L’avevo notato subito. Un cartoncino color crema, il secondo da sinistra nella fila in basso. Eppure non aveva proprio niente di particolare. Poche parole scritte in una calligrafia sbrigativa, senza punteggiatura: l’impressione era che l’autore avesse fretta. Sarebbe stato facile trascurarlo tra i tanti annunci esposti nella vetrina del minimarket: biciclette in vendita, una babysitter in cerca di lavoro, una nidiata imprevista di porcellini d’India in adozione.
Asciugai il vetro appannato con un gomito e mi chinai a guardare meglio. Leggendo il cartoncino, provai una sorta di vertigine che mi fece formicolare i palmi delle mani e mi accelerò il battito. Avevamo puntato in alto decidendo di aspettare la soluzione perfetta, capace di soddisfare tutti i nostri desideri, ma era stata la scelta giusta. Perché adesso la nostra pazienza era stata premiata. Non vedevo l’ora di dirlo a Chloe.
Aprii la porta del negozio e mi fermai sulla soglia a scrutare l’interno finché la vidi, ferma alla cassa. Quando si girò di tre quarti per sistemarsi la borsa della spesa sulla spalla, io agitai una mano per attirare la sua attenzione e le feci cenno di avvicinarsi.
«Le nostre preghiere sono state esaudite» annunciai quando mi raggiunse. Senza dire altro la presi a braccetto, la accompagnai fuori e le indicai la vetrina. «Leggi un po’ lì» dissi, battendo un dito sul vetro.
Chloe si chinò, lasciando scivolare la borsa dalla spalla per appoggiarla a terra. «Bellevue Rise?» disse, inarcando le sopracciglia. «È dalle parti del cimitero o sbaglio?»
Annuii. «Esatto.»
«Non si era detto che non doveva distare più di dieci minuti a piedi dalla stazione?»
«Sono sedici» replicai. «Quattordici se allunghi il passo. Non mi sembra una gran differenza.»
Chloe imbronciò le labbra e sbuffò verso l’alto per scostarsi dagli occhi una ciocca di capelli color miele. «No, hai ragione» ammise. Tornò a guardare il cartoncino e riprese a leggere. «Merda» imprecò tra i denti un attimo dopo.
«Cosa?» domandai, provando un piccolo moto di irritazione.
«È arredato. Credevo fossimo stufe di vivere circondate dai mobili di scarto altrui.»
«Aspettiamo di averli visti, prima di giudicare. Magari escono dritti da una rivista di design.»
Fece una smorfia. «Ne dubito.»
Intuendo la sua riluttanza, giunsi le mani in un gesto implorante. «Dai, Chloe. È una villetta indipendente, con un giardino, una vera cucina e due stanze matrimoniali. Sarà un milione di volte meglio dei micro-appartamenti che abbiamo visto finora.»
Rivolse uno sguardo sognante alla vetrina. «Certo sarebbe bello vivere in una vera casa e a pochi passi dalla stazione. Ma non stiamo ignorando l’elefante nella stanza?»
Chinai la testa e con la punta della scarpa staccai il fossile di un chewing gum da una crepa nel marciapiede. «Ti riferisci all’affitto, immagino.»
Lei alzò gli occhi al cielo. «Naturale che parlo dell’affitto. È molto più di quanto possiamo permetterci, soprattutto se calcoli il costo del pendolarismo.»
«Scommetto che li convinco ad abbassarlo» dissi, con sicurezza. «Ricordi quei magnifici teli artigianali che ho comprato in Marocco? Settantacinque per cento di sconto, non so se mi spiego.»
Sorrise al ricordo delle nostre due settimane in Marocco, una delle tante belle vacanze passate insieme. «Vero, ma non per merito delle tue abilità di negoziatrice, perché piacevi al tizio della bancarella» disse, rivolgendomi uno sguardo affettuoso. «E poi là mercanteggiare è la prassi. I prezzi esposti nel suk erano così esorbitanti per quello.»
Finsi di offendermi. «Continua così, guastami la festa.» Presi il cellulare dalla tasca della giacca e glielo agitai sotto il naso. «Allora, che ne dici? Chiamo subito il proprietario e fisso un appuntamento? Un posto del genere non resterà sul mercato troppo a lungo.»
Lei si strinse nelle spalle. «Perché no? In fondo, cos’abbiamo da perdere?»
Erano passate sei settimane da quando io e Chloe ci eravamo imbarcate nella missione di trovare la casa perfetta. Ci eravamo conosciute dodici anni prima, alla lezione di prova di un corso di tango argentino durante la nostra prima settimana di università. Il tango era caduto quasi subito nel dimenticatoio, ma quell’intesa a prima vista si era tramutata in un legame inscindibile, sopravvissuto a parecchi fidanzati, all’anno passato da Chloe a Praga, ai miei sei mesi di viaggio nel Sudest asiatico, e a più traslochi di quanti io e lei volessimo ricordare. Per gran parte della nostra amicizia avevamo vissuto a quasi centosessanta chilometri di distanza, ma eravamo sempre state presenti l’una per l’altra, nei momenti belli e in quelli brutti. Quando un attacco grave e improvviso di gastroenterite mi aveva costretta a letto, Chloe si era presentata al mio capezzale armata di oli essenziali, limonata fatta in casa e la sua password di Netflix. E quando lei aveva scoperto che dopo tre anni di relazione il suo fidanzato l’aveva tradita con la collega consulente finanziaria, io le avevo organizzato un weekend a sorpresa in un centro termale. E in quei tre giorni non soltanto le avevo offerto la distrazione di cui aveva bisogno, ma ero anche riuscita a dissuaderla dal denunciare la tresca del fidanzato ai suoi superiori, risparmiandole tempo, energie e una probabile umiliazione.
È strano, perché all’apparenza io e Chloe siamo due poli opposti. Lei lavora come scenografa per la compagnia di un teatro emergente a Londra. È creativa, spontanea, ipersensibile: una persona col cuore in mano, sempre pronta a vedere il lato buono in tutti. Io ho una formazione scientifica. Sono farmacista, più posata di lei e più diffidente. Ho un’indole metodica, e mi rassicura poter contare su piani ragionati e precisi. In teoria non dovremmo andare d’accordo. Invece, per chissà quale magica combinazione, ci intendiamo a meraviglia. C’è una parola giapponese che ci calza a pennello: kenzoku. Letteralmente significa “famiglia”. È il legame più profondo che esista, persino più forte dell’amore. L’intesa tra due persone che si sono conosciute in una vita precedente.
Fino a poco tempo prima avevo vissuto sulla costa meridionale, lavorando come sostituta in vari ambulatori medici – impieghi piuttosto noiosi ma che pagavano bene. Già da un po’, però, pensavo di trasferirmi a Londra, non solo per la carriera ma anche per essere più vicina a Chloe, e tre mesi prima ero stata assunta da uno dei principali ospedali universitari della capitale. Insieme all’incarico mi avevano offerto una sistemazione, ma era temporanea, e poiché anche il contratto d’affitto dell’appartamento di Chloe stava per scadere, avevamo deciso di andare ad abitare insieme, soltanto io e lei. Purtroppo trovare la casa giusta si era rivelato più difficile del previsto. Avevamo passato al setaccio i siti immobiliari su internet, ma a Londra il mercato degli affitti è brutale, con un esercito di concorrenti a litigarsi i pochi spazi disponibili, e fino a quel momento avevamo incassato soltanto delusioni. Chi avrebbe mai immaginato che a salvarci sarebbe stato un modesto cartoncino esposto nella vetrina di un negozio qualsiasi?
Il sole tramontava quando arrivammo a Bellevue Rise. I raggi obliqui davano un’aura dorata alla casa al civico quarantasei – l’ultima di una schiera di villette vittoriane su una via resa più stretta dalle file di macchine parcheggiate. Ci eravamo andate subito dopo il lavoro, togliendo entrambe i tacchi per indossare un paio di scarpe basse, più pratiche per la camminata dalla stazione che, come previsto da Megan, aveva richiesto sedici minuti esatti. Giunte a destinazione ci eravamo fermate un momento sul marciapiedi, a contemplare la facciata di mattoni rossi con le eleganti finestre a bovindo e a raccogliere le nostre prime impressioni. C’era un giardinetto affacciato sulla strada, circondato sui tre lati da una siepe bassa con un disperato bisogno di potatura. Il vialetto al centro era fiancheggiato da due grandi cespugli di rose in piena fioritura, con i petali di un delicato color rosa pallido.
Prima ancora di suonare il campanello, la porta si era spalancata, lasciando filtrare un odore stantio di cucinato che mi aveva ricordato la casa di riposo dove avevo lavorato a meno del salario minimo l’estate del diploma. Il padrone dimostrava una sessantina d’anni, con il volto lungo e austero e due rughe profonde ai lati della bocca. Non disse il suo nome, limitandosi a stringerci la mano con il gesto brusco di un uomo che ha cose più importanti da fare. Dopodiché, senza altri convenevoli, ci aveva fatto strada in un corridoio angusto, decorato con una raccolta scombinata di stampe botaniche.
«Cominciamo da qui» esordì, aprendo una porta a pannelli di legno. Megan lo seguì all’interno, ma io restai sulla soglia, ad assorbire l’ambiente con lo sguardo. Era un salotto ampio, reso ancora più vasto dal soffitto altissimo. I mobili antiquati sembravano in posa per una foto d’archivio: poltrone con lo schienale alto e le gambe ricurve intagliate, tavolini traballanti, una chaise longue con una sdrucita fodera a strisce. Sulla parete in fondo sbadigliava un grande caminetto, stringendo tra le fauci degli alari di ferro una vetusta composizione di fiori secchi.
«È molto spazioso» commentò Megan.
«In origine erano due stanze, ma la parete divisoria è stata abbattuta» spiegò il padrone.
Entrando a mia volta notai la totale assenza di oggetti personali – niente libri, tazze da caffè, telecomandi. «Gli inquilini precedenti hanno già traslocato?» chiesi.
«Non ci sono inquilini precedenti» rispose lui. «Prima ci abitava mia sorella. È morta l’anno scorso, ma il testamento è diventato esecutivo solo adesso.» Si passò una mano tra i capelli argentati. «Mia moglie dice che dovrei venderla, ma il mercato immobiliare è stagnante al momento, così ho deciso di tenerla, almeno per un anno o due.»
Megan si chinò a tastare il bracciolo di una poltrona. «Certo, l’arredo è un po’ eccessivo» disse, andando dritta al punto come suo solito. «Sarebbe disposto a spostare i pezzi più ingombranti in un deposito?»
Lui scosse la testa. «Non ho tempo per certe cose. La casa resta com’è: prendere o lasciare.»
«A me piace molto» dissi, soffermandomi a guardare la pendola che torreggiava nell’angolo opposto della stanza, scandendo il silenzio con il suo ticchettio rauco. «Sembra di stare su un set cinematografico.»
Il padrone mi rivolse un sorriso stentato e si avviò alla porta, mettendo bruscamente fine alla ricognizione del salotto. Lo seguimmo lungo il corridoio fino a una cucina di dimensioni modeste, con i pensili datati e un pavimento di ardesia rigata. Sul fondo c’era appena lo spazio sufficiente per un tavolo rustico con le gambe verniciate e cinque sedie scompagnate.
«So che non sembra un granché, ma c’è tutto il necessario» disse il padrone, aggirandosi per la stanza e aprendo un’anta dopo l’altra. «Scaldabagno, frigorifero, freezer, lavatrice, lavapiatti...» Si fermò davanti alla porta di servizio, giocherellando con gli spiccioli nelle tasche dei pantaloni e scrutando dal vetro il buio che calava all’esterno. «Come vedete il giardino è piuttosto grande e il tagliaerba nel capanno funziona ancora benissimo. È elettrico, non a benzina, e abbastanza maneggevole. Qui di fronte c’è una bella veranda. Il lavaggio con i getti ad alta pressione ha rimesso a nuovo il rivestimento di arenaria.»
«Mi piace la pergola» disse Megan, indicando la robusta struttura di legno che svettava da una piattaforma sul fondo del giardino. Era invasa dalla vegetazione, ma le specie erano indistinguibili nella penombra.
«Sì, è magnifico in primavera. La clematide è uno spettacolo. Mia sorella amava sedersi là.» Aveva aggrottato la fronte in un’espressione sofferta, e con un cenno brusco della testa indicò il soffitto. «Le stanze da letto sono di sopra, se volete dare un’occhiata. Dovete scusarmi, ma io vi aspetto qui. La scala è ripida e io sono in attesa di un intervento di protesi al ginocchio.»
La stanza padronale, con una grande finestra a bovindo affacciata sulla strada, era meno affastellata di mobili rispetto al salotto sottost...