Della dignità del morire
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Della dignità del morire

  1. 175 pagine
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Della dignità del morire

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Nel 1995, anno della sua prima edizione, questo saggio ha scatenato aspre polemiche e accesi dibattiti, tanto da diventare un punto di riferimento imprescindibile, un classico ampiamente diffuso e tradotto. Il teologo Hans Küng e lo storico della letteratura Walter Jens discutevano di una morte che viola la dignità dell'uomo: quella che spegne, talvolta dopo sofferenze prolungate artificialmente dalla medicina, un corpo e una mente piagati da malattie incurabili. Da allora i dubbi, i timori, la diffidenza che accompagnano le pratiche di eutanasia non si sono placati; Chiesa, politica e morale faticano ancora a trovare un punto d'incontro. E Walter Jens oggi sta vivendo in prima persona il dramma su cui si interrogava: affetto da alcuni anni da demenza senile, è sprofondato in un mondo al di là del pensiero, al di là delle parole. Nei contributi inediti di questa nuova edizione, Hans Küng, insieme a Inge Jens – la moglie di Walter, che racconta la sua sofferenza e la sua disperata ricerca di una direzione da seguire – tira le fila del dibattito attuale e lancia un appello per una discussione oggettiva, che metta al primo posto l'uomo e la sua volontà, e sopratutto che riconosca al malato la libertà di scegliere come lasciare questo mondo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2011
ISBN
9788858606032

Appello per una discussione oggettiva

«Profondo rispetto per la vita», questo l’elemento imprescindibile di un’etica mondiale che deve valere dall’inizio della vita umana sino alla sua fine. Della vita però fa parte anche la morte. E come la vita così anche la morte dovrebbe essere degna dell’uomo.* Riflettere sulle conseguenze di tale affermazione era e rimane lo scopo di questo libro, apparso per la prima volta un decennio e mezzo fa. Quale opera di un teologo e di uno storico della letteratura esso sviluppa questa complessa problematica di fronte a un ampio orizzonte sia filosofico-teologico, sia letterario-religioso.
Come può l’uomo conservare la propria dignità anche nell’atto di morire? Sono molte le sfaccettature di tale questione che è necessario esaminare. Nella situazione attuale essa si inasprisce inevitabilmente sulla problematica dell’aiuto a morire. Che la vita sia un dono del Dio creatore, per gli uomini credenti come me rappresenta un’ovvietà. Ma allo stesso modo, oggi proprio gli uomini credenti non dovrebbero contestare che la vita è al contempo anche un compito dell’uomo, dato da Dio, che egli è tenuto a rispettare sotto la propria responsabilità possibilmente fino all’ultima fase della propria esistenza. In un’epoca nella quale, grazie ai progressi della medicina e dell’igiene, la vita è spesso prolungabile per decenni, la questione di una morte dignitosa acquisisce una particolare forza dirompente. Ma al riguardo non vi è purtroppo un consenso né tra le diverse religioni, né all’interno delle stesse singole fedi. È quindi il momento di affrontare una discussione equilibrata e oggettiva.
L’urgenza del problema motiva anche la nuova edizione aggiornata di questo libro. Ciò diventa drammaticamente chiaro anche attraverso la storia di questo stesso volume: dietro di esso si nasconde infatti il dramma di un uomo profondamente sofferente. Soffro ogni volta che guardo la fotografia che abbelliva in precedenza il nostro libro comune: il viso allegro e sorridente del mio coautore, leale collega, nonché caro amico Walter Jens. Colui che per tanto tempo ha tenuto la cattedra di Retorica all’Università di Tubinga, letterato di grande cultura, nonché uno dei più insigni pubblicisti della Repubblica Federale.
Quanto spesso ho discusso con lui su tutte le possibili questioni del vivere e persino del morire. Entrambi, un decennio e mezzo fa, nel più grande uditorio dell’Università di Tubinga abbiamo tenuto lezioni sulla «Dignità del morire», seguite in una tensione silenziosa; poi ci siamo confrontati pubblicamente in modo pacato con colleghi giuristi e medici, e in occasione di un altro evento universitario abbiamo discusso con veemenza anche con l’allora ministro tedesco della Giustizia...
E nel 1995 abbiamo persino pubblicato insieme questo libro, che ha ottenuto una vasta diffusione e diverse traduzioni.
E ora egli, il grande retore, è ammutolito; il grande maestro della parola, sebbene ancora in vita, è privato della forza della parola. Per lui non si è avverato ciò che egli, nella sua lezione «Si vis vitam para mortem. La letteratura sulla dignità e l’indegnità della morte», aveva auspicato: «La poesia, la cui essenza consiste nell’insegnare una ars vivendi mediante esempi e immagini dovrebbe [...] prendere più decisamente partito per coloro che [...] si sforzano di portare sempre di nuovo all’attenzione il diritto dei malati e dei moribondi a non essere costretti a soffrire e ad avere la possibilità di morire in pace e con dignità [...]. Milioni di uomini, come me e Hans Küng, potrebbero compiere il loro lavoro in maniera più tranquilla, se sapessero che un giorno potrà essere loro vicino un medico di famiglia come il dottor Max Schur, uno degli uomini più eccezionali di questo secolo, il quale non esitò a somministrare al suo paziente, Sigmund Freud, una dose letale di morfina...».
Walter Jens vive ancora tra di noi e con noi, ma rinchiuso nel proprio mondo. È la prima volta che conosco qualcosa di simile da vicino: una sorta di deperimento del cervello di un uomo dalle conseguenze devastanti. Con questo uomo di spirito è ormai quasi impossibile una comunicazione intellettuale, resta tuttavia un canale di tipo emozionale, come per esempio quando gli porto la sua amata cioccolata svizzera ed egli sorride.
Nello stadio iniziale della sua malattia alla mia domanda: «Come va, vecchio amico mio?» rispondeva: «Male. È terribile. Vorrei morire». Mi sentivo confuso e impotente. Non consideravo mio compito confermare il suo desiderio di morire espresso evidentemente in maniera seria; inoltre una realizzazione pratica del suo desiderio è certamente difficile in Germania per mancanza di un’adeguata alternativa legale. Nello stesso periodo, venni a sapere di un medico della nostra zona che comprava presso tre o quattro farmacisti suoi conoscenti piccole quantità di medicinali letali per procurare alla propria madre, da molto tempo profondamente sofferente, quella morte dignitosa che lei desiderava; tuttavia egli aveva sempre paura di essere scoperto e di essere portato in tribunale...
Per molte settimane Walter Jens, che vive a pochi minuti da casa mia, durante le mie visite fu a malapena in grado di parlare. Ogni volta ero felice che la signora Inge Jens fosse lì presente e così io potessi parlare soprattutto con lei, includendo lui solo di tanto in tanto nel discorso e ottenendo come risposta, nel migliore dei casi, soltanto singole parole. Ma proprio all’inizio di luglio 2008, mentre stendevo queste righe, di ritorno da un lungo viaggio all’estero, seppi dalla moglie che Walter, da due giorni, era diventato incredibilmente di nuovo attivo e che si muoveva per casa e ne usciva in maniera indipendente. Alla mia visita successiva, quindi, poggiando la mia mano sul tavolo, sopra la sua, gli dissi: «Walter, va di nuovo un po’ meglio». Ma la sua risposta fu: «No, no. È terribile. Vorrei morire». Poi, senza alcun senso, chiese di sua madre, come se fosse ancora viva. E più tardi di nuovo improvvisamente: «Dovrei essere morto già da molto tempo. Vorrei morire». Un «intervallum lucidum», un «intervallo di lucidità»? A quanto pare è possibile in questa forma di demenza determinata da problemi vascolari (dei vasi sanguigni nel cervello), ma rimane senza prospettiva di guarigione. Anche se faccio finta di nulla, mi sconvolge lo stato del mio amico, i suoi impotenti appelli di morte e la sua paura di morire. E il dato di fatto che io non posso fare quasi nulla per lui.
Mi stupisco di come la moglie del mio amico si adoperi per affrontare in modo coraggioso e comprensivo questa tragica situazione e faccia di tutto per rendergli la vita il più sopportabile possibile. Viene aiutata da un’assistente che si sente umanamente legata a lei. In maniera più chiara di prima ora sono consapevole del fatto che di fronte a un essere umano che non prova alcun dolore fisico ma solo psichico non ci si può sentire autorizzati a intervenire; forse non resta altro da fare che rimettere il corso degli eventi a un’altra istanza superiore. In una «Postfazione sul proprio caso», tanto sentita quanto meditata, la dottoressa Inge Jens racconterà lei stessa in questo volume lo strazio di una simile situazione.
In quanto coautore e persona coinvolta, il destino del mio amico è uno dei motivi che mi spinge a riprendere e approfondire ancora una volta la questione, che abbiamo trattato entrambi, della dignità del morire. Il caso del mio amico è certamente diverso, poiché non si tratta per lui di morte impellente. Ma rimanendo intellettualmente solidale con lui e in collaborazione con Inge Jens voglio realizzare quello che egli stesso non è più in grado di fare: pubblicare di nuovo questo nostro libro, arricchito da alcune esperienze, con un contributo di Inge Jens e quelle mie «Tesi per un chiarimento» che avevo già pubblicato inizialmente nel 2001 come preparazione della discussione con il ministro tedesco per la Giustizia e con la dottoressa Herta Däubler-Gmelin, e che furono sostenute dallo stesso Walter Jens, qui sono state adattate alla situazione del 2008.
Nel 1994 scrivemmo nell’introduzione del libro: «Ci spinge a farlo la speranza che la domanda sulla responsabilità personale dell’uomo nei confronti della sua morte possa essere posta in maniera nuova e sobria, degna e moralmente seria, al di là di ogni dogmatismo e di ogni fondamentalismo». Ma devo constatare che la speranza espressa all’epoca dopo quindici anni purtroppo non si è ancora realizzata. Anzi, in Germania più che in ogni altro Paese gli animi si sono scaldati su questo problema che è ancora gravato dal nazionalsocialismo. Spesso si giunge a una miscela problematica di motivi emozionali e razionali.
La nuova edizione di questo libro vorrebbe dunque essere intesa come un appello per una discussione oggettiva, nella quale si tratti in primo luogo della dignità degli uomini anziani, malati, che necessitano assistenza e che sono pronti a morire.
Un appello innanzitutto ai giuristi: essi dovrebbero continuare i loro encomiabili sforzi per una maggiore autonomia del paziente, come è stato chiaramente espresso durante il 66° Congresso dei giuristi tedeschi (2006), e dovrebbero adoperarsi in modo ancora più determinato per ottenere regolamentazioni normative sia nel diritto civile sia in quello penale. Le dichiarazioni di volontà dei pazienti dovrebbero essere assolutamente rispettate da tutte le istanze. Inoltre si dovrebbe riuscire a ottenere una certezza del diritto (anche nei riguardi dei pericoli di abuso), non da ultimo per togliere ai medici la paura di incorrere in procedimenti penali.
Un appello ai medici: molti dottori si preoccupano seriamente a proprio rischio, data la situazione giuridica completamente insicura, di trovare una soluzione umana nel caso concreto. Essi dovrebbero trovare il coraggio di discutere apertamente di quale sia veramente la situazione dell’accompagnamento medico verso la morte, di come tutto si svolga in una zona grigia, di come non solo i pazienti con buoni contatti personali o un grosso portafoglio potrebbero essere aiutati. In questo modo anche quei funzionari medici che si difendono contro dichiarazioni anticipate di trattamento vincolanti e contro regolamentazioni legali dell’eutanasia verrebbero mossi a una collaborazione costruttiva con la giustizia e la politica, affinché ai morenti venga mantenuta, sin dove possibile, la dignità umana della decisione finale. Dovrebbero essere create più cattedre di medicina palliativa e tutti i medici principianti dovrebbero esserne informati; inoltre dovrebbero essere costruiti più reparti di medicina palliativa negli ospedali e negli ospizi.
Un appello alla politica: i parlamentari dovrebbero contrastare tutti i tentativi di pressione da parte delle chiese, dei medici o dei politici e non dovrebbero più rimandare oltre quelle leggi per un’eutanasia umana tanto auspicate da gran parte delle cittadine e dei cittadini tedeschi. Sarebbe meglio rinunciare alla stesura di nuovi paragrafi di diritto penale giuridicamente contestabili per un divieto delle organizzazioni a favore dell’eutanasia e, invece, avviare speditamente norme giuridiche che regolino innanzitutto la possibilità di una dichiarazione di volontà del paziente che sia strettamente vincolante (a meno che essa non venga espressamente ritrattata). In questo modo si creerebbe una maggior certezza del diritto non solo per i medici, bensì anche per i pazienti e i loro congiunti.
Ma anche un appello alle chiese: ecclesiastici e teologi di tutte le confessioni cristiane non dovrebbero servirsi, dipingendo in bianco e nero, di una presunta «immagine cristiana dell’uomo» contro una «terrena-umanistica», né continuare a diffondere pseudo argomenti teologici contro la responsabilità personale dell’uomo nell’ultima fase della sua vita. Anche le generalizzazioni («cosa accadrebbe se tutti...») vanno evitate, così come le supposizioni troppo emotive e le trasfigurazioni della sofferenza che si allontanano dalla questione oggettiva. Del resto, chi già rispetto all’inizio della vita (pillola anticoncezionale, contraccezione, fecondazione artificiale) ha logorato l’argomento della «rottura dell’argine» o del «piano inclinato», è poco credibile se ora tira fuori gli stessi argomenti anche rispetto alla fine della vita. Gli ecclesiastici e i teologi dovrebbero semmai addurre le vere argomentazioni bibliche a favore di una morte sottomessa alla volontà di Dio e della fede in una vita eterna, cosicché anche i non credenti possano avere rispetto per esse e i credenti possano essere preparati spiritualmente all’inevitabile morte, togliendo loro inutili paure.
Infine un appello ai media: certamente gli abusi dell’eutanasia da parte di singoli (morte per profitto, ambizione, macchina per l’omicidio) o di organizzazioni (nel caso di comportamenti commerciali) debbono essere stigmatizzati. Ma anche i media dovrebbero evitare un linguaggio inadeguato (auto-«omicidio») come pure le accuse generalizzate («economicizzazione della morte», «turismo della morte») e non montare ogni scandalo come un argomento di principio contro l’eutanasia, bensì andare piuttosto alla base dei problemi. Colui che, disperato, ricorre all’eutanasia attiva in un parcheggio, ai margini di un bosco o in altre circostanze indegne, preferirebbe certo morire nel proprio ambiente familiare. Bisogna riconoscere che molti creativi del mondo dei media, con una vera informazione e documentazione su casi difficili, hanno offerto un buon aiuto per orientarsi.
Alcuni dei miei appelli, che il mio coautore Walter Jens, se ancora potesse, vorrebbe certamente fare propri, potrebbero forse sembrare vani, se non fossero tutti discussi in questo volume. Con le nostre parole vorremmo aiutare a combattere quell’ignoranza e quella tendenza a rendere tabù il tema eutanasia, che sono ancora ampiamente diffuse. Soprattutto, però, di fronte alla domanda ultima dell’esistenza umana, che spesso viene rimossa, dovrebbe essere dato al singolo uomo lo stimolo a una «ars moriendi», un’«arte del morire», affinché egli possa riflettere, senza illusioni fuorvianti e inutili paure, sulla morte e sulle conseguenze per una vita prima e dopo di essa. Per questo motivo concludo il libro con una meditazione sulla «Risurrezione verso una nuova vita».
Hans Küng
Tubinga, gennaio 2009
* L’aggettivo «menschenwürdig» (lett. «degno dell’uomo») è una parola chiave dell’etica di Küng; essa indica il criterio di giudizio morale: «buono» è ciò che favorisce la dignità dell’uomo, «cattivo» è ciò che la nega. Si tenga presente questo significato anche quando si incontrano gli aggettivi «dignitoso-indegno», con cui spesso si è scelto di tradurla per una migliore scorrevolezza del testo italiano (N.d.T.).
DELLA DIGNITÀ DEL MORIRE

Come accompagnamento

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Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. BUR Rizzoli
  3. Frontespizio
  4. Indici