Le nevi del ghiacciaio si scioglievano con il calore dell’estate. Le lastre si sgretolavano con un leggero scricchiolio, e un sottile rigagnolo d’acqua filtrava dalle pareti della montagna che si stagliava di fronte al paese e gli dava il nome: Monteperdido.
A pochi chilometri da lì, più in basso, in fondo a un burrone, le ruote anteriori di una macchina stavano ancora girando per inerzia. Si era cappottata, il parabrezza era ridotto a una ragnatela di vetri infranti, ed era avvolta da una nuvola di polvere e fumo. Un centinaio di metri più in alto c’era la strada bianca da cui era precipitata e che costeggiava la montagna. Nella caduta, il veicolo si era lasciato dietro una scia di alberi spezzati e di terra smossa.
Il vento spazzò via il fumo e lasciò allo scoperto una pozza rossa all’interno della macchina: un filo di sangue sgorgava dalla fronte del conducente, appeso a testa in giù alla cintura di sicurezza. L’urto gli aveva sfondato il cranio.
Si sentiva solo il fischio del vento interrotto da un gemito. Una specie di singhiozzo. Una ragazza con le braccia ferite dalla pioggia di schegge, i vestiti a brandelli e il viso nascosto dalla cascata dorata dei capelli arruffati si trascinò fuori dall’abitacolo attraverso il finestrino posteriore, anch’esso in frantumi. Le schegge le si conficcarono nelle cosce. Non aveva più di sedici anni. Sopportò il dolore e, con un ultimo sforzo, riuscì a tirarsi fuori tutta intera. Sfinita, crollò sull’erba. A ogni boccata d’aria il suo corpo sussultava, il respiro affannoso.
Il punto in cui si era schiantata la macchina era praticamente inaccessibile. Un varco profondo tra monti dalle vette ancora innevate.
Una strada tortuosa attraversava l’intera vallata, fiancheggiando il burrone. Un fuoristrada si era fermato sul ciglio della strada. Un uomo sulla trentina guardava in fondo al precipizio. Si era tolto gli occhiali da sole per essere sicuro di ciò che vedeva: una macchina precipitata. Prese dal vano portaoggetti il cellulare e fece una chiamata.
La piazza chiusa della chiesa di Santa María de Laude, a Monteperdido, ospitava da quasi cinque anni manifestazioni in ricordo delle bambine. Fin da subito era diventata il punto di riferimento per le famiglie e gli abitanti del paese, ma anche per i curiosi e i giornalisti. Sul sagrato erano comparsi altarini improvvisati, fiori, giocattoli, messaggi… Tutti volevano lasciare un segno del dolore e della rabbia che provavano.
Il sergente della Guardia Civil, Víctor Gamero, ricordava che i primi a defilarsi erano stati i giornalisti. Mentre all’inizio, lui, che all’epoca non aveva ancora i gradi, aveva dovuto impedire che le famiglie venissero importunate. Aveva dovuto affrontare una folla di persone accorse dagli altri paesini e decise, almeno a parole, a collaborare, a non abbandonare la lotta finché Ana e Lucía non fossero tornate.
Immaginava quanta rabbia provasse ora Joaquín Castán, il padre di Lucía. Non era rimasto più un solo giornalista, né un forestiero. Solo gli abitanti di Monteperdido, e nemmeno tutti. Era passato troppo tempo e il paese non poteva fermarsi ogni volta che Joaquín decideva di organizzare una manifestazione per dare nuova linfa alle indagini.
Ai lati del tavolo dove erano seduti i genitori c’erano due grandi ritratti delle piccole. Lucía e Ana sorridevano al fotografo. La prima aveva gli occhi a mandorla e l’aria birichina, come se fosse stata colta di sorpresa durante un suo gioco segreto. Ana, con la bocca aperta, lasciava intravedere la finestrella tra i denti. Il sole dell’estate le aveva donato un colorito dorato, e i capelli biondissimi, quasi bianchi, contrastavano con gli occhi di un nero profondo. Quando avevano scattato la foto erano felici, ma quel giorno, mentre il padre di Lucía si lamentava delle poche risorse che la polizia destinava alla loro ricerca, le fotografie delle bambine sembravano tristi.
Víctor Gamero sentì vibrare il telefono e si allontanò dalla piazza per rispondere. Uno dei suoi uomini, Burgos, gli spiegò la situazione balbettando. Sapeva che al capo non sarebbe piaciuta per niente.
«Chi è stato a dare l’ordine? Perché nessuno mi ha informato?» chiese infatti.
Avrebbero dovuto. Ora, Víctor era il comandante della stazione della Guardia Civil di Monteperdido e avevano interrotto l’unica via d’accesso al paese senza la sua autorizzazione.
La viceispettrice Sara Campos ripeté gli ordini alla guardia. Doveva identificare tutte le macchine e i passeggeri che entravano o uscivano da Monteperdido. Perquisire tutti i bagagliai e le cabine dei camion. Non aveva il permesso di far passare nessuno, nemmeno i conoscenti. A Burgos non andò giù che la poliziotta potesse anche solo insinuare una simile eventualità. «Quando ho la divisa, sono una guardia civil anche per mia madre» le disse.
«Ha informato il sergente?» rispose lei, dribblando quel soprassalto di dignità.
«L’ho appena chiamato. La aspetta all’ingresso del paese, vicino al distributore» le rispose Burgos, contrariato.
Sara gli diede le spalle e andò dritta verso la macchina dove l’aspettava Santiago. Tirava un’aria gelida, e lei s’infagottò nella felpa nera, chiuse la zip e infilò le mani nelle tasche. Con quei capelli castani che svolazzavano al vento sembrava un giunco esposto agli assalti delle folate.
Incrociando lo sguardo del suo superiore, Sara non poté evitare una smorfia esasperata dalla conversazione con la guardia, come fanno gli studenti alle spalle degli insegnanti, per prenderli in giro.
L’ispettore Santiago Baín aspettava con il motore acceso che le guardie togliessero le barriere che bloccavano la strada per riprendere il viaggio verso Monteperdido. Avrebbe potuto risolvere tutto con una telefonata o convocando le famiglie all’ospedale di Barbastro, ma preferiva vedere le loro reazioni in paese, parlarci di persona, nel loro ambiente: sapeva che la notizia che stava per dare non era lo scioglimento della trama, ma la prima riga di una storia che doveva ancora essere raccontata.
Sara cercò di farsi spazio sul sedile del passeggero, invaso da fogli e cartelle. Rimetterli in ordine era impossibile, per cui li ammucchiò e li appoggiò sul cruscotto.
«Vediamo se mi dà retta e perquisisce i bagagliai, credo che non gli vada giù di dover sospettare dei suoi compaesani.»
Burgos aprì un varco e lasciò passare la macchina. L’ispettore Baín avanzò lungo la stretta carreggiata che attraverso la valle conduceva in paese. Il sole stava per tramontare, ma non era tardi. La strada scorreva parallela al fiume Ésera, tra due grandi massicci rocciosi. I Pirenei centrali si ergevano ai due lati e ammantavano d’ombra la vallata. La strada, ripida, tortuosa e più stretta in alcuni tratti, saliva su per la montagna, ma lontana dalle vette che costellavano il cielo. I raggi del sole calante ogni tanto filtravano nel bosco, dando al verde sgargiante delle foglie un riflesso rosato. Sara si perse per un attimo a osservare il paesaggio, in pieno rigoglio quel 12 luglio. Un cervo, sopra un masso, sembrava guardare la macchina che stava passando, poi, di scatto, girò la testa e con un balzo sparì tra gli alberi.
Sara sorrise e prese il mucchio di fogli che aveva appoggiato sul cruscotto.
«Joaquín Castán e Montserrat Grau sono i genitori di Lucía. Quarantasette e quarantatré anni rispettivamente. Oltre a Lucía, hanno un altro figlio, Quim. Dovrebbe avere diciannove anni, ora… Joaquín Castán si è occupato di tutte le attività della Fondazione…»
«L’ho visto qualche volta in TV» disse Santiago con gli occhi incollati alla strada.
«La madre di Ana si chiama Raquel Mur. È più giovane. Quarant’anni appena compiuti.»
«E il padre?»
«Nel dossier non è riportato il suo domicilio attuale.» Sara, esasperata, frugò tra i fogli, alla ricerca di quel dato. «È un disastro. Non mi stupisce che non abbiano mai trovato le ragazzine. Hanno messo i blocchi stradali solo settantadue ore dopo, sono arrivati tardi per raccogliere le prove sulla scena del sequestro; quando hanno chiamato la Scientifica, la pioggia aveva cancellato tutte le impronte…»
«I genitori di Ana sono separati?»
«Non legalmente. Ma di fatto sì. Durante l’inchiesta, l’unico a farsi qualche giorno di carcere è stato Álvaro Montrell. Solo un paio di giorni di fermo. In realtà non avevano in mano niente contro di lui. Immagino che il matrimonio sia andato a puttane.»
Sara alzò lo sguardo e vide che Santiago si era messo gli occhiali per guidare.
«Come sei bello con quegli occhiali» disse in tono scherzoso.
«Quando comincia a far buio, ci vedo malissimo… Cosa ci posso fare. Mi invecchiano?»
«Non più di quel che sei.»
«Quando avrai la mia età non ti farà piacere che una ragazzetta ti sfotta perché stai perdendo la vista» le rispose Santiago Baín con un sorriso.
Sara osservò il suo «capo». Aveva la faccia solcata da rughe, ma non era questione d’età. O almeno, non era solo questione d’età. Le aveva sempre avute, da quando Sara lo conosceva e, andando indietro nel tempo, ricordò che quando lo aveva visto per la prima volta, l’ispettore Baín con la sua faccia raggrinzita le aveva fatto subito pensare a una tartaruga.
La strada s’inoltrò tra due enormi montagne. In quella zona dei Pirenei c’era la più alta concentrazione di vette sopra i tremila metri, uno dei fattori che avevano reso il caso così complicato. Il fiume Ésera scorreva parallelo alla strada e, alzando lo sguardo dai rapporti che stava leggendo, Sara pensò che erano in un vicolo cieco, che l’asfalto sarebbe finito alle pendici della montagna e che non sarebbero mai arrivati al paese che si celava sull’altro versante. Il monte Albádes e il Collado Paderna erano due colossi, due eterni guardiani di pietra, che decidevano chi poteva attraversare quella muraglia e chi no. Dietro l’ultima curva, Sara vide una piccola galleria che tagliava il monte Albádes, l’attraversarono veloci come un ago che trapassi la stoffa, e davanti a loro si aprì la valle segreta, come veniva definita sui dépliant turistici.
All’orizzonte si scorgeva l’abitato di Monteperdido. Case nere, silenziose, costellate di piccole luci giallognole, ora che il sole era tramontato. Sara ebbe l’impressione che quelle abitazioni non fossero opera dell’uomo ma della natura, come i boschi che le circondavano, risultato di movimenti tellurici e secoli di erosione.
Un cartello sul ciglio della strada dava un nome alla gola che avevano appena attraversato: CONGOSTO DE FALL.
Durante il tragitto, Sara aveva continuato a elencare i numerosissimi errori fatti nel corso dell’indagine: testimonianze parziali, lentezza nella reazione delle forze dell’ordine, interrogatori mal condotti… Santiago Baín non ne era stupito; conosceva lo stile della Guardia Civil in paesini come quello. Aveva già avuto occasione di lavorarci. La sua era stata una lunga carriera: quasi trentacinque anni di servizio.
In quel momento, però, erano silenziosi. Soggiogati dal panorama.
«Cos’avrò mai fatto di male?» scherzò Santiago. «Di norma tocca al più giovane guidare.»
«Hai scelto male la tua partner. Il giorno che ho preso la patente ho giurato che non avrei più toccato un volante.»
«E cosa farai quando non ci sarò più io?»
«Andrò avanti con le mie gambe» rispose Sara dopo una pausa; quella le sembrava davvero la risposta giusta.
Sulla destra si apriva uno spiazzo con la stazione di rifornimento che le era stata indicata e che in realtà era una semplice pompa di benzina. Il fuoristrada della Guardia Civil stazionava lì. Aveva i fari accesi e davanti una sagoma si stagliava in controluce. Ormai era buio pesto. Sara stava già scendendo dalla macchina, ma Santiago la fermò.
«Stavolta gli interrogatori li conduco io.»
Sara notò che l’aveva detto con un tono casuale, come se fosse una frase priva d’importanza, ma in realtà era da un bel po’ che aspettava il momento adatto per piazzarla.
«Perché?» chiese lei con la sensazione di...