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La medicina dopo la rivoluzione mRNA

  1. 208 pagine
  2. Italian
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La medicina dopo la rivoluzione mRNA

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Una ricercatrice fuggita dall'Ungheria che viene degradata dalla prestigiosa università americana in cui lavora per il pessimo carattere e perché gli studi a cui ha consacrato la vita sembrano condurre in un vicolo cieco. Un incontro alla fotocopiatrice con uno scienziato che passa tutto il tempo libero a curare gatti randagi. Anni e anni di studi coronati da un articolo scientifico che passa totalmente inosservato. Aziende di biotecnologie sospese nel limbo tra l'innovazione e il fallimento, guidate da geni visionari poco meno che avventurieri o da scienziati che fin da bambini sognano di sconfiggere il cancro. Poi, all'improvviso, la peggiore pandemia degli ultimi cento anni. È in questo scenario e con questi protagonisti che si compie la "formidabile impresa" che dà il titolo al nuovo libro di Roberto Burioni: l'impiego di una molecola instabile e difficile da maneggiare - l'RNA messaggero che nelle nostre cellule trasporta le istruzioni del DNA per produrre una proteina - per ottenere a tempo di record vaccini estremamente efficaci contro il COVID-19 e, in un futuro che di fatto è già iniziato, rivoluzionare la cura e la prevenzione di malattie come l'AIDS, la sclerosi multipla, il cancro. La rivoluzione dell'mRNA è l'ennesima dimostrazione dell'importanza per il progresso umano della "scienza inutile", la ricerca pura mossa soltanto da curiosità e sete di conoscenza. Così questo libro diventa un inno appassionato alla scienza che ci salva (e ci riempie) la vita e una galleria di storie avvincenti, idee geniali, nobili intenti e bassezze umane di personaggi fuori del comune: Theodore Maiman che, a partire dalle teorie di Einstein, costruisce il primo laser e lo considera "una soluzione in cerca di un problema", James Watson e Rosalind Franklin impegnati nella corsa per scoprire la struttura del DNA, Jonas Salk, Albert Sabin e il vaccino antipolio, fino al cristallografo polacco che, intingendo per sbaglio il suo pennino non nel calamaio ma in un crogiolo pieno di stagno fuso, ha reso possibile, decenni più tardi, la nascita dei semiconduttori e dell'elettronica.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831807616
1

Degradazioni e medaglie d’oro

Una giornata spiacevole attendeva Judy Swain, la direttrice del dipartimento di medicina cardiovascolare di una delle facoltà più prestigiose degli Stati Uniti, quella dell’Università della Pennsylvania. Doveva cacciare una ricercatrice, e queste cose non le piacevano. Di solito, quando bisognava mandar via qualcuno, si trattava di persone poco dotate che in un ambiente molto competitivo non riuscivano a tenere il passo, ma questa volta la situazione era del tutto diversa. Quella donna massiccia e alta quasi un metro e ottanta che veniva dall’Ungheria era bravissima, forse anche troppo. Judy Swain ricordava ancora quando, durante un seminario di uno dei professori più importanti, quella tipa aveva cominciato a incalzarlo con domande sempre più difficili, tanto che lei era dovuta intervenire di persona e fermarla per evitare una situazione incresciosa, della quale l’ungherese non si era resa minimamente conto.
Ed erano innumerevoli le occasioni nelle quali aveva dovuto prendere le sue difese: criticava in maniera brutale il lavoro degli altri ricercatori (anche se poi aveva sempre ragione); buttava via i reagenti scaduti dei colleghi senza chiedere loro il permesso; una volta stava per rovinare una festa di Natale, quando a un professore che aveva osato dire «Lei lavora per me» aveva ribattuto livida «Io non lavoro per te. Tu pensi che io venga qui nei fine settimana per te? Io lavoro solo per la scienza». Era ossessionata dall’oggetto della sua ricerca, tanto che a volte Judy si era chiesta se non ci fossero dei tratti patologici nella fissazione incrollabile di quella donna, che nonostante i mancati progressi rimaneva concentrata su un unico tema.
Gliel’aveva detto di provare a fare qualcosa di diverso, di essere più aperta e meno spigolosa, di curare maggiormente le relazioni con i colleghi, ma non era servito a niente: quando anni prima l’aveva chiamata nel suo ufficio, di fronte a critiche più che ragionevoli l’ungherese l’aveva sfidata a telefonare subito a quelli che si erano lamentati di lei per chiarire la questione. Altrettanto inutili, purtroppo, erano stati i tentativi della ricercatrice di trovare finanziamenti per la sua ricerca, tutti falliti miseramente.
Insomma, non c’era motivo per trattenerla in un’università così prestigiosa: era evidente che non avrebbe fatto carriera e che sarebbe rimasta ferma sulla sua fissazione, continuando a litigare con i colleghi. Era arrivato il momento di farle il solito discorsetto: se vuoi rimanere, sono costretta a degradarti. Tutti ci restavano male, ma alla fine se ne andavano, trovavano una sistemazione più che dignitosa in un ateneo meno prestigioso e meno competitivo e quasi sempre riuscivano a percorrere una carriera accademica comunque soddisfacente. Judy sapeva che il disagio era momentaneo e aveva messo in conto anche qualche lacrima, ma era certa che quella scelta fosse la migliore sia per l’ungherese, sia per l’Università della Pennsylvania.
La ricercatrice entrò nell’ufficio senza troppe preoccupazioni: era talmente presa dai suoi studi e dai guai che di recente avevano colpito la sua famiglia (il marito, ungherese pure lui, era rimasto bloccato all’estero per una serie di contrattempi relativi al visto di ingresso negli Stati Uniti) da non avere tempo per immaginare il motivo della convocazione.
Quando però le arrivò l’ultimatum, riassunto nelle parole «o te ne vai o dobbiamo degradarti», rimase stupita. È vero che non era riuscita a racimolare un dollaro di finanziamenti per il suo lavoro, è pure vero che era antipatica praticamente a tutto il dipartimento, ma non aveva dubbi che la sua ricerca, alla quale si era dedicata senza risparmio e senza distrazioni, anche se fino a quel momento non aveva condotto a risultati clamorosi, sarebbe stata alla fine importantissima per la scienza. Poi si osservò da fuori: una donna di 40 anni, con un curriculum buono ma non eccezionale. Si sarebbe dovuta certamente trasferire in qualche altro ateneo, magari molto lontano da Philadelphia, sede dell’Università della Pennsylvania. Il marito non era un problema: l’avrebbe potuta seguire. La questione era un’altra.
L’ungherese aveva una sola figlia, Susan, che allora frequentava le scuole medie e aveva un successo travolgente come sportiva. Alta quasi un metro e novanta, era una campionessa. Ma per il suo futuro era indispensabile poter frequentare l’Università della Pennsylvania. Essere ammessa non sarebbe stato un problema, perché era bravissima a scuola. Ma mai e poi mai la sua famiglia, ben lontana dal benessere economico, avrebbe potuto permettersi di pagare le tasse universitarie senza lo sconto cospicuo che veniva riconosciuto dall’ateneo ai figli dei dipendenti. Lasciare quel posto di lavoro, insomma, voleva dire anche privare la figlia della più importante possibilità di successo personale che le si sarebbe presentata negli anni a venire.
Tutto il suo difficile passato e gli immensi sacrifici che l’avevano portata fin lì le passarono in pochi secondi davanti agli occhi. La fuga dall’Ungheria con la bimba piccolissima, nel 1985, le notti insonni, il lavoro nei weekend. Tutto stava per crollare. Quando disse «Resto», la direttrice del dipartimento rimase a bocca aperta per la sorpresa. Non era normale che un ricercatore accettasse la morte della sua carriera pur di non spostarsi in un’altra sede. Però era successo.
La scelta dell’ungherese sembrava sbagliata, ma si rivelò giustissima.
Dopo aver frequentato la Penn University, dove scoprì il canottaggio, Susan Francia (così si chiamava la figlia) entrò nella nazionale degli Stati Uniti, e conquistò due medaglie d’oro alle Olimpiadi del 2008 a Pechino e del 2012 a Londra.
Questo però fu il meno. La madre, Katalin Karikó, continuò testardamente a lavorare sulle sue ricerche, a non avere successo, a perseguire un riconoscimento accademico che non arrivava mai. Il suo campo di studi – l’oggetto della sua ossessione – era l’RNA messaggero, una molecola instabile e difficile da maneggiare.
Tutti le dicevano di cambiare argomento, ma lei, in quel lontano 1995, non mollò. Fu una fortuna, perché quando, nel 2020, scoppiò la più terribile pandemia che la Terra avesse conosciuto da un secolo a questa parte, fu proprio l’RNA messaggero a salvare il mondo.
2

L’utilità della «scienza inutile»

Kati Karikó era bollata come una ricercatrice di scarso successo e i suoi progetti venivano rifiutati perché considerati poco utili. E le sue ricerche, che nel 2005 permisero di capire come iniettare dell’mRNA dentro un essere vivente senza provocarne la morte, rimasero fondamentalmente inutilizzate dal punto di vista pratico fino al 2020, quando consentirono la messa a punto a tempo di record di un vaccino sicuro ed efficace contro COVID-19, che è riuscito già a salvare molti milioni di vite e ad avviare il pianeta Terra verso la normalità. Questo dovrebbe portarci a rivedere profondamente il concetto di «ricerca utile».
L’utilità del sapere inutile è il titolo di un celebre articolo pubblicato nel 1939 su «Harper’s Magazine». L’autore, Abraham Flexner, era il fondatore dell’Institute for Advanced Study di Princeton, un centro di ricerca teorica di cui fecero parte personalità come Einstein e Oppenheimer. Nell’articolo, Flexner riporta un passo dei ricordi di un professore di anatomia dell’Università di Strasburgo, Wilhelm von Waldeyer, a proposito di uno studente diciassettenne che seguiva distrattamente le dissezioni anatomiche ma era impegnatissimo a trafficare con vetrini e coloranti. Lo studente si chiamava Paul Ehrlich.
Notai fin dal principio che Ehrlich passava molte ore alla sua postazione, totalmente assorbito nelle osservazioni al microscopio. Il suo banco si coprì a poco a poco di macchie di ogni colore. Un giorno vedendolo al lavoro mi avvicinai e gli chiesi cosa stesse facendo con tutto quell’arcobaleno. Al che quel giovane studente al primo semestre del corso di anatomia mi guardò e disse: «Ich probiere», che si può liberamente tradurre con: «Sto provando». Oppure: «Sto giocherellando».
Gli risposi: «Molto bene. Continui a giocherellare».
Waldeyer si era reso conto di avere in Ehrlich «uno studente di eccezionale valore», e per questo era giusto lasciarlo «giocherellare» seguendo l’istinto. Commenta Flexner:
Non credo che l’applicazione pratica sia mai passata per la mente di Ehrlich. Era interessato. Era curioso. Continuò a giocherellare. Ovviamente la sua attività era guidata da un istinto preciso, ma la sua motivazione era puramente scientifica e non utilitaristica.
Il risultato, però, fu che grazie agli esperimenti con i coloranti Ehrlich rivoluzionò la preparazione dei vetrini per le analisi al microscopio, rese possibile lo studio delle cellule del sangue, fece nascere la chemioterapia, cioè l’uso di sostanze sintetiche contro agenti infettivi e poi contro i tumori (dal suo laboratorio uscì il progenitore degli antibiotici, il Salvarsan un tempo usato contro la sifilide). Come dice Flexner, «quello che sembrava un banale giocherellare nel laboratorio di anatomia di Waldeyer a Strasburgo è diventato uno strumento fondamentale della pratica medica quotidiana». Nel 1908 Ehrlich vinse il Nobel per la medicina.
Moltissime scoperte e altrettante invenzioni che hanno segnato la nostra esistenza sono state la conseguenza imprevedibile di ricerche teoriche a prima vista «inutili», condotte da scienziati che a tutto pensavano fuorché a un’applicazione pratica dei loro studi.
I fisici che, a fine Ottocento, scoprirono e produssero i raggi X, da Nikola Tesla a Heinrich Hertz a Wilhelm Röntgen (che per la scoperta vinse nel 1901 il primo premio Nobel per la fisica), non stavano cercando un metodo per osservare l’interno del corpo umano. Stavano semplicemente studiando i fenomeni elettromagnetici e i vari tipi di onde, a partire dalla luce. Anzi, Röntgen si irritò quando la stampa internazionale, dando immediato risalto alla sua scoperta, sembrò occuparsi solo degli aspetti tecnologici dell’applicazione dei raggi X alla fotografia: a lui interessava indagare la natura e le caratteristiche fisiche dei raggi. E a proposito dell’imprevedibilità degli effetti di una scoperta scientifica: il primo a utilizzare i raggi X in ambito medico, l’inglese John Hall-Edwards, fu costretto a farsi amputare il braccio sinistro e quattro dita della mano destra perché l’esposizione ai raggi X – di cui si ignorava la pericolosità – gli aveva provocato una dermatite incurabile.
Non è facile immaginare qualcosa di più astratto della fisica quantistica che nel Novecento ha completamente ribaltato la nostra visione dell’universo. Astrazioni matematiche, ipotesi a cui è difficile associare una qualsiasi realtà fisica concepibile. Basta pensare alla nozione di antimateria. L’antimateria non fa parte della nostra esperienza quotidiana: è la materia formata da antiparticelle, cioè particelle con la stessa massa di protoni, elettroni, neutroni eccetera, ma con valori, come la carica elettrica, di segno opposto. La prima ipotesi coerente di antimateria è stata formulata nel 1928 da uno dei geni che hanno dato vita alla meccanica quantistica, Paul Dirac, che per risolvere un’equazione aveva bisogno di una particella uguale all’elettrone, che ha carica negativa, ma dotata di carica positiva. Postulò dunque l’esistenza di quello che sarebbe stato chiamato positrone, una particella che nel 1932 fu effettivamente trovata nei raggi cosmici.
Il positrone fu senz’altro utile a Dirac, che nel 1933 vinse il Nobel per la fisica insieme a un altro genio, Erwin Schrödinger. Ma a cosa serve, a noi profani, l’antimateria, che sembra un concetto più vicino alla fantascienza che alla scienza? Ci permette di scoprire in maniera precocissima i tumori o di osservare il funzionamento del cervello, per esempio. Oggi con la tomografia a emissione di positroni (PET) introduciamo nel corpo una sostanza radioattiva legata a uno zucchero. L’assorbimento dello zucchero dipende dal metabolismo delle cellule dei vari tessuti, e viene osservato attraverso il decadimento della sostanza radioattiva a esso legata, la quale – decadendo – emette un positrone. A brevissima distanza il positrone incontra un elettrone ed entrambi, come succede ogni volta che l’antimateria entra in contatto con la materia, si annichilano (è il termine tecnico): la loro massa si trasforma in energia, cioè origina una coppia di fotoni in direzioni opposte, due raggi gamma che vengono registrati dai sensori (gli anelli che costituiscono il tunnel nel quale scorre il lettino del paziente). L’immagine ricavata dalla somma di tutti i raggi gamma registrati dal tomografo permette così di osservare il funzionamento dell’apparato biochimico delle cellule prima ancora che si manifestino alterazioni anatomiche visibili, per esempio, alla TAC o alla risonanza magnetica, e di diagnosticare tumori di dimensioni millimetriche nascosti all’interno del corpo in zone molto remote. Ciò permette di avviare un trattamento in maniera precoce ed efficace, il che, non di rado, significa salvare la vita al paziente, un risultato che anche il più scettico è costretto a considerare di una notevole utilità oggettiva.
Ricordiamolo: l’applicazione pratica, «utile», di moltissime ricerche è un «effetto collaterale», che magari arriva a decenni di distanza, di uno studio condotto per il puro desiderio di conoscere. Il principio del laser (Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, cioè «amplificazione della luce mediante emissione stimolata della radiazione») fu formulato nel 1917 da Albert Einstein in un articolo intitolato Sulla teoria quantistica delle radiazioni. Però passarono decenni prima che venisse costruito uno strumento che applicasse le considerazioni teoriche di Einstein. Nel 1953 il fisico americano Charles Townes realizzò in concreto, alla Columbia University, un apparecchio effettivamente in grado di amplificare le microonde grazie a un’emissione stimolata e lo chiamò maser (cioè Microwave Amplification by Stimulated Emission of Radiation). Quando, nel 1958, Townes e un collega pubblicarono un articolo che avanzava l’idea di estendere lo stesso principio allo spettro visibile della luce e all’infrarosso, molti scienziati e molti laboratori pubblici e di aziende private provarono a metterla in pratica. Il primo a riuscirci fu Theodore Maiman, un fisico americano impiegato nei laboratori di un’industria aeronautica, la Hughes. Con il misero budget che gli aveva messo a disposizione l’azienda (che non era particolarmente interessata a quella ricerca), il 16 maggio 1960 Maiman ottenne la prima emissione di un raggio laser dall’apparecchio rudimentale che aveva costruito con un cristallo artificiale di rubino.
La cosa singolare è che, anche se si era passati a tutti gli effetti dalla teoria alla pratica (e ben presto altri scienziati ottennero gli stessi risultati usando al posto del rubino gas come elio, neon o anidride carbonica), con il laser nessuno sapeva esattamente cosa farci. Con una frase diventata proverbiale, Maiman definì la sua invenzione «una soluzione in cerca di un problema». Quale potesse essere quel problema (anzi, quei problemi) oggi lo sappiamo bene, visto che il laser viene usato in chirurgia (il primo campo di applicazione riguardò la retina), nella riproduzione audio e video (soprattutto quando usavamo i cd e i dvd), nelle telecomunicazioni mediante fibra ottica, in metallurgia, negli scanner, nelle stampanti e in un’infinità di altri settori.
Sempre a proposito di scoperte che attendono anni prima di trovare un’applicazione pratica, una delle più sorprendenti è quella di Jan Czochralski. È molto probabile che non abbiate mai sentito nominare questo chimico polacco, ma senza il processo che da lui prende il nome non esisterebbero i semiconduttori, cioè tutta l’elettronica alla base della nostra vita. Czochralski, nato nel 1885 in una provincia polacca di quello che allora era l’impero tedesco, si era specializzato al Politecnico di Berlino in chimica dei metalli. Nel 1916, al tavolo di lavoro, infilò per sbaglio il suo pennino non nel calamaio, ma in un crogiolo pieno di stagno fuso. Lo tolse immediatamente, e vide che dal pennino pendeva un lungo filo di metallo solido. Cosa era successo? Il pennino aveva inserito un «seme cristallino» nel metallo liquido, dando inizio a un passaggio di stato (da liquido a solido): la cristallizzazione.
Dato che quello era il suo mestiere, Czochralski esaminò il filo metallico ottenuto e scoprì che si trattava di un monocristallo, cioè un materiale in cui il reticolo cristallino è continuo, senza impurità. Continuò con gli esperimenti fino a ottenere monocristalli di un millimetro di diametro e un metro e mezzo di lunghezza, e nel 1918 pubblicò su una rivista scientifica tedesca un articolo intitolato Un nuovo metodo per la misurazione della velocità di cristallizzazione dei metalli. Per il suo inventore, quello che oggi si chiama «processo Czochralski» serviva solo come metodo per misurare i tempi di cristallizzazione.
Nel 1948, però, due scienziati dei Laboratori Bell utilizzarono il processo Czochralski per ottenere monocristalli prima di germanio e in seguito di silicio: in un crogiolo contenente silicio fuso alla temperatura di 1425 °C si immerge un seme cristalli...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La formidabile impresa
  4. 1. Degradazioni e medaglie d’oro
  5. 2. L’utilità della «scienza inutile»
  6. 3. La scoperta del DNA: dare un senso alla vita
  7. 4. DNA, RNA e la fabbrica delle cellule
  8. 5. Come ti sintetizzo una proteina (mediante mRNA)
  9. 6. Come funziona un vaccino
  10. 7. Una provvidenziale ossessione per l’RNA messaggero
  11. 8. Start-up e biotecnologie: bolle e innovazione
  12. 9. Credere nei propri sogni
  13. 10. La peggiore pandemia degli ultimi cento anni
  14. 11. I vaccini tradizionali e quello che non c’era
  15. 12. Fase 1, 2, 3: via!
  16. 13. Funziona! (Ma bisogna produrne miliardi di dosi)
  17. 14. Il futuro dei vaccini
  18. 15. Il cancro e oltre
  19. Riferimenti bibliografici
  20. Ringraziamenti
  21. Copyright