Il sangue dei padri (Nero Rizzoli)
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Il sangue dei padri (Nero Rizzoli)

  1. 336 pagine
  2. Italian
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Il sangue dei padri (Nero Rizzoli)

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Informazioni sul libro

NERO RIZZOLI è LA NUOVA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. Genova, 1964. Hanno vent'anni o poco più, sono senza scrupoli e scalpitano per diventare i padroni della città. Il loro tirocinio è stato la strada - scippi, furti, piccole rapine violente nei caruggi - e ora, mentre l'Italia cambia e soffia il vento di nuove rivoluzioni, Caio, Parodi, Criss, Albino, Pumas e Michele sono pronti a dare l'assalto al cielo criminale di Genova, spazzando via la vecchia malavita al ritmo di Beatles e Rolling Stones. La loro è una banda di fratelli, tutti con la stessa violenta brama di emergere ma con un capo riconosciuto: Caio.
Il carisma del leader ce l'ha anche Mauro, detto il Moro: nato come gli altri ragazzi nei vicoli, e nell'immediato dopoguerra, perciò frutto delle colpe e delle storie disperate di chi lo ha messo al mondo, forma con Vittorio una coppia criminale diversa, che rispetta le leggi non scritte della strada. Ma quando i percorsi delle due bande si incrociano, tra pestaggi in galera, risse nelle bische e rapimenti messi a segno, la scia di sangue che si lasciano dietro degenera presto in una serrata caccia agli uomini che ha come teatro il cuore della città.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788858699454

PRIMA PARTE

1964

Capitolo 1

Nel primo pomeriggio di un’assolata giornata di luglio, Mauro Traverso, detto il Moro, alto e slanciato sbircia nei locali dell’angiporto di Genova, certo di trovare Nino. L’amico sta giocando a flipper in un bar in piazza della Nunziata. Il Moro lo vede attraverso la stretta vetrata che dà sul marciapiede, ed entra. Nel locale il juke-box suona In ginocchio da te, ultimo successo di un cantante della loro età che ha scalato le classifiche dei dischi più venduti. Il Moro chiede un caffè freddo al giovane barista, mette sul bancone alcuni spiccioli e con il bicchiere in mano si avvicina a Nino. Lo saluta e quello gli risponde con un cenno del capo. «Devo chiederti una cosa» esordisce il Moro.
«Se posso…» risponde l’altro continuando a torturare il flipper.
Nino, un calabrese di diciott’anni, basso di statura, tarchiato, con un ciuffo di capelli neri alla Little Tony sulla fronte bassa, è la persona più indicata per imparare a rubare le macchine: ha lavorato per qualche mese da un elettrauto, e trafficando con circuiti e fili, ha causato danni a svariate vetture fino a farsi licenziare a male parole. «Hai di nuovo bruciato la centralina, sei proprio una testa di cazzo! Passa in ufficio a prendere la paga, ringrazia che te la do e vaffanculo! Non farti più vedere.» Così lo ha congedato il suo capo. Durante il breve apprendistato, Nino ha imparato a mettere in moto gran parte delle automobili senza usare le chiavi di avvio, strappando semplicemente i fili da sotto il cruscotto e unendoli tra loro a combinare il contatto. Di questa nuova competenza s’è vantato con amici di strada e conoscenti.
«Mi insegni a fregare le macchine?» chiede il Moro mentre Nino seguita a scuotere senza tregua il flipper muovendolo a destra e sinistra con scatti improvvisi.
Tilt! Game over!
«Ora?» chiede Nino scocciato.
«Anche ora» risponde il Moro.
«Ok, andiamo.»
Escono e prendono un bus che li porta nel quartiere in di Albaro. Lì adocchiano una Seicento Abarth appena uscita dalla fabbrica; c’è poca gente in giro a causa dell’ora e dell’afa.
Il Moro spadina la serratura della portiera e insieme si intrufolano con rapidità euforica nell’abitacolo.
Nino si china sotto il posto di guida, strappa deciso i fili sotto il cruscotto e spiega nervosamente il metodo di accensione. «Devi unire questi due, stai attento a non sbagliare i colori.» Ansima perché ha fretta, fa caldo, e sta cominciando a sudare.
Il Moro si fa ripetere due volte la procedura per mandarla a memoria.
Poi partono tra i sobbalzi dell’auto, e si immettono nel traffico senza avere in testa una meta precisa, giusto per non farsi beccare in flagranza. Girano così, eccitati e carichi di adrenalina, tra i palazzi del quartiere residenziale.
«Andiamo a prendere Vittorio» dice il Moro.
«Andiamo» conferma Nino.
Percorrono le vie alberate secondarie, diretti in centro. Si immettono nel rettilineo di corso Buenos Aires a gran velocità.
Nino si accorge tardi dell’Alfa Romeo nuova dei carabinieri, che frena di colpo davanti a lui per rispettare uno stop; cerca invano di bloccare l’auto in corsa pigiando a fondo sul freno, ma riesce solo a rallentare. La Seicento va a sbattere con forza e fracasso contro il paraurti della macchina dei carabinieri.
Pochi minuti dopo, sono entrambi in manette.

Capitolo 2

Caio Bianchi si avvicina alla madre seduta in vestaglia al tavolo del salotto, le mani sulle tempie come a cercare di coprirsi. Il figlio le mette dolcemente le dita sotto il mento per sollevarle il volto. «Fa’ vedere.»
Lei alza il viso. Gli occhi gonfi di botte sono colorati di viola e nero. Gli zigomi tumefatti.
«Quando l’ha fatto?»
«Stanotte, alle tre. Era ubriaco, reclamava i soldi che avevo fatto in serata. Non volevo aprirgli, ma si è messo a fare casino per le scale, la gente del palazzo… continue figure di merda, oltre alle botte.»
«Non succederà più» dice risoluto Caio a sua madre.
«Ma cosa vuoi fare? Sai com’è Aldo…»
«Mamma, guardami! Ho diciott’anni. Sono alto un metro e ottanta e peso ottanta chili. Non ho più paura di lui!» e parlando fa un passo indietro perché lei lo veda bene a figura intera. Resta un attimo in posa plastica con le braccia al cielo. Poi, a passi lunghi va in cucina. Dal mobile dei vasellami prende un piattino e se lo infila nella capace tasca posteriore dei jeans. Torna in sala, bacia la madre sulla fronte, là dove l’attaccatura dei capelli forma una punta. «Vedrai, mamma. Non viene più.»
Smarrita, Carla pensa che dovrebbe provare a fermarlo, ma non ne ha la forza, e forse neppure lo vuole. Piange silenziosa, le mani a coprirsi il viso livido.
Caio scende agile le scale, fa i gradini a due a due. Entra nel bar sotto casa, chiede un caffè e un gettone telefonico, beve l’espresso e paga tutto con centoventi lire. Si avvicina all’apparecchio, introduce la moneta e compone un numero che conosce a memoria.
Pumas risponde alla chiamata sbuffando. Si è appena alzato dopo un sonno agitato, sta prendendo il caffè. «Pronto…»
«Sono io. Vediamoci, devo fare una cosa.»
«Cioè?» biascica.
«Si tratta di Aldo. Ha picchiato di nuovo mia madre. L’ha fatta nera. Porta il ferro. Ci vediamo al solito posto verso mezzogiorno.»
«A dopo…» conferma Pumas.
Caio esce dal bar e si dirige in un negozio di articoli sportivi lì vicino. Acquista una mazza da baseball. Con gli ultimi spiccioli all’edicola prende “Il Secolo XIX”, quotidiano locale. Avvolge la mazza nel giornale, la mette sotto il braccio sinistro e si dirige all’appuntamento con Pumas.
Insieme si portano in zona Piccapietra.
«Sei sicuro di trovarlo in bisca?» chiede Pumas muovendo il corpo agile e robusto a fianco all’amico.
«Dove vuoi che vada? Starà coi gomiti sul tavolo già dalle undici. Ha da bruciarsi i soldi che ha fregato stanotte a mia madre. Alle tre non fanno entrare più nessuno, chiudono quella baracca di merdosi, non può esserseli già giocati.»
«Facciamo la cassa a tutti, visto che ci siamo, e mandiamoli affanculo. Tanto, mica ci possono denunciare» ringhia Pumas.
«Poi vediamo, fratello. Intanto devo parlare di un paio di cose ad Aldo, quello stronzo che dice d’essere mio padre. Tu tieni a bada gli altri, fai in modo che non intervengano.»
«Contaci.»
E Caio Bianchi non ne dubita.

Capitolo 3

«Moro! Di nuovo qui! Ma che cazzo esci a fare? Fatti dare la residenza, così teniamo sempre una branda libera, riservata a te. È un peccato che non si accettino prenotazioni in questo albergo…» lo sfotte la guardia dell’ufficio matricola mentre gli preme le dita una a una nell’inchiostro per le impronte.
Il Moro non risponde. È la terza volta, in due anni, che entra nel carcere di Marassi.
«Vai col tuo compare al magazzino, che il collega ti dà le lenzuola e il resto. Conosci la strada» dice la guardia finita la prassi d’ingresso.
Un altro agente già conosciuto li accompagna attraverso corridoi e cancelli. «Arieccoti! Sentivamo la tua mancanza! Vedi di non rompere i coglioni come l’ultima volta, che il maresciallo ha sempre le palle in giostra in questo periodo» dice intanto al Moro mentre camminano.
Nino e il Moro vengono sistemati nella cella di transito riservata alle persone in attesa di condanna o, se accusate di reati minori, della libertà provvisoria. È una stanza esposta a nord, umida e in penombra di circa venti metri quadri. Un parcheggio di giovani anime inquiete: il pavimento in graniglia scura, due finestre a bocca di lupo con sbarre, cinque letti, due dei quali a castello. In un angolo, il lavandino e il cesso.
Tre brande sono occupate da altrettanti ragazzi romani che, sorpresi di ritrovarsi uno di colore in cella, con quel viso da ragazzino imberbe, si scambiano uno sguardo eloquente. Lo osservano deporre coperta e lenzuola su una delle due brande libere, quella singola accanto al muro. I tre sono annoiati e zeppi di testosterone.
Uno di loro comincia subito a sfotterlo: «Bella abbronzatura».
«Di che tribù sei?» rincara il secondo.
«Sei arrivato a Genova in canoa?» aggiunge il terzo.
Il Moro non si scompone.
Loro fanno a gara a pungerlo sempre di più, si aspettano una reazione che non arriva. «Pensavo che i negri avessero naso largo e labbroni da pompa, tu li hai solo da pompino.» E giù risate e sghignazzi.
Nino è sdraiato nella sua branda, in silenzio.
Il Moro è in massima allerta. Non è spaventato né ha voglia di litigare appena entrato. Finisce di sistemare il cuscino senza dare peso alle offese – «Negro, frocio col muso da bambino».
Il più grosso dei tre, che vuole confermarsi capo della banda, con due passi si piazza in mezzo alla stanza, e mentre il Moro si sfila la maglietta per rinfrescarsi al lavello bisunto, ingombro di stoviglie grasse di sugo e avanzi di cibo, lo sfida apertamente: «Vediamo se te la cavi da uomo o da frocetto che sei». Fa un passo avanti e gli rifila un pugno sullo zigomo sinistro.
Il Moro riesce a scansare il secondo colpo. «Bastardo!» gli grida di rimando, e d’istinto risponde con una scarica veloce e serrata di pugni che sorprende il romano e lo costringe a indietreggiare in difesa. «Ti spacco la faccia, carogna!» ringhia incalzandolo.
Vista la malasorte dell’amico, i suoi compari attaccano il Moro con pugni e calci da dietro e di lato, per metterlo in posizione di inferiorità.
In mezzo ai tre che lo percuotono a ripetizione sulla schiena, sulla nuca, ai fianchi e dove capita, il Moro è costretto a rannicchiarsi su se stesso ginocchioni, a proteggere la testa con le braccia per evitare i colpi che può.
«Tiriamogli giù i pantaloni. Ce lo inchiappettiamo subito, questo pivello» propone uno.
«Facciamogli la festa, non mi sono ancora scopato un negretto» incalza quello più robusto.
«Voglio metterglielo in bocca e sognare» rincara il terzo.
Il Moro è accucciato in posizione fetale.
Due dei romani lo spingono a terra e gli afferrano le braccia. Il terzo, vincendo l’impeto delle gambe che scalciano con violenza inaspettata, riesce con fatica a sfilargli i pantaloni tra le bestemmie e le urla d’imprecazione del Moro che oppone il massimo della resistenza. A forza, a suon di botte, lo costringono a girarsi a pancia in giù. Mentre i primi due gli premono con le ginocchia la schiena, l’altro con mossa decisa gli tira giù le mutande. In preda alla massima eccitazione, si preparano a stuprarlo.
«Che cazzo state facendo lì?! Volete finire in cella d’isolamento? Smettetela subito!» La voce della guardia, richiamata dalle grida, attraversa l’apertura per far passare il cibo.
I tre si ricompongono.
Il Moro si alza dolorante e umiliato. È nudo in mezzo alla cella.
«Ehi, negro! Ti stavano picchiando?» chiede la guardia con tono severo.
«No no… Stavamo decidendo chi deve lavare i piatti, tutto a posto.»
Gli altri si sdraiano sulle rispettive brande, lui si riveste in fretta e si dirige zitto al lavabo, verso la pila di piatti sporchi ammucchiati alla rinfusa.
«Sei sicuro che non ti stavano picchiando?» insiste incredulo l’agente.
«Ho perso a morra cinese e devo lavare i piatti. Li faccio un po’ alla volta, è tutto a posto» ripete il Moro.
«Vi tengo d’occhio, teppisti. Se sento ancora casino, vengo con la squadretta e oggi uno di voi finisce in infermeria. Ci siamo intesi?»
«Sì, agente, va bene» risponde il romano più robusto.
Mezz’ora dopo, la stessa guardia apre la porta e dice a voce alta: «Aria! Chi vuole andare all’aria si sbrighi!».
I tre si alzano pigramente dalle brande e si avviano insieme.
Nino rimane in cella col Moro.
«Potevi aiutarmi.»
«Erano in tre, avrebbero menato anche me. Hai visto quanto è grosso quello?»
«Balle, Nino, è che sei un cagasotto.»
«Non sono un cagasotto…»
«Se mi davi una mano, potevamo sistemarli quei tre bastardi.»
Il Moro, senza altre parole, prende da una mensola sul lavandino un rasoio usa e getta. Lo appoggia sul pavimento e con un colpo secco del tallone lo fracassa. Cautamente ne estrae la lametta e butta ciò che resta dalla finestra a bocca di lupo. Usando l’accendino scalda il manico di uno spazzolino da denti con calma misurata. Quando la plastica, emettendo un odore pungente, è quasi fusa e molle, ci ficca dentro la lametta facendola diventare corpo unico con lo spazzolino e infine raffredda l’oggetto sotto l’acqua corrente. Poi strappa una sottile striscia di stoffa dal bordo del lenzuolo in dotazione e ci avvolge il manico dello spazzolino all’altezza della giuntura appena fatta. Si è forgiato un’arma pericolosa e tagliente. La nasconde nella parte bassa della federa che copre il suo cuscino.
Un’ora dopo, i tre tornano vociando e sghignazzando lungo il corridoio.
La guardia che li accompagna è montata fresca di turno. Da anni soffre di un’ulcera schiumosa e profonda come la sua rabbia. Prima di chiudere la porta blindata, fa tre pas...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il sangue dei padri
  4. Prologo
  5. PRIMA PARTE. 1964
  6. SECONDA PARTE. 1965-1967
  7. TERZA PARTE. 1968
  8. Epilogo
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright