasciarli soli. Sono troppo vecchi e non hanno nessun altro». Mia madre aveva sessant’anni e mio padre quasi sessantacinque. Non riuscivo a immaginarmeli andare da nessuna parte senza di me. Ma c’era anche un piccolo motivo egoistico: mio marito era già stato portato via e sarei rimasta sola. Inoltre, nel settembre del 1942 ero così stufa di tutte le restrizioni in vigore a Praga che cambiare aria sarebbe stato un sollievo, indipendentemente da cosa avrei trovato. Sono sempre stata così, purtroppo.
1. Il centro di raccolta si chiamava allora Radiopalác Pražských vzorkových veletrhù. (N.d.C.)

2

Hitler invase la Cecoslovacchia il 15 marzo 1939, circa due settimane dopo che avevo compiuto diciannove anni. La politica non mi interessava minimamente e sapevo solo per sentito dire che i miei quattro nonni erano ebrei. Un anno prima ero diventata la proprietaria dell’atelier d’alta moda di mia madre. Ero una ragazza spensierata, e anche un po’ viziata, a cui piaceva ballare, fare il suo lavoro, civettare e sciare, esattamente in quest’ordine.
Mio padre, Emil Rabinek, era nato a Vienna nel 1878 da una famiglia ebrea di funzionari statali austriaci. Era il più piccolo e credeva fermamente nell’integrazione. A vent’anni si era convertito al cattolicesimo per iscriversi all’Università di Berlino aggirando il numero chiuso che limitava l’accesso agli ebrei. Durante la Prima guerra mondiale aveva combattuto senza molto entusiasmo nell’esercito austriaco, e nel 1918 aveva salutato con favore la nascita della Repubblica Cecoslovacca. Viveva a Praga da molti anni. Da un punto di vista culturale e sentimentale era rimasto un austriaco, ma considerava la Cecoslovacchia un esperimento interessante nella storia della socialdemocrazia, una specie di Svizzera nel cuore dell’Europa, dove tutte le minoranze godevano di uguali diritti. Così aveva scelto di diventare un cittadino cecoslovacco.
I successivi vent’anni della sua vita avevano giustificato quella scelta. Mio padre faceva parte della comunità germanofona di Praga, frequentava club, teatri e sale da concerto tedeschi. Una delle sue espressioni preferite era: «Sono un cittadino cecoslovacco di nazionalità tedesca». Tanto che non imparò mai bene il ceco. La grande libreria di casa era quasi tutta piena di opere in tedesco, fra cui anche traduzioni di capolavori della letteratura francese, inglese e russa. Mi insegnava ad ammirare tutto ciò che era tedesco, o che ci arrivava filtrato dalla lingua tedesca. In casa nostra non entrò un libro ceco fino a quando, da adolescente, iniziai a comprarmeli da sola.
Benché non gli fossero mancati dei segnali d’avvertimento sul nazismo, mio padre considerava le notizie che arrivavano dalla Germania semplice propaganda. Credeva nella correttezza, nel senso della giustizia e dell’onore, nella civiltà del popolo tedesco. Era anche convinto che la Cecoslovacchia fosse un Paese forte e che la sua sovranità fosse garantita dagli alleati inglesi e francesi. Nemmeno l’annessione dell’Austria nel 1938 gli aveva fatto cambiare opinione, e considerava dei codardi i suoi cugini, che erano scappati da Vienna. Sua sorella maggiore, Gisela Rabinek Kremer, era rimasta là con parte dei suoi figli e questo costituiva per lui una prova ulteriore del fatto che era sbagliato farsi prendere dal panico e fuggire.
Ma c’erano anche questioni di natura finanziaria. Nel febbraio del 1920, quando sono nata, mio padre era un uomo ricco – comproprietario di un cantiere navale e di una ditta che vendeva all’ingrosso materiale elettrotecnico. Dopo la crisi del 1929 e la Grande depressione, la sua ricchezza si era ridotta. Avevamo ancora il nostro splendido appartamento, con tutti i libri e i quadri, e conducevamo una vita agiata. Ma quando i tedeschi invasero la Cecoslovacchia, la nostra fonte di reddito principale divenne l’atelier d’alta moda mio e di mia madre, che fino a quel momento lui aveva ritenuto il capriccio di una donna emancipata. Ora il lavoro di mio padre era occuparsi della nostra contabilità. Gli affari andavano bene, ma gran parte del capitale era impegnato in quell’impresa, non era immediatamente disponibile perché lo si potesse convertire in valuta straniera al mercato nero. Mio padre diceva spesso: «Alla nostra età non possiamo emigrare senza un capitale».
A mia insaputa, e a dispetto dei suoi impavidi discorsi, mio padre aveva avviato una corrispondenza con suo cugino in Inghilterra allo scopo di farmi uscire dalla Cecoslovacchia. Non venne a capo di nulla, e solo venticinque anni dopo venni a sapere da questo parente in preda ai sensi di colpa di come mio padre l’avesse supplicato di fare qualcosa, qualunque cosa, per salvarmi. Credo che a spingerlo fosse stata mia madre: lei aveva capito che una vera catastrofe si era abbattuta sulla Cecoslovacchia in generale, e sulla nostra famiglia in particolare.
Mia madre, Josefa «Pepi» Sachsel, parlava il ceco benissimo e nutriva una specie di profonda devozione per quel popolo, sebbene anche lei fosse nata a Vienna. Entrambi i suoi genitori erano morti quando aveva nove anni, e nel 1891 era andata a vivere con i suoi due fratelli maggiori in casa di zia Rosa, la sorella di suo padre, nella cittadina ceca di Kolín.
Rosalia Sachsel Lustfeld, secondo mia madre, era una donna poverissima e profondamente religiosa. Assidua frequentatrice della sinagoga, preferiva discutere del Talmud con i chassidim di passaggio piuttosto che occuparsi del suo negozio di vestiti usati. I miei zii se ne andarono presto da Kolín: Emil Sachsel si arruolò nella Marina austro-ungarica prima di stabilirsi a Bratislava, mentre Rudolf Sachsel andò a fare il venditore ambulante, fino a diventare un ricco grossista di Praga. Essendo solo una bambina di nove anni Pepi rimase in quella casa, imparò il ceco e frequentò la scuola elementare, circondata dall’amore soffocante, dal fervore religioso e dalla rigidità di zia Rosa. Questa combinazione riuscì, negli anni, a guastare il rapporto che mia madre aveva con l’ortodossia ebraica e a fare di lei un’agnostica.
Anche il caso Hilsner ebbe un ruolo in questa trasformazione. Nel 1899, quando Pepi aveva diciassette anni, una sartina ceca di religione cattolica era stata trovata morta in una pozza di sangue nei giorni di Pesach. I principali sospetti erano caduti su un ebreo vagabondo di nome Leopold Hilsner, accusato di avere commesso un omicidio rituale. Mia madre mi raccontava che erano scoppiati dei pogrom in tutto il Paese, anche a Kolín. Ma pure un altro evento l’aveva allontanata dall’ebraismo: il suo primo amore era stato un ricco ragazzo ebreo di Kolín, che i genitori avevano mandato all’estero per impedire che sposasse una povera orfanella.
Zia Rosa aveva insegnato alla nipote come si valuta un vestito usato e come si cuce. A vent’anni Pepi fece quello che avevano fatto i suoi fratelli e lasciò Kolín. Si trasferì da suo fratello Rudolf a Praga e trovò lavoro in uno dei più famosi negozi d’abbigliamento della città, Moritz Schiller. In due anni diventò directrice e responsabile degli acquisti. Mia madre non aveva mai avuto desiderio di sposarsi, ma al solo scopo di tranquillizzare zia Rosa, che temeva per la sua virtù nella grande città, accettò di convolare a nozze con un suo vecchio compagno di scuola di Kolín, diventando la signora Oskar Weigert.
In quei primi dieci anni del ventesimo secolo Pepi si trasformò in una sofisticata donna d’affari che andava a Parigi una volta all’anno. A farla soffrire fu un matrimonio infelice: Oskar era ammalato di sifilide e poi fu colpito da un male incurabile. Nel 1908 mia madre ebbe un esaurimento nervoso: il suo capo si consultò con zia Rosa e con i suoi ricchi fratelli, e insieme riuscirono a fare annullare il matrimonio sulla base del fatto che non era mai stato consumato. Josefa Weigert si trasferì in una pensione, dove incontrò l’ingegnere Emil Rabinek. Dopo un fidanzamento durato dieci anni, e dopo la morte di zia Rosa e della madre di Emil, Fanny Rabinek, si sposarono nel dicembre del 1918.
Emil Rabinek non osteggiò la carriera di Pepi, ma pretese che non lavorasse alle dipendenze di altri. Così lei aprì il suo atelier, il Salon Weigert, in uno spazio attiguo al loro appartamento in Spálená 53 a Praga. Mia madre era a suo agio con ogni genere di clientela, sia ceca sia tedesca – magari con una leggera preferenza per la prima. Molte delle sue clienti l’adoravano e spesso diventavano amiche. Aveva anche un ottimo rapporto con i dipendenti cecoslovacchi. Io sono nata nel febbraio del 1920, e mentre crescevo lei è sempre riuscita a bilanciare efficacemente la germanofilia di mio padre.
Quanto a me, parteggiavo in modo incondizionato per la Repubblica Cecoslovacca. Ero una sua figlia, dopotutto, e lo Stato aveva appena due anni più di me. Mi consideravo a tutti gli effetti una cittadina cecoslovacca, anche se i miei genitori hanno cercato di crescermi come una cittadina del mondo. A casa si parlava tedesco, ma fuori si parlava ceco. Ho studiato alla scuola francese di Praga, sono stata battezzata, ho frequentato la Chiesa cattolica e mi sono confessata. Ho sempre saputo di avere dei parenti ebrei perché una volta all’anno andavo con Mutti (mia madre) a visitare la tomba di zia Rosa nel cimitero ebraico, ma la religione non mi ha mai interessato granché. Avevo tredici anni quando ho iniziato a mettere in dubbio il dogma del cattolicesimo e poco più tardi ho chiesto a mio padre che sui miei documenti venisse scritto «nessuna appartenenza religiosa».
Ecco che genere di ebrei eravamo, io e miei genitori, quando i tedeschi occuparono Praga il 15 marzo 1939.

3

Ad aprile un uomo alto, biondo e con un taglio di capelli alla prussiana era comparso alla nostra porta e si era educatamente presentato come il commissario incaricato dal Reichsprotektor di «arianizzare» la nostra ditta ebraica. Dopo avere esaminato i documenti conservati in archivio e avere osservato come funzionava il laboratorio, probabilmente si era reso conto che a definire l’atelier erano solo il gusto e il lavoro dei proprietari, oltre che i rapporti intrattenuti con la clientela – non una potenziale miniera d’oro, per lui. Accennando in modo per nulla velato al fatto che sua moglie aveva bisogno di abiti nuovi, ci consigliò in via del tutto confidenziale di cedere l’attività pro forma a uno dei nostri impiegati e di continuare a lavorare, se volevamo, come dipendenti. Appena se ne andò, Mutti e io ci precipitammo nel laboratorio per discutere della situazione con il personale. Le cucitrici e il sarto avevano meno di trent’anni e noi eravamo così sicure di poter contare sulla loro lealtà da non pensare che avrebbero potuto svelare alle autorità il contenuto della nostra proposta.
Non sembrarono affatto sorpresi. In tutta Praga stava avvenendo la stessa cosa, ma nessuno di noi si era aspettato che potesse succedere così presto. Nacque una vivace discussione su chi avrebbe dovuto essere il proprietario pro forma, e decidemmo di rifletterci fino al giorno dopo. I miei genitori avevano dei timori a mettere tutti i nostri mezzi di sussistenza nelle mani di un dipendente – per quanto fidato – mentre a me sembrava un’idea semplice e geniale. In realtà non avevamo scelta. L’alternativa era chiudere, ma a quel punto avremmo dovuto vivere dei nostri risparmi per un periodo di tempo imprevedibile, e lasciare senza lavoro più di una dozzina di persone.
Il giorno dopo Marie, che lavorava con noi da più tempo, si offrì di entrare nella transazione. Venne stilato un contratto segreto da un avvocato di cui potevamo fidarci – faceva parte del movimento di resistenza ceco e si era già occupato di simili trasferimenti. Marie e io avremmo ricevuto lo stesso stipendio e diviso i profitti a metà. Per rendere plausibile l’operazione l’avvocato fece un prestito a Marie, mettendola in condizione di rilevare la nostra attività, e noi lo rimborsammo. Il contratto venne sotterrato nel giardino della casa di campagna dell’avvocato. Poi chiamammo un pittore d’insegne perché cambiasse i nomi sopra la porta d’ingresso.
La nostra vita proseguì senza grossi cambiamenti, a parte il fatto che il personale iniziò a chiamare Marie «signorina Marie», non usando più solo il suo nome di battesimo. Le nostre clienti, anche le tedesche, si adeguarono senza fare commenti. Qualcuna chiese discretamente se a mia madre venisse riconosciuta la parte che le spettava.
Poi i tedeschi iniziarono a vessare sistematicamente la popolazione, e in particolare gli ebrei. Innanzitutto stabilirono che doveva essere considerato ebreo chiunque aveva almeno due nonni ebrei. Io scoprii di averne quattro. Poi agli ebrei venne proibito di frequentare i luoghi pubblici, e a questo scopo furono affissi dei cartelli su tutti i ristoranti, i caffè, i parchi giochi, le piscine, i teatri, le sale da concerto, e via dicendo: VIETATO L’INGRESSO AGLI EBREI. Solo al fiume avevamo ancora accesso.
Gli ebrei vennero espulsi da tutte le università; ai medici ebrei fu concesso di curare solo ebrei e i loro studi furono confiscati uno dopo l’altro. Alla fine tutte le imprese possedute da ebrei furono arianizzate e gli avvocati ebrei furono espulsi dall’Ordine. Certe organizzazioni e certe imprese cecoslovacche, tuttavia, proseguirono per qualche tempo l’attività. L’Orchestra Filarmo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La guerra di Franci
  4. Mappa dell’itinerario di Franci
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31
  36. 32
  37. Inserto fotografico
  38. Postfazione
  39. Nota redazionale
  40. Ringraziamenti
  41. Cronologia
  42. Nota sui campi di concentramento
  43. Copyright