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La mia storia

  1. 272 pagine
  2. Italian
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La mia storia

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"La mia storia è soltanto mia; sono l'unica che ne ha vissuto ogni istante, e ho deciso di rivendicare il diritto di raccontarla alle mie condizioni." Negli anni Ottanta e Novanta, Demi Moore si trova all'apice di una carriera straordinaria: è protagonista di film di enorme successo e delle copertine delle riviste più vendute, e sulla bocca di tutti ci sono i suoi cachet milionari e la sua vita privata. Ma dietro all'immagine patinata della star, si nasconde una donna in lotta con i fantasmi del passato (un'infanzia vagabonda in balia di genitori inadeguati, una madre alcolizzata, la violenza subita da ragazzina) e del presente (la dipendenza prima dalla droga e poi dall'alcool, il rapporto complicato con il proprio corpo). Oggi una delle star più amate di Hollywood ha deciso di affrontarli uno per uno in un racconto onesto e senza censure: quello di una vita da romanzo, segnata da grandi successi e profondissimi baratri. La vicenda di una donna che ha imparato faticosamente ad accettare le proprie debolezze per diventare finalmente padrona della propria storia. Che in un certo senso appartiene anche a ciascuno di noi: perché "tutti noi soffriamo, tutti noi trionfiamo e tutti noi possiamo scegliere che valore dare sia alle vittorie sia alle sconfitte".

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865976494
Parte II

Successo

8

Mentre la mia famiglia si disintegrava, la mia carriera cominciava a decollare, grazie a una serie di occasioni che mi si presentarono quasi una dietro l’altra. Prima di tutto, John Casablancas, il leggendario capo dell’agenzia Elite, decise di mandarmi a New York insieme a poche altre ragazze. Ero entusiasta. L’agenzia mi pagò il volo e il soggiorno, commissionò a un fotografo dei nuovi ritratti adatti al mercato dell’alta moda della città e organizzò meeting con potenziali clienti. Era una metropoli travolgente, quasi minacciosa. E come puzzava! Ricordo ancora la prima volta che vidi uno sbuffo di vapore uscire da un tombino a Manhattan: era come se, appena sotto la superficie della città, ci fosse un inferno di fuoco che bruciava giorno e notte.
Freddy venne con me, e un po’ mi faceva piacere un po’ no. Da un lato, ero molto agitata all’idea di affrontare il mio primo viaggio a Manhattan da sola; dall’altro, temevo che senza di lui la band non sarebbe rimasta insieme, e infatti, quando disse agli altri membri dei Kats che avrebbe passato un po’ di tempo a New York, tutti si trovarono altri gruppi. Ero agitata anche all’idea che Freddy puntasse tutto su di me. Io, nel frattempo, ero presa dall’ambizione, determinata a lasciarmi alle spalle le mie origini disfunzionali e a lanciarmi nel luminoso mondo del successo, dove – immaginavo – la gente aveva una vita felice e normale (ah, ah). Io e Freddy andavamo in direzioni diverse, e io cominciavo a prendere le distanze.
Rimasi a New York per alcuni mesi. Fui scritturata per una pubblicità, e mi trasferii con Freddy in un minuscolo appartamento nell’Upper West Side. L’ultimo giorno di riprese cominciai a sentire quella sensazione familiare di tensione che segnalava un attacco della mia malattia ai reni, ma mi dissi che era solo un effetto del calore dei riflettori.
Avevamo prenotato il volo per Los Angeles per l’indomani. Il tempo di atterrare ed ero gonfia come un pallone. Freddy non aveva idea di cosa fare ma per fortuna avevo chiamato DeAnna, che ci aspettava in aeroporto e mi portò direttamente al pronto soccorso. A quel punto ero talmente gonfia che ne porto ancora i segni: ho le smagliature sulle gambe.
Questo attacco era diverso. Si sapeva molto di più sulla mia malattia e non fui costretta in ospedale per mesi e mesi; una volta che le mie condizioni si furono stabilizzate, i medici mi prescrissero un’alta dose di Prednisone e mi mandarono a casa.
C’era un’altra differenza. In passato, le mie crisi erano sempre seguite a uno dei tradimenti di mio padre. Questa volta, il tradimento era mio. Avevo cercato di rimuoverlo, ma il mio corpo non si lasciava ingannare.
Non avevo passato la notte prima delle mie nozze scrivendo le promesse matrimoniali. Avevo chiamato un tizio che avevo conosciuto sul set di un film, mi ero defilata dal mio stesso addio al nubilato ed ero andata a casa sua.
Perché l’avevo fatto? Perché invece non avevo espresso i miei dubbi all’uomo con il quale mi stavo impegnando a passare il resto della mia vita? Perché non potevo affrontare il fatto che mi stavo sposando per non pensare alla morte di mio padre. Perché sentivo di non avere più tempo per rimettere in discussione un processo che era già in corso. Non potevo fermare il matrimonio, ma potevo sabotarlo.
Se non che, quando il sabotaggio è un segreto, si finisce con il sabotare soltanto se stessi.
Qualche mese più tardi, arrivò la mia seconda grande occasione: un’audizione per General Hospital. Non avevo mai guardato le soap opera, ma sapevo che era una svolta importante. Tanto per cominciare, era la più vista tra le trasmissioni televisive diurne. Inoltre, sulla stampa se ne parlava moltissimo perché Genie Francis, l’attrice che interpretava Laura Spencer – della celebre coppia di Luke e Laura – stava per ritirarsi dalle scene, e una stella del calibro di Elizabeth Taylor aveva una sorta di cameo prolungato nella serie. Al provino per quella soap storica, che andava in onda da vent’anni, ero agitatissima. Ma provai a immaginare di tornare a bordo piscina, a leggere a voce alta i copioni di Nastassja. Quello mi aiutò. E poi, mi piaceva moltissimo il mio personaggio: Jackie Templeton, una giovane giornalista sveglia e coraggiosa. Volevano una alla Margot Kidder, la Lois Lane della versione cinematografica di Superman che aveva sbancato i botteghini pochi anni prima. Io avevo i capelli scuri e gli occhi verdi come Kidder, e avevamo un’altra cosa in comune: la voce roca. C’è qualcosa di affascinante in quella ruvidità, forse perché suggerisce durezza e vulnerabilità allo stesso tempo. Ottenni la parte.
Ero esaltata e terrorizzata. Quello di Jackie Templeton era un ruolo importante. E, in generale, recitare nelle soap è un lavoro duro; diverso da quello per altre serie televisive e completamente diverso da quello per il cinema; solo in una soap un attore riceve trenta pagine da memorizzare e girare in un giorno solo. I copioni ci arrivavano con uno o due giorni di preavviso, ma era difficile trovare il tempo per portarsi avanti. Durante il weekend a volte riuscivo a portarmi a casa un paio di copioni alla volta, per avere qualche anticipazione sulla trama, ma di giorno in giorno la routine sul set era sempre: ecco le tue scene, arrangiati!
Ciononostante la fatica era più che ripagata. Per la prima volta nella vita ero io a pagarmi l’affitto, i pasti, le bollette, a decidere se potevo permettermi vestiti nuovi. Quando cominciai a lavorare sul set, mi vergognavo così tanto della mia Volkswagen malconcia che la parcheggiavo in strada fuori dagli studios ed entravo a piedi dai cancelli. Un giorno una delle guardie mi disse: «Sa che può parcheggiare dentro, vero?»; mi resi conto che mi aveva vista e mi sentii mortificata. Il primo acquisto che feci con i miei nuovi risparmi fu una Honda Accord argentata nuova fiammante. Mi sentii così fiera quando passai di fianco alle guardie per parcheggiarla nel mio posto riservato.
Sotto molti aspetti, General Hospital era come l’ennesima scuola di cui decifrare il funzionamento; soltanto che la posta in gioco era molto più alta. Vedevo le soap come una tappa importante, mi rendevo conto che quella serie aveva il potere di cambiarmi la vita, in meglio, e avrei fatto di tutto per non mostrare le mie debolezze o le mie insicurezze. A guardarmi dall’esterno avevo tutte le carte in regola, ma la mancanza di fiducia in me stessa doveva trovare sfogo. Cominciai a bere.
Durante il giorno, mentre venivano girate le scene di altri personaggi, facevamo delle pause, che però non duravano abbastanza a lungo per poter uscire dagli studios; spesso passavo il tempo nel camerino di Tony Geary, che interpretava Luke. Tony aveva sempre una bottiglia di qualche superalcolico sottomano, che beveva mascherandolo con la Coca Cola. Non rifiutavo mai quando mi offriva da bere. In fondo era la star della serie: se lui si comportava così, doveva essere una cosa accettabile.
A casa, io e Freddy bevevamo giusto una birra ogni tanto. Il problema era che, quando bevevo, non riuscivo a fermarmi; non avevo nessuna vocina nella testa che mi dicesse: “Demi, adesso basta”. Non avevo freni. Una sera andai con Freddy a vedere una band new wave emergente. Mentre suonavano cominciai a bere: un drink, poi un altro, poi un altro ancora. Nel backstage, dopo il concerto, mentre parlavo con un membro della band, ebbi un black-out. La cosa successiva che ricordo è quell’uomo che urlava con un forte accento britannico. Non ho idea di che cosa gli avessi detto, ma non dev’essere stato niente di buono. «Vattene via!» strillava. «Fuori di qui, cazzo!» Tornai sobria di colpo. Freddy mi portò in fretta verso l’uscita, ci guardavano tutti. Quella fu la mia prima umiliazione legata all’alcol.
Un conto è alzare il gomito mentre sei in giro per locali la sera; un altro è ubriacarsi sul lavoro.
Fui invitata insieme ad altre star di General Hospital a una tavola rotonda per un pubblico di appassionati di soap. Già in aereo ordinai diversi drink alla hostess; arrivata in hotel, svuotai il minibar. Quando cominciò la tavola rotonda ero così ubriaca che non riuscivo a stare seduta diritta sulla sedia.
Il giorno seguente ero sconvolta. Mi sentivo troppo fuori controllo, troppo simile ai miei genitori. Capii che l’alcol mi stava avvicinando a loro, mi stava riportando indietro, invece che proiettarmi nel futuro che mi ero immaginata. Smisi di bere da un giorno all’altro.
L’occasione numero tre arrivò poco dopo il mio ventesimo compleanno, nel 1982, quando feci la mia prima audizione per un ruolo in un film vero, Quel giorno a Rio, e ottenni il ruolo. Fare cinema era sempre stato il mio sogno e tutto, di quel film, era entusiasmante. Le riprese erano all’estero, così richiesi il mio primo passaporto. Era una grossa produzione, il regista era il leggendario Stanley Donen, che aveva diretto classici come Cantando sotto la pioggia, Damn Yankees! e Sciarada. La madre del mio personaggio era interpretata da Valerie Harper: ero cresciuta guardandola recitare nella sit-com Mary Tyler Moore Show e nello spin-off Rhoda. E il ruolo di mio padre era stato affidato a Michael Caine. All’epoca non capivo fino in fondo che lavorare con uno dei più grandi attori del mondo era un’opportunità unica: ero al settimo cielo alla sola idea di fare un film. Chiesi tre mesi di pausa dalle riprese di General Hospital.
Partii per il Brasile con la sensazione – già provata più volte – che quello fosse un fischio d’inizio, una situazione completamente nuova. Si ripeteva lo schema a cui ero abituata. Se qualcosa non funzionava, sapevo che in breve ce ne saremmo andati, quindi non c’era bisogno di tentare di sistemare le cose. E se invece tutto filava liscio? Be’, tanto valeva approfittarne, perché sarebbe finita ben presto.
Alloggiavamo in un grande hotel sulla spiaggia di Ipanema, e la prima sera ci trovammo tutti per cena. C’erano Michael Caine e sua moglie, Shakira, una creatura elegante, esotica e sofisticata: una vera e propria visione, per una ragazzina rozza del New Mexico come me. L’altro protagonista maschile, Joe Bologna, era un tesoro, estremamente cordiale; in realtà, tutti fecero il possibile per farmi sentire a mio agio. Io ero in soggezione, senza parole, ma fingevo di essere rilassata. Volevo che quelle persone vedessero in me quello che volevano vedere. “Non rovinare tutto” mi dissi. “Stai seduta ferma, osserva e impara.”
La trama sembrava il sogno di un vecchio porco – al giorno d’oggi nessuno approverebbe un film del genere – ma in quel periodo sembrava normalissimo. Io interpretavo una diciassettenne che si trovava in vacanza a Rio assieme alla sua migliore amica, che in pratica seduceva il padre del mio personaggio contro la sua volontà. Joe Bologna faceva il padre dell’amica. La protagonista si chiamava Michelle Johnson ed era una sconosciuta, una giovane modella di Phoenix, in Arizona, che probabilmente era stata scritturata più che altro per via del suo seno generoso; un’altra cosa che a quei tempi sembrava far parte del gioco. Non ero molto più grande di lei, ma mi sembrava una ragazza innocente; in confronto a lei mi sentivo una veterana.
Sul set conobbi una ragazza del posto di nome Zezé, che si era offerta come comparsa per divertimento. Zezé era molto cool e proveniva da una famiglia ricca; era istruita e parlava perfettamente inglese. Diventammo amiche e ci creammo ben presto una piccola routine tutta nostra. Quando non ero sul set, lei mi faceva da guida in giro per Rio, mi portava al ristorante; mi presentò i suoi amici e cominciammo a fare baldoria tutti insieme; ci divertivamo da matti.
Freddy non c’era e io mi trovavo in un luogo in cui nessuno conosceva la mia storia: ero libera di sperimentare e trovare la versione di me che volevo essere, senza nulla a trattenermi. Fu un’apertura, un risveglio, positivo sotto molti aspetti ma accompagnato, sfortunatamente, da una valanga di cocaina. Rischiai di tornare dal Brasile con le narici bruciate.
La produzione mi aveva sistemata in un ottimo hotel e mi passava anche una diaria, quindi coprire le spese non era difficile. Diventò ancora più facile quando Zezé mi consigliò di affittare un appartamento arredato e mi aiutò a trovarne uno, fantastico, che dava sulla spiaggia. Avevamo fatto amicizia con il ragazzo che dirigeva la seconda unità sul set, Peter, che divenne il mio coinquilino. Ci dividevamo l’affitto, e quel che risparmiavo lo spendevo in cocaina. Me la procuravano i miei amici brasiliani, ed era roba molto buona. Sembrava che a Rio sniffare cocaina fosse la norma. E anche bere: ma questo, ironia della sorte, lo facevano tutti tranne me. Non bevevo perché sapevo che non riuscivo a gestire l’alcol, che per me era un pericolo. Non mi preoccupavo per gli effetti della cocaina. Avevo trovato questa sostanza che mi metteva di buon umore e mi faceva sentire creativa ed efficiente, cosa c’era di male? Avevo il denaro per acquistarne in quantità e, ricoprendo un ruolo minore nel film, non mi mancava il tempo libero per godermela.
Furono mesi stupendi. Con Zezé mi trovavo benissimo, siamo molto amiche ancora oggi. Stavamo sempre con Peter e con un amico di Zezé, Paolo, un bellissimo ragazzo brasiliano: facevamo festa a casa nostra, andavamo in spiaggia ed esploravamo la città. Era facile dimenticare di essere sposata, tanto che una sera finii a letto con Peter (successe soltanto una volta; capimmo subito entrambi che era stato un errore). Stavo vivendo un’avventura. La mia carriera stava decollando. E non mi ero mai sentita così libera.
Tutta quella libertà – unita alla mia giovinezza, senza contare il senso di spavalderia e noncuranza dato dalla cocaina – mi portò a superare i limiti. Il mio personaggio doveva volare in deltaplano, ma per un problema con l’assicurazione i produttori esigevano che la scena venisse girata da una controfigura. Tuttavia il regista della seconda unità era Peter, quindi gli chiesi di farmela girare ugualmente.
Avrebbe potuto costargli il lavoro; avrebbe potuto mettere a rischio l’intero film. Era un’idea avventata alimentata dalla droga, ma per fortuna andò tutto bene. Fissai l’imbracatura e mi buttai da una scogliera che dava sull’oceano Atlantico. La vista era incredibile.

9

Anche mentre facevo follie, in Brasile avevo avuto una specie di epifania: la persona che volevo essere non diceva bugie. Quando tornai da Rio, ero decisa a dire tutta la verità a Freddy, a prendermi la responsabilità delle mie azioni e dei miei desideri. Gli dissi che cos’era successo con Peter e che pensavo che il nostro matrimonio non funzionasse.
Era arrabbiato e lo capivo. L’avevo deluso; ma col divorzio volevo fare la cosa giusta, così acconsentii a pagargli gli alimenti per un anno. Tuttavia, non rimase da solo molto a lungo. All’inizio della nostra storia, Freddy per arrotondare dava lezioni di chitarra e una delle sue allieve era la sorella quattordicenne di un amico. Vedendoli insieme, avevo notato subito che tra Renee e Freddy c’era un’intesa, anche se lui aveva più del doppio dei suoi anni. Un pomeriggio avevo detto: «Se tra me e Freddy non dovesse funzionare, scommetto che voi due vi mettereste insieme». Renee era in imbarazzo e lui si era molto arrabbiato con me perché l’avevo turbata, ma non appena io e Freddy ci lasciammo, si misero insieme, e ancora oggi sono una coppia.
Sebbene fosse stata un’idea mia, dopo la separazione mi sentii comunque alla deriva. Un amico mi mise a disposizione il suo appartamento a Marina del Rey in attesa che trovassi un posto mio, e mi stabilii lì. Passai il mio ventunesimo compleanno in quella casa, da sola.
Ero tornata sul set di General Hospital per concludere il mio contratto. Presi un secondo periodo di aspettativa per girare un altro film, che però non fu confermato. Ma ormai, gli autori della soap mi avevano già esclusa dalla nuova sotto-trama, così mi ritrovai all’improvviso senza alcuna distrazione da me stessa.
Ricominciai a bere. Fu un momento molto buio. L’immagine che presentavo al mondo era sempre la stessa: positiva, sicura di me, audace. Comprai una motocicletta Kawasaki con cui correvo per le strade di Los Angeles, senza casco e senza patente.
La mia fame di cocaina era diventata una dipendenza in tutto e per tutto, e anche se non mi sarei mai definita una tossica, in verità lo ero. Mi procuravo la cocaina tramite un dentista, era roba molto buona ma non ne aveva sempre a disposizione; in quel caso, me la recuperava il mio consulente finanziario. Oggi mi sembra incredibile, ma la persona che avrebbe dovuto aiutarmi a gestire la mia situazione economica non mi fece mai notare quanto denaro sperperavo per la droga; d’altra parte, ne faceva uso anche lui. A un certo punto tagliai i ponti con lui, ma non prima di aver buttato via gran parte dei miei risparmi.
Per fortuna, ottenni la parte da protagonista in Una cotta importante, una commedia romantica per teenager distribuita dalla Columbia Pictures. Io interpretavo la cantante di un nightclub e Jon Cryer, al suo debutto cinematografico, era il fotografo diciannovenne che si innamorava di lei. Jon si innamorò di me anche nella vita reale e perse la verginità con me durante il periodo delle riprese. Mi addolora ripensare di essere stata così insensibile e di avergli sottratto quello che avrebbe potuto essere un momento molto bello e importante. Ma all’epoca ero fuori controllo, e decisamente non ero in grado di avere cura dei sentimenti altrui. Avevo cominciato a comportarmi in modo veramente autodistruttivo; mi ricordo di essermi svegliata senza sapere dove mi trovassi, pensando: “Devo essere sul set tra un’ora” e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INSIDE OUT
  4. Prologo
  5. Parte I. Sopravvivenza
  6. Parte II. Successo
  7. Parte III. Resa
  8. Ringraziamenti
  9. Inserto fotografico
  10. Copyright