Il lettore non ha dimenticato, forse, che un momento prima di scorgere la notturna marea degli accattoni, Quasimodo, ispezionando Parigi dall’alto del suo campanile, non vedeva brillare altro che un lume, che faceva risplendere come una stella una finestra del più alto piano di un alto e tetro edificio, a fianco della Porte-Saint-Antoine. Quell’edificio era la Bastiglia. Quel lume era la candela di Luigi XI.
Re Luigi XI era infatti a Parigi da due giorni. Doveva ripartire due giorni dopo per la sua cittadella di Montilz-lès-Tours. Nella sua buona città di Parigi, dove non si sentiva circondato da un numero sufficiente di trabocchetti, di forche e di arcieri scozzesi, egli non faceva mai che rare e brevi apparizioni.
Quel giorno si era recato a dormire alla Bastiglia. La grande camera di cinque tese quadrate del Louvre, col suo vasto camino pesantemente ornato da dodici grandi bestie e da tredici grandi profeti, e il suo gran letto di undici piedi per dodici, gli andavano poco a genio. Ci si smarriva, in tutte quelle grandiosità. Quel buon borghese di un re, preferiva la Bastiglia con una cameretta e un lettino. E poi, la Bastiglia era più forte del Louvre.
La cameretta che il re si era riservata nella famosa prigione di Stato era tuttavia abbastanza vasta, e occupava il piano più elevato di una torricella innestata nel mastio della fortezza. Era un ridotto di forma circolare, tappezzato da lucenti stuoie di paglia, col soffitto a travicelli incrostati di fiori di giglio di stagno sbalzato indorati, e dipinti negli intervalli. Lo zoccolo di legni scelti era costellato di rosette di stagno grezzo e dipinto d’un bel verde vivo, ottenuto con orpimento e indaco finissimi.
C’era una sola e lunga finestra a sesto acuto, ingraticciata di sbarre di ferro e di fili d’ottone, la cui luce, del resto, era attenuata da belle vetrate a colori, che recavano gli stemmi del re e della regina, e ogni vetro delle quali era costato ventidue soldi.
C’era una sola entrata, una porta moderna a tutto sesto schiacciato, ornata, internamente, da una portiera, e all’esterno da una di quelle bussole in legno d’Irlanda, che erano per se stesse fragili edifici di falegnameria, curiosamente lavorati, come se ne vedevano ancora centocinquant’anni fa in numerosi palazzi. «Sebbene deturpino e ingombrino i locali» dice con disperazione il Sauval, «i nostri vecchi non se ne vogliono disfare e le conservano a dispetto di tutti.»
Nulla si trovava in quella camera di ciò che arreda i soliti appartamenti: né panche, né cavalletti, né sedie imbottite, né comuni sgabelli a forma di cassa, né eleganti sgabelletti sostenuti da pilastrini e da traversine a quattro soldi il pezzo. Non vi si vedeva che una stupenda sedia pieghevole a bracciuoli, il cui legno era dipinto a rosettine su fondo rosso, e che aveva un cuscino di pelle di capra di colore vermiglio, orlato di lunghe frange di seta e picchiettato d’oro. La solitudine di quella sedia lasciava indovinare che in quella camera una sola persona aveva diritto di sedere. Accanto alla sedia, e vicinissimo alla finestra, c’era una tavola coperta da un tappeto a figure di uccelli. Su quella tavola, un calamaio tutto sudicio d’inchiostro, alcune pergamene, qualche penna e un nappo d’argento cesellato. Un poco più lontano, un braciere e un inginocchiatoio di velluto cremisi, sbalzato di borchie d’oro. E infine, in fondo, un semplice letto di damasco giallo e carnicino, senza canuttiglia né passamanerie, con frange per nulla ricercate. Era il letto, famoso per aver sostenuto il sonno o l’insonnia di Luigi XI che duecento anni fa si poteva ancora ammirare in casa di un consigliere di Stato, dove fu visto dalla vecchia madama Pilou, celebre nel Cyrus1 sotto il nome di Arricidia e di Morale vivente.
Tale era la camera che si chiamava «il ritiro dove recita le sue orazioni monsignor Luigi di Francia».
Nel momento in cui vi abbiamo introdotto il lettore, quel ritiro era molto buio. Il coprifuoco era suonato da un’ora, era notte, e non c’era che una vacillante candela di cera posata sulla tavola per illuminare cinque personaggi variamente raggruppati nella camera.
Il primo sul quale cadeva la luce era un signore superbamente vestito di un paio di brache e di un giustacuore scarlatti a righe d’argento, con sopra una casacca a manichini di panno dorato disegnata in nero. Quello splendido costume, che la luce svariava a piacer suo, pareva fiammeggiare in tutte le sue pieghe. L’uomo che lo portava aveva sul petto il proprio stemma, ricamato a vivi colori: un capriolo accompagnato in punta da un daino passante, accostato a destra da un ramo d’olivo e a sinistra da un corno di daino. Quell’uomo portava alla cintura una ricca daga, la cui impugnatura di similoro era cesellata a forma di cimiero e sormontata da una corona di conte. Aveva un’espressione cattiva, l’atteggiamento fiero, la testa alta. Di primo acchito, gli si leggeva in faccia l’arroganza, a una seconda occhiata vi si scorgeva l’astuzia.
Stava a testa scoperta, con una lunga pergamena in mano, dietro la sedia a bracciuoli nella quale era seduto, col corpo sgraziatamente piegato in due, le ginocchia accavallate l’una sull’altra, il gomito sulla tavola, un personaggio molto mal vestito. S’immagini infatti il lettore, sulla ricchissima sedia di cuoio di Cordova, due ginocchia sghembe, due magre cosce poveramente coperte da una maglia di lana nera, un busto avvolto da una sopravveste di fustagno, con una pelliccia di cui si vedeva più cuoio che peli; e per compiere il quadro, infine, una vecchia berretta unta e bisunta di pessimo panno nero, orlata tutto in giro da una serie di immaginette di piombo. Questo che si è detto, assieme con una sudicia papalina che lasciava a malapena sfuggire qualche capello, era tutto quanto si distinguesse del personaggio seduto. Egli teneva poi la testa talmente abbassata sul petto, che non si scorgeva nulla del suo volto coperto d’ombra, se non la punta del naso, sul quale cadeva un raggio di luce, e che doveva essere lungo. Dalla magrezza della sua mano rugosa si indovinava un vecchio. Era Luigi XI.
Poco lontano, dietro di loro, conversavano a bassa voce due uomini vestiti alla foggia fiamminga, non abbastanza sepolti nelle tenebre perché qualcuno di quelli che avevano assistito alla rappresentazione di Gringoire non riconoscesse in essi due dei principali inviati fiamminghi, Guillaume Rym, il sagace capo dei consiglieri di Gand, e Jacques Coppenole, il popolare calzettaio. Abbiamo già detto, se il lettore ben ricorda, che quei due uomini avevano lo zampino nella politica segreta di Luigi XI.
Infine, laggiù in fondo, presso all’uscio, stava ritto nell’oscurità, immobile come una statua, un uomo vigoroso, tozzo di membra, in arnese di armigero, con la casacca stemmata, la cui faccia quadra, forata da un paio d’occhi a fior di testa, spaccata da una bocca immensa, con le orecchie nascoste sotto due larghe cascate di capelli lisci, dalla fronte sfuggente, parteggiava dei caratteri del cane e di quelli della tigre.
Tutti erano a testa scoperta, a eccezione del re.
Il signore che stava vicino al re gli leggeva una specie di lunga nota, che sua maestà sembrava ascoltare con molta attenzione. I due fiamminghi parlottavano tra loro.
«Croce di Dio!» bofonchiò Coppenole. «Sono stanco di stare in piedi. O che non ci sono sedie, qui?»
Rym gli rispose con un cenno negativo, accompagnato da un sorriso inquieto.
«Croce di Dio!» riprendeva Coppenole, tutto sconcertato di essere costretto ad abbassare la voce a quel modo; «muoio dalla voglia di sedermi per terra, a gambe incrociate, da buon calzettaio, come faccio nella mia bottega.»
«Guardatevene bene, mastro Jacques!»
«E va bene, mastro Guillaume. Non si può dunque che stare in piedi, qui?»
«O in ginocchio!» disse il Rym.
In quel momento, la voce del re si alzò di tono. I due ammutolirono.
«Cinquanta soldi le livree dei nostri valletti e dodici lire i mantelli dei notai della nostra corona! Questo si chiama versare l’oro a botti! Siete matto, Olivier?»
Parlando in tal modo, il vecchio aveva alzato la testa. Gli si vedevano luccicare al collo le auree conchiglie dell’ordine di San Michele. La candela illuminava in pieno il suo profilo scarno e malaticcio. Strappò le carte dalle mani dell’altro.
«Voi ci rovinate!» gridò facendo scorrere gli occhi infossati sul quaderno. «Che cos’è tutta questa roba? Che bisogno abbiamo noi di una casa così prodigiosa? Due cappellani in ragione di dieci lire al mese ciascuno, e un chierico di cappella a cento soldi! Un domestico a novanta lire all’anno! Quattro cuochi maggiori a centoventi lire ciascuno. Un rosticcere, un cuoco per le minestre, uno per le salse, e un altro ancora, un custode dell’armeria, due aiutanti di scuderia in ragione di dieci lire al mese a testa! Due garzoni di cucina a otto lire! Un palafreniere e i suoi due aiutanti a ventiquattro lire al mese! Un sediario, un pasticcere, un fornaio, due carrettieri a sessanta lire all’anno ciascuno! E il maniscalco, centoventi lire! E il maestro della camera del nostro denaro, milleduecento lire! E il controllore, cinquecento!... Che ne so io? È un flagello! I salari dei nostri domestici mettono a sacco la Francia! Tutto il tesoro del Louvre si fonderà a una tale fiammata di spese! Saremo costretti a vendere il nostro vasellame! L’anno venturo, se Dio e la Madonna (e qui sollevò la berretta) ci lasceranno in vita, berremo le nostre tisane in una tazza di stagno!”
Così dicendo, Sua Maestà gettò un’occhiata sul nappo d’argento che scintillava sulla tavola. Tossì e continuò:
«Mastro Olivier, i prìncipi che reggono le grandi signorie, come sarebbe a dire re e imperatori, non debbono permettere che la sontuosità si appicchi alle loro case; è un incendio che di là si propaga alle province... Dunque, mastro Olivier, tientelo per detto. La nostra spesa aumenta ogni giorno, e ciò ci dispiace. Come, per la Pasqua di Dio! fino al ’79 non ha mai superato le trentaseimila lire! Nell’80 ha raggiunto le quarantatremilaseicentodiciannove lire!... ho la cifra in testa, io; nell’81 settantaseimilaseicentottanta lire; e quest’anno, sull’anima mia, toccherà le ottantamila lire! Raddoppiata in quattro anni! È una mostruosità!».
Si fermò ansante, poi riprese con stizza:
«Non vedo intorno a me che gente che s’ingrassa della mia magrezza! Mi succhiate scudi da tutti i pori!».
Tutti stavano in silenzio. Era una di quelle stizze che bisogna l...