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Sospinta dai venti gelidi della steppa, la neve era già arrivata a Berlino. Konrad Taub e suo figlio marciavano sulle strade attanagliati dal gelo, incapaci di parlare, procedevano e basta, con cupa risolutezza.
Taub suonò il campanello e si tolse i guanti, sbattendoli contro il muretto per scrollare i residui di neve. Hans lo imitò e guardò il cielo grigio: fiocchi pesanti fluttuavano verso il basso e poi finivano nella morsa del vento e venivano scagliati lontano. Sembrava il caos.
Un domestico aprì la porta e li fece entrare senza proferire parola. Si tolsero i cappotti con grande attenzione, batterono i piedi sullo zerbino, che era grande quanto il tappeto del salotto del loro modesto appartamento. Acqua mista a neve gocciolava sul tappeto. Hans tremò quando il calore gli fece realizzare che freddo c’era fuori.
Conoscevano la strada, e il domestico se ne andò con un cenno del capo, portando via i cappotti. Lontano dal tumulto del vento, della neve, delle oscure faccende della città, quello era un posto tranquillo, di una calma ammaliante. L’unico rumore che si distingueva era il lontano mormorio dei preparativi per il ballo di Natale, in una sala interna della casa. Avrebbe avuto luogo quella sera, e né Hans né i genitori erano stati invitati. L’incontro con Schröder sarebbe stato breve.
Salirono le scale e raggiunsero il suo studio.
«Ah benvenuti» disse. «Come stai Konrad? E tu, Hans? Fuori fa freddo. Un caffè? O magari una grappa?»
«Un bicchierino, perché no?»
Schröder prese bottiglia e bicchieri da una credenza. «C’è un gran trambusto da queste parti. Per la festa di stasera. Magda è agitatissima, adora queste occasioni. Mi spiace non avervi invitati. Ho pensato fosse meglio così» disse in tono pragmatico.
«Certo, questi eventi non fanno per noi.»
«Nemmeno per me» disse Schröder con un sorriso. «Ma non posso sottrarmi. Non che fra gli invitati ci sia qualche orribile nazista. Ma è meglio se il nostro rapporto rimane un po’ sottotraccia. Per il bene di tutti. Renate come sta?»
«Indaffarata come sempre.»
«E tu Hans, quanti anni hai adesso?»
«Quattordici, signore.»
«Mi chiedo se non vuoi unirti a noi per un bicchierino di grappa, sempre che tuo padre sia d’accordo, s’intende.»
«Nossignore. Non credo, signore.»
«Ma sì, Hans, se vuoi» disse Taub.
«No, padre. Non credo che il sapore mi piacerebbe.»
«Un ragazzo giudizioso» disse Schröder con un sorriso. «Meglio evitare il demone dell’alcol il più a lungo possibile. Ti faccio avere qualcosa dalla cucina. Cosa preferisci? Sono certo che da qualche parte in casa debba esserci una torta al cioccolato.»
«Sto bene così, signore. Non ho fame, né sete.»
I due uomini si accomodarono col bicchiere in mano sui divani di cuoio ai lati del camino, di fronte al fuoco scoppiettante. Hans rimase in piedi, con il cappello in mano, le scarpe che ancora gocciolavano sul tappeto.
«Allora, Konrad. Quali sono le ultime novità?»
Hans era affascinato da quella stanza. Grandi scaffalature in mogano ricoprivano le pareti, dal pavimento al soffitto, e ogni scaffale era pieno di libri. Una piccola scala, anch’essa in mogano, permetteva di raggiungere i volumi più in alto. Davanti alla finestra c’era una possente scrivania, grande quanto il suo letto. Era quasi completamente occupata da pile di carte, attentamente disposte, relative ognuna, pensò, a un diverso aspetto dell’impero commerciale di Herr Schröder. Anche se ne avesse avuto la possibilità, Hans non avrebbe mai trovato il coraggio di guardare fra quelle carte, nonostante fosse audace e curioso. La stanza era illuminata a sezioni: una grande lampada sulla scrivania, punti luce disposti sugli scaffali per facilitare la ricerca dei libri, due pesanti lampade a stelo in ferro battuto dietro i divani, che si univano alla luce impetuosa e vivace del fuoco acceso nel camino. Era proprio il genere di stanza che avrebbe voluto come suo rifugio.
I due uomini, che non vedevano l’ora di dedicarsi ai loro affari, si erano completamente dimenticati di lui.
«La guerra è sicura» stava dicendo Schröder.
«Di questo sono convinti tutti» replicò il padre.
«No. Voglio dire che hanno la ferma intenzione di entrare in guerra, una volta ultimati i preparativi.»
«Come lo sai?»
«Da Ravenstein. Siamo suoi fornitori. Non è un simpatizzante, ma neppure un vero e proprio dissidente. Conosce Speer di persona. Gli hanno chiesto di aumentare la produzione per i prossimi sei mesi, con il chiaro scopo di farsi trovare pronti a combattere intorno alla metà dell’anno prossimo. Hitler troverà un pretesto per accelerare gli eventi. Probabilmente Danzica. Puoi riferire la cosa ai tuoi contatti segreti.»
«E i tentativi diplomatici? L’accordo inglese?»
«Ravenstein sostiene che a Hitler fa comodo. Ritiene Chamberlain un utile idiota. Potrà anche garantirsi qualche mese in più per l’Inghilterra, ma intanto ci lascia il tempo di affilare le nostre armi. Hitler non permetterà a Chamberlain di alterare in alcun modo i suoi piani. Gli inglesi non contano niente. Ma il punto, Konrad, è un altro: cosa possiamo fare noi? Non è difficile prevedere che le atrocità contro gli ebrei aumenteranno. Ravenstein sostiene che il progetto per la creazione dei campi di concentramento procede. E stanno pensando all’emigrazione forzata di massa degli ebrei verso est. Con la militarizzazione in corso, stiamo imboccando la strada senza ritorno per un vero inferno. Tu e i tuoi compagni dovete agire, ora.»
«La domanda è sempre la solita, Albert. In che modo? Non abbiamo strutture militari, né denaro, armi o competenze. Ci massacreranno. Io sono un giornalista. Non un uomo politico, meno che mai un leader. E non so proprio dove mettere le mani. È troppo tardi per sollevare agitazioni nelle fabbriche. Sono tutti in pieno fervore patriottico.»
«E i tuoi amici all’estero?»
«Io sono un liberale, Albert. Ho i miei contatti. Ma l’Inghilterra e i suoi alleati? Rifletteranno, valuteranno, e saranno del tutto ragionevoli fino al momento in cui sarà troppo tardi per avere un briciolo di razionalità. È già troppo tardi, ma non lo sanno. Pensano semplicemente che i Sudeti siano un posto lontano. E lo stesso penseranno della Polonia e della Cecoslovacchia. O della Francia e dei Paesi Bassi, se è per questo. Credono che siamo lontani, finché non disturbiamo i loro interessi. E quando li intralceremo sarà troppo tardi.»
«Quindi dobbiamo fare quello che possiamo.»
«Sono d’accordo. Cos’hai in mente?»
«Gli ebrei sono quelli che soffriranno maggiormente nei prossimi anni. Saranno perseguitati più di quanto non lo siano già. Tremo al pensiero di quello che può accadere. Lo stesso varrebbe per noi, se fossimo ebrei. È solo un caso di nascita o di religione.»
«Allora?»
«Allora dobbiamo trovare un modo per metterli in salvo dalle nostre grinfie» disse Schröder. «Per aiutare il maggior numero di loro a fuggire. So dove trovare i soldi. Ce ne vorranno un bel po’. Tu però devi occuparti delle questioni pratiche, sentendo i tuoi amici fuori dal Paese.»
Konrad tacque e guardò Hans.
«Hans, scusa» disse. «Ci siamo dimenticati che eri qui. Ti abbiamo annoiato con questi discorsi politici. Vai pure.»
«Hans» disse Schröder, «perché non cerchi le ragazze? Di sicuro sono in giro per casa.» Schröder si alzò in piedi e Hans si sentiva addosso il suo sguardo mentre percorreva il corridoio per poi chiudere la porta dello studio.
Camminò a passi felpati lungo il corridoio, e ogni tanto saltellava, producendo un lieve tonfo, per affondare i piedi nella soffice moquette. Nonostante il brusio lontano dei domestici indaffarati, della mobilia spostata, delle stoviglie e del vasellame che venivano poggiati sui tavoli, lassù era tutto calmo. Aprì una porta, poi un’altra, ma non trovò nessuno. Guardò anche nel salotto da cerimonie e nell’accogliente stanzetta sul lato opposto del grande corridoio. Fuori nevicava forte.
Alle fine, sentì delle voci eccitate provenire da dietro la porta di una camera da letto. L’aprì lentamente. E trovò le tre sorelle maggiori.
Charlotte ridacchiò allegra: «Oh è il piccolo Hansi. Vieni, vieni».
Una volta era contento che lo chiamassero in quel modo. Era pronto a sopportare qualsiasi cosa pur di potersi avvicinare alle loro profumate presenze. Ormai però lo irritava essere chiamato «piccolo». Era molto più alto e più forte di ognuna di loro. La sensazione che lo stessero prendendo in giro peggiorò le cose.
Entrò comunque. Charlotte era quella di mezzo, aveva diciotto anni, e secondo Hans era la più civettuola. E anche quella che gli sembrava più carina, quella che avrebbe voluto baciare più di tutte. Aveva labbra rosse, morbide e piene. Ma una valeva l’altra. Hannelore era la maggiore, lievemente più seria delle altre due. Aveva già cominciato a lavorare nella fabbrica del padre. Anneliese era semplicemente troppo piccola, nonostante fosse di tre anni più grande di lui. Era estremamente immatura.
Nessuna delle tre spiccava per intelligenza o ambizioni. Erano frivole, e lui con la frivolezza non aveva dimestichezza alcuna. La madre e il padre di Hans erano persone serie e ponderate, e lo spingevano a comportarsi allo stesso modo. In quella famiglia la parte della diligente la faceva Lili, la sorella minore.
«Ci stiamo provando i vestiti per la festa di stasera, Hansi» disse Anneliese con artificiosa timidezza. «Vuoi vederli?»
«Ehm, sì» disse arrossendo. «Suppongo di sì.»
Risero. «Oh caro Hansi» disse Charlotte, «verrai al ballo stasera? Sarai il nostro principe?»
«No, non vengo.»
«Smetti di stuzzicarlo, Charlotte» disse Hannelore. «Sei qui con tuo padre, Hansi?»
«Sì.»
«Spero che papà finisca presto di lavorare. Anche lui deve prepararsi» fece Anneliese.
La stanza profumava di pulito, di sapone, e di loro. Non si era mai sentito tanto in imbarazzo, eppure era contento di essere lì. La luminosità di quella situazione era abbacinante. Desiderava con tutto se stesso allungare una mano e toccare una di loro. Ancora meglio sarebbe stato se una di loro avesse toccato lui.
«Non hai caldo, Hansi?» disse Charlotte. «Non ti sembra faccia un gran caldo qui, Anneliese?»
«Sì» rispose la sorella. «È così eccitante.»
«Speri che il tuo tenente verrà stasera, Hannelore?»
«Be’, ha accettato l’invito.»
Le sorelle ridacchiarono all’unisono.
«Spero che porti qualche amico» disse Anneliese.
Chiacchieravano come se lui non ci fosse. Ma non gli importava. Avrebbe voluto farsi invisibile e rimanere là per sempre. Quella era la stanza di Charlotte. Gli sarebbe piaciuto guardarla mentre si preparava per la serata ed essere lì al suo ritorno, per osservarla seduta davanti allo specchio a struccarsi prima di scuotere i capelli neri e togliersi il vestito. Voleva assistere al momento in cui si sarebbe sfilata la bi...