Nate libere
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Nate libere

L'amore, il vento, la luna e la follia nel racconto di 27 dee del nostro tempo

  1. 288 pagine
  2. Italian
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L'amore, il vento, la luna e la follia nel racconto di 27 dee del nostro tempo

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Informazioni sul libro

Ornella, il drago indomito che sputa fiamme, la stramba e lunatica Nicoletta detta Patty, Virna così bella e così austera, Catherine la cerbiatta che si è fatta forte, Amanda la belva, così libera e sfrontata, Eva l'inafferrabile miraggio in carne, ossa e cipria, Nada l'eremita, Ombretta e il Signor G, la morte non li separa, Isabella la splendida folle che ha sprecato il suo talento, Mara il corpo erotico della dea madre, l'intrattabile Loredana, tenera e pazza, la trattabilissima Orietta, la sua barca che va, l'irrefrenabile Marina, quanti uomini ai suoi piedi, la misteriosa Francesca, l'irrequieta Rosalinda, la sua amica Monica, un'apparizione ovunque sia, la mente sublime di Rosa, quando si fa corpo illimitato al Crazy Horse, l'altra Ornella, eternamente innamorata, la trasognata Margherita, al suo opposto Iva, tumulto e carne, quel genio finalmente compreso di Sandra, la travolgente Ljuba, Matilde, quando il mondo è un immane campo di battaglia, l'ispirata Dacia, mai evasa del tutto dal lager giapponese, l'intrepida e dissacrante Lina, quel magnifico clown stralunato di Piera, Marisa l'aristocratica... In questo libro scintillante e profondo, Giancarlo Dotto raccoglie le confessioni senza filtri di ventisette protagoniste del cinema, della musica, della cultura, dello spettacolo degli ultimi decenni, e attraverso i loro ritratti, le loro voci, le loro battute folgoranti costruisce una Città delle Donne popolata di creature coraggiose, appassionate, uniche, estreme. Per confessare alla fine, con Dostoevskij: "La donna: solo il diavolo sa cos'è. Io non ci ho capito niente".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788858699737

Dacia Maraini, o la disciplina

Ottobre 2019. Vede un mondo Dacia Maraini dal suo terrazzo romano. La cupola di San Pietro a destra, l’altare della Patria davanti, le due cupole di piazza del Popolo, a sinistra Villa Borghese. Vede anche quello che non vede. Il castello di Shuri a Okinawa appena distrutto da un incendio. Non l’ha mai lasciato del tutto il Giappone. Ha solo trasformato il lager odioso in cui soffriva la fame nel recinto protetto in cui si sfama con le parole ma, in fondo, la stessa disciplina, la stessa attitudine a sopravvivere con dignità, la stessa solitudine fantastica. Guarda lontano con le sue iconiche pupille, da sempre cerchiate di blu cobalto. Succhia golosa una caramella dopo l’altra e racconta cose che ha già raccontato non so quante volte, ma non si stanca di farlo. Primo perché è una donna amabile, secondo perché non ha conti sospesi con la sua lunga vita e le mille persone che l’hanno riempita. Terzo perché il racconto orale è l’antefatto di quello scritto, una specie di ginnastica della parola. Gran parte delle sue giornate Dacia la passa a scrivere cose o a immaginare cose da scrivere. Di questi tempi, costretta alle stampelle da un intervento chirurgico all’anca, non esce quasi mai di casa. Ricorda senza mai un filo di rabbia o di rancore. Racconta e scivoliamo via via nel buio senza renderci conto. Diventiamo ombre. Voci senza volti. Radiofonia.
L’intervento all’anca?
Vent’anni fa sono stata investita in bicicletta. Mi sono rotta l’anca. Ho dovuto mettere una protesi nuova, la vecchia s’era consumata. Oggi sono interventi veloci, ma è pur sempre un’operazione chirurgica.
Il nome Dacia.
Viene da san Dacio martire della famiglia Alliata da parte di mia madre Topazia, di cui esiste un dipinto nella basilica di Pisa. Prima di me, in famiglia l’avevano usato solo come secondo nome.
Ti piace?
Da bambina mi faceva arrabbiare, volevo chiamarmi Maria e basta. Da adulta ho capito che avere un nome raro è un privilegio. I bambini sono fragili, conformisti, non hanno la forza per sostenere una diversità. Vogliono solo integrarsi.
Mamma Topazia. Una vita unica. Morta a centodue anni.
Era una donna forte e indipendente. Mi ha insegnato con l’esempio a essere fedeli alle proprie idee anche se costa caro. A essere onesti intellettualmente e impegnarsi con senso di responsabilità in tutto quello che si fa…
Due anni da bambina in un campo di concentramento giapponese. È lì, in quella situazione estrema, che papà Fosco, antropologo di fama mondiale, e mamma Topazia diventano figure mitologiche agli occhi di Dacia?
Mitologiche non saprei. La fame induce il delirio, dopo un po’ pensi solo a come sfamarti. Una rana che passa o un topo diventano immediatamente cibo. Ti ci butti sopra.
Avete mangiato topi?
Si mangiava qualsiasi cosa. Topi, rane, serpenti. Purtroppo, perfino i topi mancavano, ne avremmo mangiati con grande piacere. Bisogna provare la fame per capire. Mangiavamo la terra. Qualsiasi cosa.
Di cosa vi nutrivate, topi e rane a parte?
Solo riso. Cinquanta grammi a persona. Le calorie minime per un uomo dovrebbero essere millecinquecento. Noi eravamo al di sotto delle seicento. Mancavano le proteine, le vitamine. Ci ammalammo di beri-beri, scorbuto, anemia perniciosa. Le malattie della fame.
C’erano anche le tue sorelline in quel campo.
Eravamo lì recluse tutte e tre. Mia sorella Yuki era la più fragile, quella che ha sofferto di più per la fame, tanto che è morta giovane. Mia sorella Toni era più piccola e più robusta.
Cosa ti restano di quei due anni, di quella bambina di sette anni prigioniera dell’orrore?
L’esperienza della morte. Pensavo che saremmo tutti morti. La senti la morte che arriva, senti che perdi le forze, i capelli, i denti, non riesci a respirare, le gambe non ti reggono. Per me la morte era una compagna quotidiana. Eravamo così deboli…
Poi c’era la guerra intorno.
C’erano le bombe. Cadevano ogni santo giorno. Noi andavamo di corsa dentro una buca per scampare alle schegge che schizzavano ovunque. Mia madre è stata a lungo con le gambe paralizzate. Lei e papà ci raccontavano le favole per distrarci. Mio padre mi faceva anche lezione in mancanza della scuola. M’insegnava la tavola pitagorica, la matematica, un po’ di filosofia.
Che favole vi raccontavano?
Di tutto. Papà Fosco ci raccontava Pinocchio che poi è rimasto uno dei miei libri preferiti in assoluto. Si soffermava sui dettagli del gatto e della volpe, della fatina dai capelli azzurri, del denaro che veniva seppellito sotto terra perché ne venisse fuori un albero e io mi divertivo un mondo. Vedendomi appassionata a questa storia, con un temperino prese un pezzo di legno e costruì un Pinocchietto molto elementare. Il mio primo giocattolo. Non avevamo niente nel campo, io giocavo con le pietre.
Che gioco?
Facevo finta che le pietre erano il cibo che ci mancava. La torta, la carne, le uova. Quanta fame…
La lezione della dignità di tuo padre e tua madre.
Quando la polizia giapponese convocò tutti gli italiani che stavano in Giappone, chiedendo di firmare l’adesione alla Repubblica di Salò. Se non firmavi eri un traditore.
Tuo padre si rifiutò di firmare…
Anche mia madre. Ognuno dei due, separatamente, pur sapendo le conseguenze. Siamo stati rinchiusi nel campo di concentramento come traditori della patria. Lì si è visto il coraggio dei miei due giovanissimi genitori. In nome delle proprie idee, che non venivano dalla tessera di un partito ma dal rifiuto di ogni forma di razzismo.
Una scelta drammatica.
Molti hanno rimproverato quella scelta: si può mettere in pericolo la vita delle figlie che non c’entravano niente per difendere le proprie idee?
E tu, a distanza di anni?
Sono orgogliosa del grande esempio che mi hanno dato. Certo, se la guerra non fosse finita, saremmo morti tutti e cinque di fame. Non ci reggevamo più in piedi. Due anni di fame totale ti annientano.
A proposito di Pinocchio: capolavoro sottovalutato.
Verissimo. Il tema è il desiderio di paternità. Un uomo vecchio, povero, brutto. Nessuna donna lo voleva. Decide quindi di farselo da solo il figlio. Sembra un atto di grande superbia. È come atteggiarsi a Dio, inventare una creatura dal nulla.
È la trasfigurazione dell’amore.
Geppetto ci mette così tanto amore che riesce a realizzare il suo sogno. Infrange tutte le leggi della natura. Trasforma un legno in un bambino di carne, sangue, pelle e ossa. Lo crea, lo segue e lo insegue quando ne combina di tutti i colori. Non lo abbandona mai, sottraendolo al suo destino di burattino che è quello di essere il prolungamento della mano del suo creatore. Il burattino fa quello che vuole il burattinaio.
Non Pinocchio.
Il burattino non obbedisce al burattinaio. È questo che fa Pinocchio straordinario. In realtà, il vero protagonista della storia è Geppetto. Il suo desiderio di paternità vince su tutto.
Pinocchio è stato anche un master di tutta la vita di Carmelo Bene. I suoi esordi e il suo spettacolo testamentario.
Ho conosciuto benissimo Carmelo Bene. Un artista originale, di grande talento. Andavamo spesso a vederlo a teatro, Alberto Moravia e io. Alla fine ci ho litigato, trattava troppo male le donne. Abbiamo avuto in comune un’attrice straordinaria, Rosa Bianca Scerrino. Mi ha raccontato che la insultava, la prendeva a calci, pugni. Altre attrici mi hanno raccontato cose antipatiche di lui. Non so perché fosse abitato da questa forma di misoginia furibonda. Lydia Mancinelli, la sua compagna storica, una donna molto forte, era l’unica che gli teneva testa.
Raccontami del litigio.
In un suo spettacolo, non ricordo quale, c’era una donna nuda al centro del palcoscenico, muta, che girava su una specie di letto rotondo. Intorno a lei si svolgeva lo spettacolo. Alla fine, in camerino gli dissi: «La tratti come un pezzo di carne». Lui non ha accettato la critica, era un uomo intollerante. L’amicizia da allora si è raffreddata, ma io ho continuato a vedere i suoi spettacoli.
Ti è piaciuto La vita è bella di Benigni? Hai trovato analogie con la vostra storia?
Mi è piaciuto molto. Una fiaba dolorosa, ma pur sempre una fiaba. Ho trovato bella questa invenzione di lui che, per rassicurare il bambino, simula che sia tutto una finzione. Persino la sua morte, perché lui poi sparisce.
Lo conosci bene Benigni?
Sì, da tanti anni anche se non lo vedo quasi mai. All’Alberichino, un teatro off di Roma, lui faceva Cioni Mario e io Diario di una prostituta con il suo cliente. Una sera io e una sera lui, abbiamo avuto modo di conoscerci bene.
Subito la sensazione di avere di fronte un grande?
Sì. Ero rapita dalla sua bravura. Mi ricordo ancora la sua apparizione in scena. Si metteva un fazzoletto in testa. «Mi chiamo Cioni Mario.» Si toglieva il fazzoletto e partiva il monologo. Era straordinario. Con nulla faceva teatro.
Cosa ti suscita il riso?
Nel senso universale Charlot. Mi fa ridere e mi commuove. Anche l’umorismo surreale di Buster Keaton. Degli italiani mi piace molto Troisi.
Quando lasci il campo di concentramento, l’emozione più forte?
Quando gli americani hanno buttato dagli aerei una quantità enorme di cibo. Era il mangiare per trecento persone e noi eravamo solo in diciotto. Era un paese della cuccagna che cadeva dal cielo, gli alberi coperti di cioccolata, il latte condensato che veniva giù come un fiumiciattolo, la polvere di piselli che faceva nuvola.
Immagino la grande abbuffata.
Non dovevamo mangiare. Mio padre si raccomandava: «Non mangiate, non mangiate!». Quand...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Ornella Vanoni, o il tumulto
  5. Patty Pravo, o l’erranza
  6. Virna Lisi, o la bellezza
  7. Catherine Spaak, o lo charme
  8. Amanda Lear, o la sfrontatezza
  9. Eva Robin’s, o l’enigma
  10. Ancora Ornella: l’oblio
  11. Nada Malanima, o la fuga
  12. Ombretta Colli, o la memoria
  13. Isabella Biagini, o lo spreco
  14. Mara Venier, o la madre
  15. Loredana Bertè, o il furore
  16. Orietta Berti, o l’elisir
  17. Marina Ripa di Meana, o lo scandalo
  18. Francesca Dellera, o il mistero
  19. Rosalinda Celentano, o il tormento
  20. Monica Bellucci, o l’estasi
  21. Rosa Fumetto, o il caos
  22. Ornella Muti, o la femmina
  23. Margherita Buy, o i sospiri
  24. Iva Zanicchi, o la carne
  25. Sandra Milo, o il genio
  26. Ljuba Rizzoli, o l’azzardo
  27. Matilde Bernabei, o la sfida
  28. Dacia Maraini, o la disciplina
  29. Lina Wertmüller, o l’anarchia
  30. Piera Degli Esposti, o la peste
  31. Marisa Berenson, o la magnificenza
  32. Ornella senza fine, o la rinascita
  33. Copyright