Homo Incertus
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Homo Incertus

Il bisogno di sicurezza nella società della paura

  1. 192 pagine
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Homo Incertus

Il bisogno di sicurezza nella società della paura

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La condizione umana è caratterizzata dal bisogno di aggregazione per vincere il senso della paura e dell'insicurezza che si accendono di fronte ai pericoli dell'ambiente, del mondo. Ci sono periodi della storia in cui questi sentimenti si fanno particolarmente intensi e rendono l'esperienza esistenziale ancora più difficile. Se la comunità serve a dare certezze e difesa, si può giungere alla paura di vivere a contatto con gli altri come se un uomo fosse un nemico sempre. E cosi si finisce per rimanere soli mentre si cerca disperatamente un rifugio. Non vi è dubbio che esistono momenti storici e società che danno maggiore sicurezza, che moderano l'incertezza e il dubbio, e altri dove invece si è allertati dai pericoli e si vivono con incertezza persino i sentimenti e le relazioni affettive. Di fronte a questo quadro era necessario che un grande psichiatra affrontasse sistematicamente il tema partendo proprio dalla conoscenza del comportamento umano all'interno della società. Ed è così che il professor Vittorino Andreoli costruisce un'analisi che non vuole essere teorica, ma aiutarci a capire noi stessi e il mondo in cui ci muoviamo. Un'analisi che mostra le sorgenti psicologiche e sociali dell'incertezza, che ci mette davanti gli obiettivi di una sicurezza possibile e di una invece impossibile, poiché l'uomo si trova in un mondo che conosce solo in parte e che non può mai renderlo tetragono e sicuro. Il professor Andreoli, con tutta la competenza e l'umanità di un grande autore, ci suggerisce come gestire l'insicurezza e giunge a mostrarci la nostra fragilità che richiede l'aiuto dell'altro, di un'altra fragilità, e fare così dei legami interumani la via per vincere la paura. Come a dire che due fragilità generano forza. Innescando un processo di legami più ampi che uniscano una comunità, imparando a comprendere invece che a isolare e combattere. Una strategia esistenziale che rende allora l'insicurezza umana uno stimolo a proteggere, provando sicurezza proprio nel dare aiuto all'altro come una madre che si sente forte nel proteggere il proprio bambino.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788858699409

La sicurezza

Il termine

Il termine «sicurezza» esprime il problema più sentito dalle società del tempo presente, tanto da rappresentare la vera emergenza non solo nel nostro Paese, ma nel mondo intero, nel nostro pianeta: uno dei problemi che si definiscono globali. Presenta due aspetti: uno tecnico, esterno all’uomo, e uno psicologico, che si fonda sul singolo e sulla sua personalità.
Le due dimensioni si interconnettono secondo il principio per cui l’esistenza è l’esperienza di un io nel mondo.
Abbiamo avuto occasione più volte di sottolineare che il mondo viene introiettato e vissuto non com’è, ma per come viene reso personale, come appare quindi a colui che lo sperimenta.
Sigmund Freud sosteneva che la paura del singolo è sempre paura di morire. La morte viene «addolcita», forse in parte rimossa, quando il termine «paura» si riferisce a elementi che appaiono meno radicali e meno gravi.
Seguendo questo indirizzo, vivere in sicurezza significa vivere senza la paura di morire.
Se il tema della sicurezza è quello più avvertito, è segno che il singolo e la società temono di ritrovarsi di fronte al rischio di finire, e dunque l’uomo e le società non possono che essere guidati dall’istinto di sopravvivenza.
Di fronte al pericolo di morte imminente, scattano solo meccanismi istintivi e pulsioni: ciò sta a significare che ogni azione o ogni pensiero che non sia finalizzato a questo pericolo appare incomprensibile o folle.
Nel contempo, si perde la dimensione del futuro, poiché ogni cosa si riduce al prossimo attimo, si cancellano tutte le prospettive e tutti i progetti non hanno più senso avendo come unico compito quello di affrontare la morte.
La paura è un vissuto del singolo, ma è allo stesso tempo endemica. Si trasmette senza bisogno che essa sia espressa verbalmente, come accade per le sensazioni che si comunicano in modo inconsapevole. È questo, probabilmente, un meccanismo di allerta che fa parte di quei sistemi, attivi in ciascuno di noi, propri della nostra socialità: l’appartenenza e la condivisione.
Se una madre è presa dal panico, il bambino che tiene in braccio piange.
Sono innumerevoli le dimostrazioni del propagarsi della paura che hanno coinvolto intere masse in modo acuto. La diffusione dei sentimenti è un indice che il singolo uomo è una finzione, o quantomeno che a dominare è il noi, inteso come una rete di interconnessioni sociali.

Dimensione tecnico-sociale

GUERRA

Questa dimensione richiama le condizioni in cui si trova a vivere un certo gruppo, una nazione.
La guerra definisce un periodo della storia in cui una comunità è attaccata da un nemico che ha come scopo di uccidere tutti i suoi componenti e di distruggere il territorio in cui si è insediata.
La guerra riporta alle apocalissi, come ci ricorda la cronaca delle due guerre mondiali, che oggi avrebbero un esito ancora più generale, più rapido e distruttivo, considerando le caratteristiche delle armi a disposizione.
Nella guerra, che ormai ha il proprio teatro non nei campi di battaglia ma nelle città, tutti sono guidati dalla paura di poter morire entro un istante. Come se il tempo futuro fosse al servizio solo della morte. Si cancellano, allora, le proiezioni che avevano la dimensione del domani.
In guerra scattano gli unici due meccanismi istintivi: scappare o aggredire il nemico con l’intento di ucciderlo.
Una società in guerra vive una condizione limite.
Esistono periodi di pace che si potrebbero definire antitetici a quelli bellici, ma vale sempre il principio del si vis pacem, para bellum. E infatti anche in tempo di pace si compiono esercitazioni militari che, certo, tolgono al termine «pace» il suo vero significato.
Oggi alle forze armate si dà la definizione di «eserciti di o per la pace», e spesso i soldati di questi eserciti sono impegnati in missioni «pacifiche», durante le quali usano però le armi. Un esempio illuminante di una falsificazione della semantica.
Una società senza esercito è ritenuta insicura, gli arsenali militari sono, dunque, strumenti di sicurezza. Del resto, rientrando nelle dinamiche interne di un Paese, esistono la polizia di Stato e quella di città, a cui in Italia si aggiungono i carabinieri, anch’essi parte delle forze dell’ordine: un’altra definizione eufemistica.
Sono tutte «forze deputate alla sicurezza».
A questo scopo è attivo anche un complesso sistema di giustizia costituito dai tribunali e dalle carceri. Tutto per la sicurezza. Le carceri, in particolare, hanno una speciale sezione di «massima sicurezza».
Sono realtà che prevedono l’uso delle armi, che in questo caso sono parti del sistema difensivo pubblico.
Esiste però anche la possibilità di detenere un’arma privata per la difesa del singolo, a cui viene riconosciuto il diritto di usarla per la propria salvaguardia: può quindi sparare e uccidere per la sicurezza.
Occorre ricordare che ogni uomo e ogni donna possiedono comunque strumenti di difesa legati alle doti naturali del proprio corpo. Già solo ricorrendo alla forza delle mani si può strozzare qualcuno o, con un pugno ben (o meglio mal) piazzato, ferirlo.
La lotta corpo a corpo è l’espressione più significativa di questo armamento naturale che ciascuno si porta addosso, fino a fare dell’uomo un «oggetto» di morte, quando uccide per non essere ucciso.
Se una società ha un Paese nemico, la sicurezza è debole. Se il nemico è più potente, finisce per essere dominante in qualsiasi momento.
È, questo, un fondamento della storia e lo possiamo constatare anche oggi, dovendo ammettere che alcuni Paesi sono più forti di altri.
Il peggio accade quando a fronteggiarsi sono due grandi potenze, entrambe desiderose di affrontarsi per dimostrare di essere una superiore all’altra. Il mondo allora finisce per dividersi in due blocchi, in cui i Paesi più deboli sono legati all’una o all’altra potenza e, in caso di un confronto bellico, ne sono coinvolti.
È un grave errore ritenere di essere sicuri perché legati a un potente, dal momento che ci si mette in una condizione di dipendenza; scompaiono gli effetti dell’autodifesa, che ha il vantaggio di contare su di sé; e la stima di sé è sempre più affidabile della stima che proviene dall’altro, per l’alta possibilità di essere traditi.
Si potrebbe continuare questa analisi dei problemi relativi alla sicurezza esterna, ma già da questi brevi accenni si profila l’unica vera soluzione per la sicurezza: coltivare la pace, trasformare l’inimicizia in cooperazione, distruggere ogni strumento di guerra. Al di fuori di questo quadro, per quanto utopico possa apparire, il termine «sicurezza» implica, allo stesso tempo, difesa e pericolo di morte.
Un uomo armato per qualsiasi motivo mi incute paura; in questo caso condivido la lezione di Freud che riconosce nella mia paura la percezione della morte vicina.
Non posso dimenticare l’epoca in cui si affermarono come armamenti i razzi a lunga gittata, dotati di testata nucleare. Testimonianza del fatto che le due superpotenze, quella americana e quella sovietica, potevano colpirsi reciprocamente, usando questo nuovo strumento di sicurezza e di guerra. Per tale motivo si resero necessari gli scudi, sistemi collocati nell’atmosfera in grado di intercettare un razzo e di far scattare automaticamente una risposta che lo bloccasse.
Faceva parte di un programma segreto in cui erano coinvolti i grandi fisici di quel periodo, di fronte a un tema che implicava costi enormi.
L’industria bellica è tra le aziende più fiorenti, con profitti enormi sul versante della produzione di nuove armi e di recenti sistemi per neutralizzarne l’azione. Una situazione che rende ancora più significativo il sogno di una pace senza armi.
Credere nella sicurezza garantita dalle armi è la più grande idiozia in cui l’uomo possa cadere; è di gran lunga preferibile l’utopia di una pace senza arsenali e spese militari. Per questo sbagliano coloro che pensano solo a limitare o eliminare le armi. La vera soluzione è demilitarizzare; ma per chiudere gli arsenali bisogna prima chiudere le caserme, gli Stati maggiori della Difesa, ma al contempo dell’Offesa, e dunque dell’attacco.
Un mondo di pace non è un mondo privo di conflitti, di diatribe, di contrapposizioni, ma semplicemente una realtà che ritiene possibile affrontarli e risolverli senza dover ricorrere alla violenza e alla guerra.
Un’ipotesi che si può osservare in tutte le altre specie viventi in cui la lotta (secondo il significato che Darwin attribuisce al termine) non giunge mai, salvo casi accidentali, all’uccisione. Viene liturgizzata, e dunque risolta sine effusione sanguinis.
Immaginare un mondo umano senza contrasti, senza inimicizie, è una pura utopia. L’unica alternativa è essere consapevoli che la sicurezza è un bisogno dell’uomo e della società.
Nel seguire questa visione della pace è necessario il rispetto e non il disprezzo.
Mi ha sempre colpito constatare come in tutte le ideologie della «purezza delle razze» o della verità siano stati eliminati gli impuri e gli eretici, negando che fossero parte del genere umano.
Per l’Inquisizione gli eretici non erano uomini, ma demoni o streghe.
Gli ebrei per il Mein Kampf erano quasi-uomini: si trattava della stessa convinzione che aveva espresso Cesare Lombroso nei confronti dei criminali, dei folli. Il termine «degenerati» con cui li definiva intendeva indicare che non avevano raggiunto il livello evolutivo proprio della specie Homo. Analizzandone i crani, Lombroso riconosceva la loro somiglianza con specie inferiori come le scimmie, i cani, oppure intravedeva la fisiognomica di una tigre e di qualunque altro vivente.
Mi pare, questo, non solo il segno del disprezzo, ma la giustificazione per poterli eliminare.
La stessa visione ha dominato nei lunghi secoli del colonialismo. I nativi erano ritenuti specie inferiori, dunque dovevano essere sfruttati, senza provare il minimo senso di colpa, poiché erano «animali», non umani.
Quando Cristoforo Colombo giunse a Hispaniola, il 5 dicembre 1492, scrisse una lettera ai re cristiani in cui diceva di essere approdato in una terra dove aveva piantato la bandiera del regno di Spagna, terra in cui vivevano degli strani esseri, i cacicchi, che si addomesticavano facilmente, e prometteva di mandarne qualche esemplare perché anche loro potessero vederli e soddisfare la curiosità.
Inconsapevolmente, noi applichiamo questa stessa legge di fronte ai nemici. Del resto, li definiamo in una maniera – cretini, violenti, selvaggi – che li depriva delle caratteristiche proprie della nostra specie: l’Homo sapiens sapiens.
Nella dichiarazione di guerra all’Etiopia pronunciata il 2 ottobre 1935, Mussolini parla di un popolo inferiore rispetto a quello italiano, e sostiene questo assunto come prova certa di vittoria; il 5 maggio 1936, quando viene proclamato l’impero dopo l’entrata del generale Badoglio ad Addis Abeba, annunciando che la guerra è finita, afferma: «Io mi rifiuto del pari di credere che l’autentico popolo di Gran Bretagna, che non ebbe mai dissidi con l’Italia, sia disposto al rischio di gettare l’Europa sulla via della catastrofe per difendere un Paese africano, universalmente bollato come un Paese senza ombra di civiltà».
Non bisogna dimenticare che gli uomini di governo, qualsiasi sia la modalità che hanno seguito per raggiungere il potere, tendono a mostrare la propria forza, stimata dalla posizione di comando. Sul piano psicologico è come se la loro dimensione corporea e mentale avesse assunto quella costituita dalla vastità del territorio che governano.
Per semplificare, è lo stesso processo in base al quale un uomo, guidando un’auto, proietta il confine del proprio corpo sui limiti e sulla bellezza della carrozzeria: ha una percezione di sé allargata anche fisicamente che finisce per incorporare persino la potenza del motore.
Rimane, invece, sempre un uomo con i propri difetti e con i propri limiti.
In questa prospettiva risalta chiaramente come il potere rappresenti una condizione per dichiarare guerra o per rispondere con le armi a provocazioni che invece potrebbero essere risolte mantenendo la pace.
Il fatto stesso che ogni Paese possegga un esercito e una gerarchia militare è a sostegno di soluzioni armate.

MALATTIA

Una delle sorgenti della paura è rappresentata dalla salute. La risposta a questo limite, che è proprio del corpo e della mente umani, è offerta dal sistema sanitario, attivo in un dato territorio e parte dell’organizzazione nazionale.
La malattia non può essere affrontata dal singolo cittadino, poiché lo sviluppo della medicina ha indicato, per la maggior parte dei disturbi, trattamenti che sono riservati alle strutture in cui operano i medici: pronto soccorso e reparti di ricovero.
Il termine «malattia» ha come radice «male», che rimanda a un’antica concezione diffusa nella civiltà occidentale che lo rappresenta come una possessi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Homo incertus
  4. L’insicurezza
  5. La sicurezza
  6. Sicurezza possibile e sicurezza impossibile
  7. Homo semper incertus
  8. Gestire l’insicurezza
  9. Copyright