Quindici riprese
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Quindici riprese

Cinquant'anni di studi su Pasolini

  1. 416 pagine
  2. Italian
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Quindici riprese

Cinquant'anni di studi su Pasolini

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Una cinquantennale accanita infedeltà: Pier Paolo Pasolini è stato per Walter Siti prima un oggetto di studio accademico, poi una palestra critica, quindi un classico di cui curare un monumentale progetto editoriale (le quindicimila pagine in dieci tomi dei "Meridiani" Mondadori), infine un vizio a cui tornare. Ma soprattutto è stato un inesauribile sparring partner; lo ha combattuto, odiato, imitato senza volere, ha scontato l'angoscia dell'influenza. In questo volume Siti raccoglie finalmente tutti i suoi saggi pasoliniani, dal 1972 a oggi, con scritti ad ampio raggio e altri più specifici o occasionali. Il Pasolini di Walter Siti vale più nel complesso che sull'opera singola. Poeta nativo, sociologo per amore, intellettuale appassionato; sempre pronto a ributtare sul piatto la vincita, sempre in lotta con l'impotenza dello scrittore. Ciò che, sorprendentemente, emerge in queste pagine è una visione unitaria, un ritratto multiforme capace di tenere insieme la miriade di contraddizioni che hanno caratterizzato Pier Paolo Pasolini. Un'interpretazione originale e che matura progressivamente di uno dei nostri autori novecenteschi più polemici e discussi, in grado di attrarre, come è stato per Siti, chi voglia riflettere sui rapporti intricati tra letteratura e vita. Ma questo libro prende anche, in qualche modo, le sembianze di un addio. L'addio di uno scrittore a un'ossessione, uno specchio deformante, una pietra d'inciampo. Un addio inevitabile, forse doloroso, senz'altro liberatorio.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2022
ISBN
9788831807692
1

Tracce scritte di un’opera vivente – 1998

Doveva essere il saggio dall’orizzonte più ampio, introduttivo ai dieci tomi delle Opere. Rileggendolo ora mi accorgo di quante volte ho citato Franco Fortini, che era morto da tre o quattro anni; quanto mi mancavano le chiacchierate con lui, anche su Pasolini, a cui riservava parole tristi e illuminanti. Se, più che delle opere, ho parlato della “persona” di Pasolini attraverso le sue opere, non è stato però soltanto per suggestione fortiniana: credo davvero che il personaggio più potente che la letteratura di Pasolini abbia mai creato sia Pasolini stesso. Lui, che è stato accusato di essere un poeta poco metaforico, ha costruito pian piano con l’immagine di sé una metafora con la quale o litighi o ti immedesimi. Come Bukowski o Genet, è uno di quegli scrittori che proiettano il proprio fascino negli interstizi; la sua vitalità è contagiosa, soprattutto se le sue opere ce le hai tutt’intorno come gli alberi di un bosco. A un certo punto, arrivati al terzo o quarto tomo, nella redazione dei “Meridiani” abbiamo cominciato a scherzare su una certa “aura spermatica” che si era diffusa tra chi a vario titolo si stava occupando di lui: le redattrici restavano incinte una dopo l’altra. Anch’io, all’altezza del quinto tomo, caddi innamorato dell’amore più rovinoso ed esaltante della mia vita. Per quanto cercassi di prendere le distanze dalla sua idea di omosessualità e dal suo senso di colpa, non potevo difendermi dal suo delirio di onnipotenza che si rovescia in esclusione e annichilimento. Io, che mai ho avuto il coraggio di buttare il mio corpo nella lotta, cercavo di sofisticare sul suo non-saper-morire come il chicco di grano nel Vangelo di Giovanni.
(Apro una parentesi: verso la fine del saggio uso frasi come «esige d’essere perseguitato» e parlo della sua «sete di morte» – allora credevo che ad assassinarlo fossero stati dei magnaccia della prostituzione maschile pervasi da un odio del diverso, in tutti i sensi; ora penso che il suo omicidio abbia avuto una causa più precisa e circostanziata, come provo a documentare nella quattordicesima ripresa; ma anche allora mi sono ben guardato dal pensare che la morte «se la fosse cercata», come ebbe a dire Giulio Andreotti).
Quando uscì il primo “Meridiano” nacque una polemica filologica, legata al fatto che (non ritenendo discriminante, per uno scrittore come lui e per i motivi che ho esplicitato più sopra, il criterio di finitezza) avevo seguito un ordine cronologico delle opere senza distinguere tra edite e inedite; contravvenivo alle buone norme del galateo accademico e mi appoggiavo all’allora nascente “approccio genetico” alla filologia – credo ancora che si sia trattato di una buona scelta.
«Pasolini sembra autore da “opere complete”. Affida a tutto il suo lavoro il compito di interpretarne i momenti particolari.» Così Fortini nel ’59,1 quando Pasolini aveva appena trentasette anni. Interpretare un’opera alla luce di tutte le altre opere del suo autore, è ovviamente uno dei precetti della buona educazione critica – ma altrettanto ovviamente non è questo che intende Fortini. Fortini intende individuare una particolare qualità, o grana, delle opere pasoliniane che le rende, per dir così, bisognose d’approvazione – come se ogni opera mettesse le mani avanti e dicesse al lettore: «io non sono soltanto questo».
Con una frase più difficile, ma anche più precisa, Fortini torna sull’argomento in un saggio che uscirà pochi mesi dopo.2 «Pasolini […] crea una serie di opere, attraverso le quali, non nelle quali, egli riesce a dare delle concrete rappresentazioni poetiche». L’immagine che Fortini pare suggerire è quella di opere ritagliate in un tessuto lasco, in qualche misura trasparente, che lascia intravedere un “capitale poetico” posseduto dall’autore più che risultante dall’opera. E il tessuto è lasco, sia chiaro, non per difetto di letterarietà ma per eccesso – per una disinvoltura nell’impiego degli artifici letterari che fa pensare che essi siano trattati come pretesti per dire altro. (Nella Divina Mimesis, il Pasolini-Virgilio spiegherà al Pasolini-Dante che nessuno dei poeti raccolti nella valletta degli spiriti magni «ha mai avuto paura della letteratura. Non si ha paura delle cose di cui si è tanto più forti» – RR II, p. 1106.)
Nel medesimo ’59 Leone Piccioni fa notare che le opere di Pasolini «aprono sempre questioni di carattere generale», che ognuna di esse si fa esemplificatrice di una «posizione» – e si domanda se non sia il risultato di una strategia, di una «saggia amministrazione di se stesso».3 Pasolini, ribadisce Gramigna nel ’61, «ha sempre scelto con decisione una zona in cui illuminarsi», mostrando una «chiarezza quasi didascalica» nel ritagliare di volta in volta la propria figura pubblica di scrittore.4
Opere “traforate”, allora, o opere che tendono a chiudersi in una formula? L’antitesi è solo apparente. È vero che esiste un talento specifico di Pasolini nello sviluppare il carattere proprio a ogni singola opera, dando a ciascuna un colore e sfruttandone al massimo le peculiari potenzialità – periodizzando l’introspezione (il “periodo rosa” delle Poesie a Casarsa, il “periodo viola” dell’Usignolo, il “periodo neoliberty” delle Ceneri) e fotografando, con una specie di irriflesso engagement, “a che punto è l’Italia” all’uscita d’ogni suo testo. Ed è vero che un sicuro istinto commerciale lo porta a “diversificare il prodotto”, mutando toni e lingue – istinto parallelo al gusto di elaborare etichette per la critica (e la critica c’è cascata quasi sempre). Ma è anche vero che Pasolini ama far giocare un’opera contro l’altra, accentuando le differenze perché più interessante emerga, ricomponendole, il ritratto dell’autore. Una strategia non dissimile da quella pascoliana o (come con più malizia e con una punta d’astio insinua Citati nel cruciale ’59) da quella fragorosa di D’Annunzio: per scrittori di quel genere, sottolinea Citati,5 «sbagliare è proficuo». Col che siamo tornati al punto di partenza, a uno scrittore che dissemina le sue opere d’una gestualità che è fondamentalmente centripeta, e che ne fa dei cartelli indicatori rivolti verso l’autore.
Talento, astuzia e nevrosi. Talento, “far risplendere” l’opera esaltandone la grazia speciale. Astuzia, specializzare l’opera per il mercato. Nevrosi, difenderla col proprio sangue da attacchi sia immaginari che reali – e in sovrappiù accusarsi per il sospetto d’astuzia, e poi accusarsi d’essersi accusato, pensarsi come cinico innocente.
«Non voleva mai perdere, perché si sapeva perduto» – con l’acutezza ispida di chi si sente chiamato personalmente in causa, Fortini6 riassume così l’atteggiamento psicologico, e non ha torto. Ma è solo una parte della verità. Accanto e prima della nevrosi, c’è in Pasolini la pulsione sanissima a scrivere per il puro piacere d’applicare il proprio talento; l’uomo che rivolgendosi a un amico, in un momento di crisi, si definisce «un ergastolano della [propria] vocazione» (LL, p. 642),7 è anche l’uomo che da quella vocazione ricava un appagamento quasi atletico e che compone versi ogni mattina, come per un’abitudine igienica. C’è un semplice calcolo quantitativo che si può fare e che alla fine si trasvaluta in qualità: se teniamo conto degli inediti, ma senza tener conto delle riscritture, Pasolini ha scritto, tra il ’40 e il ’75, almeno ventimila pagine – il che significa quasi due pagine nuove al giorno, feste comandate comprese e lavori stressanti e malattie. Non c’è nevrosi che tenga, o bisogno di spiegarsi meglio, di giustificarsi, di puntualizzare – se fosse solo così, in chiave reattiva, a un certo punto le braccia gli sarebbero cadute. Qui c’è l’allegria di chi ogni giorno ha voglia di divorare, scrivendola, la realtà. Quando Longhi vide il Vangelo, procurò a Pasolini una gioia immensa dicendogli che il suo Cristo «esce verso il mondo con l’impeto e il presentimento di un avvenire pieno di cose, proprio come un impressionista del secolo scorso che usciva dallo studio per andare a dipingere all’aperto»:8 e il suo Cristo è l’idea che Pasolini ha del poeta.
«Non resisto all’invito di questa pagina bianca, che sono riuscito a rendere simile al destino» (RR I, p. 172) – in questa precoce confessione s’esprime certo l’angoscia di chi si accorge che sta rischiando di ridurre la vita alla carta («lei sa come la mia vocazione sia assoluta e esclusiva» dirà qualche anno dopo al proprio editore, con una sfumatura di captatio benevolentiae, «come non concepisca la vita diversamente che come la sede per scrivere testimoniandola» – LL, p. 1054) – ma c’è anche l’entusiasmo tecnico di chi a forza di letteratura è riuscito ad annullare lo spessore della letteratura, e l’entusiasmo vitale di chi (riscattandolo con la scrittura) riesce ogni giorno a concepire il destino come una pagina bianca. Non so perché, ma mi viene in mente una supposizione di Moravia, che Pasolini abbia fatto sesso almeno una volta al giorno per più di vent’anni, e quasi sempre con persone diverse – supposizione forse esagerata, ma l’ordine di grandezza dev’essere quello e a quell’ordine di grandezza non si fa sesso con separati individui, si fa sesso con la realtà.
*
Pasolini ha dichiarato più volte, a vari intervistatori, d’essere «ben attrezzato per la vita» – che il fondo del suo carattere era improntato alla lietezza o, come diceva con civetteria provenzaleggiante, alla “joy”. «Io vivrei (oh, questo condizionale!) in uno stato d’inalterata gaiezza» (RR I, p. 152) – non credo si tratti di dichiarazioni tese a far risaltare per contrasto la successiva autocommiserazione; sia dalla memoria di chi l’ha conosciuto, sia dalle opere, emerge davvero l’immagine d’un uomo amico della vita. Uno a cui piace ridere, uno che crede che gli altri siano (fino a prova contraria) fondamentalmente buoni; uno ingenuamente persuaso di poter convertire gli avversari con la giustezza della causa. Uno a cui viene spontaneo il faccia a faccia diretto, aperto, con le persone e con le cose. Una tipologia psicologica a cui certo ha contribuito una salute di ferro: rievocando per un lettore di «Vie Nuove» la settimana passata al Forlanini nel ’58, a documentarsi per Una vita violenta, Pasolini ci tiene ad aggiungere «in tutta la mia vita non avevo visto un ospedale se non per qualche visita» (DI, p. 244); e ancora nel ’71, nei Versi del testamento, pur modulandolo tragicamente, rivendica con orgoglio che «bisogna essere molto forti / per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe / e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare / raffreddore, influenza o mal di gola» (PO II, p. 118).
In limine a un percorso che ci porterà ad attraversare molta sofferenza e non poca menzogna, credo sia giusto ricordare che Pasolini ci ha dato nelle sue opere (e non solo in Ragazzi di vita) delle meravigliose estati. «Conto a estati, non a anni, il tempo» scrive a Silvana Mauri (LL, p. 707); nel Coccodrillo del ’68 dice di sé defunto: «quelle notti erano notti estive, e il suo amore per l’estate / fu forse il sentimento più forte della sua vita» (PO II, p. 232). L’estate è la stagione delle lunghe camminate, della vita all’aperto, la stagione delle giornate che non finiscono mai. Una delle attrattive più forti dei suoi romanzi romani è proprio che nella pagina si avverte quanto sia lunga una giornata, e si prova il piacere fisico del camminare. Pasolini amava giocare a calcio, come si sa, si teneva in forma, non abbozzava di fronte alle aggressioni fasciste ma rispondeva coi pugni, aveva terrore d’invecchiare e negli ultimi anni andava in Romania a fare la cura del Gerovital – è stupido liquidare tutto con la parola moralista, “vitalismo”: c’è un’energia dei nervi e dei muscoli che si trasmette alle dita, quando scrivono. La prontezza del corpo ha fatto di lui, e Calvino l’aveva notato, uno dei pochi convincenti «descrittori di battaglie» della nostra letteratura recente.9
Di questo gusto fisico della pienezza vitale, la voracità sessuale è allo stesso tempo una conseguenza e un surrogato; dei ragazzi, e lo si sente nell’opera, non gli importa tanto il sesso quanto la vita: le frasi “prese dalla loro bocca”, che incastona nel proprio prezioso e un po’ velleitario mosaico linguistico, lasciano intravedere (dietro la letteratura) consuetudini di chiacchierate, pizzerie, divertimenti condivisi – perfino a Chia, in quel ’74 in cui la perversione s’era ormai impadronita del desiderio e reclamava dosi sempre più massicce di provvisoria soddisfazione, perfino lì una sua giovane parente entra una sera d’improvviso e lo sorprende in compagnia di alcuni ragazzi del luogo, mentre si sta facendo raccontare i loro sogni. Uno dei più bei frammenti narrativi di Pasolini non si trova né in un suo romanzo né in un suo racconto, ma nella rubrica di corrispondenza con i lettori che teneva per il settimanale «Il Tempo»:
C’è il sole, l’estate, la domenica all’aria aperta. (Oggi girando con Ninetto lungo le rive del Trasimeno, tentando di avvicinarmi al lago attraverso i campi coltivati, mi sono imbattuto in alcuni alberi di melo, abbandonati al loro destino, perché evidentemente non danno più nessun utile. Chi avrebbe mai potuto trattenere Ninetto dal cogliere alcune di quelle mele? E anch’io ho ceduto alla tentazione: erano mele meravigliose, d’una bontà inesprimibile. Sotto quello slavato cielo estivo, nella pace ambigua della campagna, ho assaggiato l’ambrosia, sole e pioggia mescolati insieme. Era tanto che non sentivo un piacere fisico così acuto.) (SPS, p. 1229)
Senza (forse) volerlo, la scena che racconta è una scena da paradiso terrestre, prima della colpa. L’egocentrismo di Pasolini ha una qualità, e direi un’innocenza, che lo rendono irresistibile; come lo è, spesso, quello dei bambini. Quella fiducia candida che ogni suo minimo pensiero, ogni sua occasionale scoperta, ogni dolore che lo riguarda possano diventare fatti d’universale interesse, essere posti al centro della riflessione pur avendo a raccomandarli l’unico pregio della sincerità. (E il talento letterario di chi li ha viss...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. QUINDICI RIPRESE
  4. Tra padri mancati ci si intende
  5. 1) Tracce scritte di un’opera vivente – 1998
  6. 2) L’opera rimasta sola – 2003
  7. 3) Sull’espressionismo di Pasolini – 1989
  8. 4) Descrivere, narrare, esporsi – 1998
  9. 5) La seconda vittoria di Pasolini – 1982
  10. 6) Il mito Pasolini – 2006
  11. 7) Oltre il nostro accanito difenderla – 1981
  12. 8) Due riletture – 2007
  13. 9) Pasolini e Proust – 1996
  14. 10) Pasolini e l’Iliade – 2004
  15. 11) Pasolini e Elsa Morante – 1994
  16. 12) Un inedito di Pasolini – 1997
  17. 13) L’endecasillabo di Pasolini – 1972
  18. 14) Non doveva finire così – 2022
  19. 15) Varia – 1980-2013
  20. Nota al testo
  21. Ringraziamenti
  22. Copyright