Barra è apparecchiata nella zona orientale di Napoli, accovacciata alle pendici del Vesuvio, di cui è figlia devota. A nord bacia il quartiere Ponticelli e Cercola, a est San Sebastiano al Vesuvio e San Giorgio a Cremano, a sud San Giovanni a Teduccio e a ovest Poggioreale.
Barra bacia tutti. Da sempre. Da quando nacque.
Era già bella che abitata quando la Nea-polis, Napoli, la città che è nuova sempre, come ci canta il suo nome, venne fondata dai Greci intorno al 470 a.C.
Nugoli di schiavi si addensavano in questo territorio per soddisfare le voglie di padroni bramanti di sguazzare in luoghi avvinti da tanta bellezza. E qui, nel 73 a.C., un popolo di scalzi, pastori, contadini e ultimi, fatti con la stessa lava del Vesuvio che li aveva partoriti, si strinse intorno al condottiero, al padre della più eroica rivolta contro la schiavitù che il mondo antico conobbe: Spartaco, il Tracio.
Bello, gladiatore, indomito.
Qui a Barra, una massa di oppressi si trasformò in un esercito di uomini che si battevano per vivere o, almeno, per morire liberi. In cima a tutti v’era lui: «Generale nobile e vero, l’unico rappresentante del proletariato dell’antichità» come lo definì Karl Marx. Figuriamoci se se lo lasciava scappare.
Insieme al Vesuvio, che guardava l’esercito dei suoi figli con occhi di luce e quello romano con occhi di bragia, Spartaco vinse innumerevoli battaglie.
Perse, alla fine. Ma quella fu «la guerra più legittima che mai sia stata intrapresa» e a combatterla fu la gente di Barra. Che da sempre si trasforma, si adatta, cambia e muore mentre rinasce, proprio come fa la primavera. Uah.
A Barra alla fine degli anni Cinquanta, non esistevano né il 118 né il Pronto Soccorso. I dottori avevano l’ambulatorio dentro casa. I pazienti arrivavano a ogni ora del giorno e della notte e svegliavano i bambini. «Scusate dotto’!», «Aggiate pacienza dotto’!».
Aldo è ’o Dotto’. Il suo studio se ne sta al primo piano di una palazzina su corso IV Novembre. Lui è uno dei tre medici di Barra. Il più amato per gentilezza. Il più ricompensato con gratitudine. Prova ne è il pessimo caffè che in casa sua si beve da sempre. Resta nella latta un anno intero ma anche più, perché figlio di ordinate processioni di vecchine che lo portano a singhiozzi, dentro coni di carta gialla di merceria, anche solo cinquanta grammi a botta. Ognuno fa quel che può. Offerte votive povere e profumate. A’o Dotto’ arrivano anche uova e polli, ma soprattutto caffè che, come l’acqua santa, sta bene un po’ con ogni cosa. Una volta era approdato persino un agnellino vivo, ma era Pasqua. E il portatore di vello uscì da casa con le proprie zampette per andarsene in campagna. E continuò a posarle sull’erba, di prato. State sereni.
Aldo gira con una borsa di pelle e una Lambretta crema. Solo in seguito comprerà una Fiat 1100 verde militare, opaca, ma la borsa di pelle rimarrà sempre la stessa. Le ha dato pure un nome che non ha confessato a nessuno, Uccia, e certe volte, pensandoci, ne ride sotto i baffi, che sono davvero grossi, da sparviero. Dentro Uccia ci sono ancora parecchi intrugli, artigli di una maniera antica di curarsi, che però, oramai, pian piano, sta lasciando il posto alle pillole.
È l’epoca in cui si sta traghettando dall’alchimia alla medicina, un fatto ritenuto grave assai da molte affezionate vecchine che nello sconforto, agitate, ansimano al loro Caronte: «Dotto’, ca succere o’ quarantotto».
«È successo un quarantotto» o «Sta per succedere un quarantotto» in Italia è espressione che indica caos, tumulto, un putiferio inaspettato. Ma a Napoli di più, come un po’ tutto. A Napoli un quarantotto vale almeno un cinquantadue.
Nacque con gli eventi rivoluzionari che si intrecciarono proprio nel 1848 e che, cristallizzati, sono divenuti l’archetipo – anche verbale – di un evento confusionario ma allo stesso tempo decisivo. Come quello di abbandonare i cari vecchi metodi curativi, fatti d’urina e spezie, e principiare a credere in una nuova medicina d’aspirina e aghi imbustati.
Aldo li conosce bene i veri quarantotto: nella sua carriera di medico ha visto donne gravide pisciare su ferite aperte perché si cicatrizzassero meglio, e ha prescritto tazze di vino e carbone per calmare i nervi e i salassi per rinvigorire e risanare qualsiasi cosa, dalla febbre alla diarrea. Come infermiere, sovente, si è servito delle prestazioni di un barbiere a domicilio.
«Dotto’, venite! ’O nonn’ sta murenno.» Una chiamata al balcone. Una di quelle che Aldo ben conosce. La casa del malato è un basso di corso Sirena.
La Sirena, a Barra, è importante, ne è altamente rappresentativa: il suo antico stemma è proprio una sirena bicaudata sormontata da una corona. Viene, difatti, detta anche “Sirena vesuviana”. La sua storia va raccontata. La sirena bifide, con due code cioè – la si vede anche in molte chiese italiane – è un simbolo memore delle proprie origini pagane. Essa, sotto nuove vesti, o code, continua a incarnare l’antica dea della fertilità: una divinità che, con orgoglio, divaricandosi le gambe con le mani, ci mostra la sua mandorla poco mistica, il centrum del mondo, il loco ove tutto inizia.
Nel Medioevo però erano particolarmente bacchettoni, si sa, e l’immagine di una donna che, contenta, si allargasse le gambe, appiccicata ai muri delle chiese, capirete, non era vista di buon occhio. Da qui ne era derivata la salvifica evoluzione: le gambe spalancate si erano trasformate nelle sue due code ed ella era diventata una sirena bicaudata. Un ibrido che non dimenticava il simbolo, ma che, celandolo, lo trasformava.
Perfetto per Barra, dove adattarsi è sempre stato imperativo di salvezza e quindi di vita.
Aldo e Uccia, arrivati a corso Sirena, entrano nella casa del malato che, al posto della porta, ha una tenda odorosa. La camera da letto è già un camposanto di luci stanche. Dentro, chi non scuote la testa piange. E chi non piange resta fuori.
Con una visita alla buona, o’ Dotto’ capisce resti giusto il tempo delle condoglianze, prima che il vecchio, affogato in pieno letto, da cui escono fuori solo due enormi occhi simili ad ampolle per pesci rossi, e già immobile come una salma, saluti tutti e passi a miglior vita.
Aldo stringe la mano a una donna che, dalla presa molle di dolore, immagina sia la figlia. «Coraggio, signora» le dice avviandosi con Uccia che, nonostante i tanti anni d’esperienza, dondola tutta verso la porta, desiderosa di abbandonare una scena sì straziante.
«Dotto’, ’o permess’!» con un piede già in libertà, Aldo si sente richiamare. È ricomparso l’uomo che lo aveva reclutato al balcone. «Nostro figlio sta di leva. Firmatece ‘a licenza.»
Con un graffio di penna – uno “scippo” come si dice a Napoli – Aldo libera il giovane soldato e, autorizzandone il ritorno a casa, gli permette di piangere, in giusta guisa, l’amato avo.
Una settimana è trascorsa e le giornate a Barra sono riprese con le ore di paese sceneggiate sul Corso. I bambini se ne stanno col muso attaccato sul vetro dei Coloniali, fortino di leccornie zuccherate, caramelle e liquirizie di forme varie. Le più ambite sono i chicchirichì: cupolotti di panna montata ricoperti di cioccolato croccante.
Quanta nostalgia, i Coloniali… anche per me. Il nome si riferiva alle merci che vi si vendevano: caffè, cacao, cannella e spezie, provenienti tutte, appunto, da Asia, America e Africa, dove gli Stati europei avevano le loro colonie. Il nome era sopravvissuto a esse e ne aveva conservato il gusto esotico che ben si maritava con la nostra tradizione. Alla metà degli anni Cinquanta ce n’erano tantissimi, e oggi, quando ne incontro qualcuno nel centro storico, il cuore mi diventa una fetecchia. Magici. Con le loro insegne abbinate a “Colori, Drogheria, Alimentari”, qualche volta, addirittura, a “Generi diversi”. Alcuni erano ampi e sontuosi, mi raccontava nonna, altri più dimessi e piccini, ma tutti, indiscutibilmente, pieni zeppi di merce e di vita, quella genuina che sa d’infanzia, di mustaccioli, roccocò e susamielli.
Dai Coloniali ci si andava mano nella mano con la mamma o il papà, e dentro t’aspettava la cosa perfetta per la tua felicità: la liquirizia, una matita, un bombolone con lo zucchero, un lapis, la saponetta, la bottiglietta di brillantina, la spagnoletta di cotone, il tubetto di dentifricio, la bustina per l’acqua frizzante, il barattolo di coccoina, la scatoletta di lucido per le scarpe, lo yo-yo di plastica, la trottolina di legno. Ma era soprattutto l’umanità dietro a quei barattoli di vetro meravigliosi e chicche d’arcobaleno che ti faceva casa: in particolare quando c’era di mezzo don Mimì. L’ho conosciuto anche io… Ma questa è un’altra storia che, forse, vi racconterò.
A Barra, insomma, tutto continuava a scorrere come sempre: dal tabaccaio si danno appuntamento i guitti, gli scanzonati e gli operai in pausa, mentre don Arturo, il salumiere, fa come sempre tanta paura. Ha le sopracciglia alte quattro centimetri. Nella sua bottega vende anche pasta sfusa avvolta in carta azzurra e ha un perfido libricino di appunti dove tiene la contabilità. Don Arturo sa sempre quante lire ci sono nella pancia dei suoi compaesani.
Aldo è di casa a Barra e Barra è di casa a lui.
Un mercoledì pomeriggio mentre sta visitando: «Dotto’, correte! Papà nun sta buon’» un signore con un cappello strozzato tra le mani, ha scalzato la fila dell’ambulatorio in soggiorno. Aldo si toglie gli occhiali e, svelto, lo segue con Uccia, gonfia di pazienza, lasciando le vecchine in attesa, distrutte e anche un poco incupite.
Questa volta il paziente è in un letto al primo piano di una palazzina a corso Bruno Buozzi, di fronte all’Istituto delle Povere Figlie della Visitazione di Maria. Ancora una volta le luci basse, i singhiozzi e le mani molli.
Le morti hanno sempre qualcosa in comune.
Aldo si avvicina al moribondo e il vecchio, immobile come una salma, piantato in mezzo al letto, con occhi tondi come ampolle per pesce rosso, i soli a spuntare da grosse coperte, gli rammentano qualcosa…
Poi, l’illuminazione.
È lui.
Lo stesso, identico vecchio morente della settimana precedente nel basso di corso Sirena.
Se lo passavano. Le famiglie lo affittavano.
Aldo è lì in piedi, se lo guarda per bene, quel bruco di coperte, come fosse un’opera d’arte o uno spettacolo dell’ingegno. E prima che possa scoprirgli la pancia per visitarlo, diventando, di fatto, lui stesso uno degli attori di quella sceneggiata, viene interrotto alle spalle dal signore col cappello.
«Dottore, il ragazzo, mio figlio, sta facendo il militare, ma il nonno è grave, vedete! Ce lo firmate il permesso per farlo tornare?» chiede con il foglio tra le mani.
«Ditemi una cosa» gli domanda Aldo, «che ha avuto il nonno?»
E subito l’uomo: «Dottore mio, ma che vi devo dire? Stava bene, godeva di ottima salute. Poi un paio di giorni fa, all’improvviso, un malessere al petto forte. Tempo di mettersi nel letto, nun s’è capito chiù nient’. S’è arricettat ’o nonn’. Dotto’, ca è succies nu quarantotto».
«Eh sì» gli risponde Aldo. «Ca è succies proprio nu quarantotto.» E firmando il foglio benedetto, solamente aggiunge con una smorfia, calda come un bombolone: «48: ’o muorto che pparla».