Happy Hour
eBook - ePub

Happy Hour

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

È sabato sera, a Milano. I bar e le tavole calde sono affollati per l'happy hour, l'irrinunciabile piccola "ora felice", e in corso Buenos Aires, via dell'abbondanza, la calca dell'aperitivo si confonde con quella dello shopping. Poi, all'improvviso, un uomo si toglie la vita: è il caso zero, quello da cui tutto comincia. Nelle settimane successive, un'inspiegabile epidemia di suicidi paralizza la città. Tra capitani d'azienda e vecchine in pensione, tra chi si impicca in salotto e chi si getta in pieno giorno dalle terrazze del Duomo, l'unico denominatore comune è un male di vivere improvviso e irrimediabile. Mario Spinoza, professore di Letteratura francese, segue questi fatti con interesse. Quando il morbo si aggrava e Milano viene messa in quarantena, ricercarne le ragioni gli pare indispensabile: perché proprio questa città internazionale, città del benessere, città da bere? E perché gli stranieri, anche i più sfortunati, ne sono immuni? Insieme ad Aram, seminarista con velleità rivoluzionarie, e a Mara, studentessa convinta che la "peste" milanese sia paragonabile a quella di Camus, Spinoza cerca di rispondere a una domanda fondamentale: esiste ancora, nel nostro tempo, qualcuno in grado di essere felice? Un romanzo sagace e illuminante, la riflessione provocatoria di un autore che ha fatto di Milano il centro della sua poetica.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Happy Hour di Ferruccio Parazzoli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Letteratura generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788858699461
Primo tempo

MAGGIO

I

Il sabato pomeriggio, in corso Buenos Aires, Milano, è impossibile camminare a passo rapido sui marciapiedi. Per chi abbia fretta di arrivare da piazzale Loreto a Porta Venezia, o viceversa, evitando la calca della MM rossa, è consigliabile prendere una delle vie parallele, sul lato del Lazzaretto, sgombre in qualunque giorno della settimana, dove le lanterne di carta dei ristoranti cinesi, i polli smembrati dei ristoranti indiani, i tam-tam africani, attendono gli avventori della notte. Non così gli esercizi a una sola luce, dove, nell’impolverata vetrina, dormono antichi reperti usciti da tarlate biblioteche di proprietari defunti, giocattoli per bambini ottuagenari, in attesa di ambigui compratori remoti.
Giovani e anziani, dalla cute slavata o di colore, babe e puttane, sani e malati, accattoni e paraplegici, si accalcano sui marciapiedi di corso Buenos Aires semplicemente perché è sabato pomeriggio a Milano.
Mangiare è la prima necessità di quell’impasto di folla. Paninerie e gelaterie amministrano selvaggiamente la calca, impossibile trovare una sedia ai tavolini dei bar ammassati su metà del marciapiede. I contenitori di spazzatura rigurgitano carta oleata, focaccia masticata, bottiglie infrante, barattoli schiacciati, plastiche accartocciate. È corso Buenos Aires, la Grande Via della prosperità. Non c’è povertà su corso Buenos Aires perché anche gli accattoni fanno parte della sua abbondanza.
Domenica mattina, dedicata al riposo, la strada si fa meditabonda, ancora immersa nella notte trascorsa nelle insonnie, nei sogni, nei coiti, nelle preghiere, negli amori, negli incubi, nelle malattie, nella morte, nel grido delle ambulanze, nello sgommare delle volanti, in attesa delle campane del mezzogiorno quando, a fine Messa, le pasticcerie si riempiranno degli attempati provveditori di dolci per il fine pranzo con figli e nipoti.
Non posso fare a meno, ogni sabato pomeriggio, di quello spettacolo di desideri momentaneamente soddisfatti, perfino dai pochi centesimi nei bicchieri di plastica dei mendicanti che da tempo, ormai, riconosco uno per uno, le loro facce, i loro corpi abbandonati o ritorti, sono immutabili come quelli degli accattoni e dei nani che compaiono negli affreschi delle casate reali.
E oggi è sabato, una giornata calda quasi da inizio estate, ho terminato la mia lezione all’Università Cattolica, dove insegno da anni Letteratura francese.
Ho superato i cinquanta, vivo separato da mia moglie Ivana, cinque anni più giovane di me, e da mio figlio Antonio: situazione assai comune, su cui non c’è niente da dire. Credo che Antonio abbia vent’anni, ma non ricordo mai le date di nascita di nessuno; a stento, quando devo inserirla in qualche documento, ricordo la mia.
Ho percorso la grande piazza chiusa dal tragico Monumento ai Caduti e dalla interminabile facciata della caserma, sono salito fino a piazzale Cadorna e, davanti ai pazzi tubolari della Stazione Nord, sono sceso nel metrò, linea rossa, fermata Porta Venezia, ho iniziato la lenta navigazione sui marciapiedi del corso. All’incrocio con piazza Lima, i tavoli sul marciapiede sono interamente occupati. Una ragazza vestita da uomo fa servizio, agile, reggendo i vassoi, avanti e indietro tra il bar e il marciapiede.
Riconosco Luca Abbate, un giovane cronista, freelance di qualunque giornale accetti, più che richieda, la sua collaborazione.
Ha una bibita gialla davanti, è seduto a un tavolo, accanto a una ragazza molto giovane: vent’anni o poco più, le gambe scoperte, carina di corpo, come quasi tutte le ragazze in estate, banali i lineamenti del volto, come ormai, per mescolati incroci, la maggior parte delle giovani donne metropolitane. Ivana, mia moglie, era bella o, almeno, così mi sembrava, e quando la rivedo mi sembra lo sia ancora, anche se so che non è vero.
«Anche tu cerchi la tua ora felice?»
Le stanche battute che si scambiano prima di riconoscersi con qualcuno che si ricorda familiare, ma che non si incontra da tempo, come accade a Milano.
«È sabato anche per un cronista senza cronache» si giustifica lui che sa, come me, quanto il sabato sia il giorno della verità e della menzogna nella Grande Via.
La ragazza si chiama Marina. Luca mi invita a sedere con loro, Marina sarà felice di ricevere il consiglio di un chiarissimo professore che la aiuti a trovare la professione della sua vita. Il call center l’ha licenziata ieri, dopo tre mesi. «Poco male, quel lavoro era uno strazio» dice lei, accavallando le gambe e guardando oltre la mia persona come fossi un ectoplasma.
«La crisi. Sempre incinta, la vecchia orsa. Il Governo, come ogni Governo ogni volta più provvisorio, sventola il vecchio spauracchio della crisi economica, la paura della paura che tiene la gente piegata a scrutarsi la pancia» dico, per ricondurre alla visibilità la mia presenza.
Che la colpa sia delle statistiche non c’è alcun dubbio. Dove sono i sette milioni di italiani al di sotto dei mille euro al mese? E i due milioni di pensionati al di sotto dei cinquecento, dove sono? A quest’ora, con quel reddito, dovrebbero essere tutti già morti.
Invece sono qui, sabato, corso Buenos Aires, a celebrare l’happy hour, l’ora felice. Vecchi e giovani, vivi e morti.
«La crisi è una bestia ingorda che viene da lontano» fantastica Luca. «Miliardi, fantomatici miliardi volano sulla testa del popolo sovrano! Il popolo è come il mare, monta e si abbassa con le maree del ventre. Chiamatelo alle urne, vi chiederà sempre la stessa cosa: il sabato con la sua happy hour, la sua ora felice. E lo avrà, dovesse crepare il giorno dopo.»
Questi i discorsi.
«Anche tu, mi pare, lo stai celebrando. Anche Marina che non ha un lavoro» osservo con la mia instancabile ironia grazie alla quale posso affermare impunemente, perfino in Cattolica, di essere l’ultimo marxista.
«Pago io per lei.» Non è delicato dire questo da parte di Luca, e lei si offende: «Carino!» e si guarda le unghie con una piccola smorfia.
«E per te chi paga?» insisto.
«Chissà, forse il bonifico che arriverà domani. Magnana, sempre magnana. Ma non ci conto. I giornali oramai pagano a sei mesi, quando pagano. Ho un’inchiesta. Ma nessuno la vuole.»
È un’inchiesta sui pizzaioli di Milano.
«Più del cinquanta per cento dei pizzaioli di Milano sono extracomunitari: se la cavano benissimo e sono allegri» sostiene Luca. «Solo noi indigeni siamo tristi.»
«E tu sei triste, Marina?» chiedo, nonostante lei continui a non vedermi. Infatti non risponde.
«Va avanti a Xanax.»
Sospetto che, di quella ragazza, Luca ne abbia abbastanza. Sbagliato: si usa parlarsi così tra fidanzati e conviventi.
«Xanax per i giovani e Viagra per i vecchi.»
Adesso lei ci vede bene tutti e due, e ci guarda in faccia, perché basta guardarci in faccia per provare quanto ha detto. Da vecchi saggi riteniamo di dover dire ancora qualcosa, per non finirla lì.
«Non capisco davvero se i soldi girano ancora oppure no» dico io.
«L’apparenza inganna. Metà di tutta questa gente non sa che cosa farà domani per campare» dice Luca.
«S’impiccherà» dico io.
La sosta al bar sul marciapiede mi ha messo di umore lugubre. Meglio i verdi cortili dell’università dove i ragazzi amoreggiano sotto i portici facendo finta di studiare, e dove sembra che abbiano un futuro. A fine maggio le lezioni stanno per terminare e gli studenti si preparano alla sessione di esami.
«Bevi qualcosa, Mario?» dice Luca. Già, il mio nome è Mario, niente di eccezionale, la sorpresa sta nel cognome: Spinoza, come il grande Baruch, quello che costruisce Dio nella penombra, un ebreo dai tristi occhi e dalla pelle olivastra, come lo definisce Borges.
Ordino un’acqua brillante. È l’ultima ordinazione, così pagherò io, come previsto. Non so mai cosa bere al bar, ma non ho voglia di bere nonostante la sera sia calda.
«Mi sembra buona l’idea dei pizzaioli extracomunitari» dico tanto per dire. «Ce n’è uno proprio in via Settembrini, dietro le scuole di viale Brianza, un simpatico posto pulcioso. Andiamo a mangiarci una pizza.»
La ragazza vestita da uomo ha lasciato il biglietto sotto il mio piattino. Pago per tutti, nessuno dice grazie, è l’happy hour.
«Marina, mi spiace per il tuo lavoro.»
«Farò vacanza.»
La vita della metropoli corre verso la sua sera tumultuosa, verso il suo finale ansimante. Il battito cardiaco di Milano sembra non perda mai colpi, indenne da grandi traumi, indifferente ai piccoli.
Raggiunto piazzale Loreto, stralunato dalle recenti aiuole di lussureggianti canneti salgariani, imbocco viale Monza congestionato dal traffico ma praticabile sui marciapiedi dove aprono gli empori extracomunitari, annuncio dei quartieri equadoregni e colombiani che hanno estromesso la precedente invadenza negra.
Ho conservato per noia il vizio del fumo. Fumo la pipa di cui ho rastrelliere ben rifornite, la maggior parte rimaste da tempo senza tiraggio, bloccato dal catrame mai rimosso. Conservo anche lunghe pipe da oppio con il minuscolo fornello per la pallina da sogno. Mi piacerebbe fumarle ma soltanto se a caricarle fossero le piccole mani di una fanciulla vietnamita.
Mi fermo al bar-tabacchi all’inizio del viale a comprare la consueta busta di modesto Amphora Original su cui la scritta più bonaria mi invita a smettere di fumare: VIVI PER I TUOI CARI.
Come ogni sera del sabato, la ricevitoria delle scommesse è assediata dai giocatori. Il padrone dell’esercizio, un bell’uomo alto e bruno, la bianca camicia aperta sulla gola già abbronzata, sbriga di persona l’incarico. Dal retro delle mescite arriva lo schiocco delle palle sui tavoli verdi dei biliardi. Quel bar-tabacchi vanta una lunga presenza nel quartiere Loreto, con una frequentazione spesso ambigua tra cui non manca un’invadente partecipazione di femmine chiassose e ritinte, o angeli silenziosi e anoressici volati via dall’agenzia di modelle che si dice faccia i books al portone più avanti.

II

Abito da due anni un appartamento né grande né piccolo al quinto piano di un palazzo color sabbia da dove posso osservare giorno e notte le anonime e provvisorie esistenze che transitano per piazzale Loreto. Separato da Ivana, alla quale il tribunale ha assegnato nostro figlio Antonio, non ho più trovato con chi unirmi né mi sono curato di cercarlo. I primi anni mi è mancata la vicinanza di Antonio, andato a vivere con la madre a Sesto San Giovanni, una mancanza alla quale ho ormai fatto l’abitudine, come voglio convincermi che sia.
Se mi accingo a narrare in prima persona i fatti avvenuti nella città di Milano in questo mese di maggio, è perché in parte ne sono stato testimone, oltre che raccoglitore di notizie rese pubbliche dai giornali.
Ciò che mi coinvolse negli avvenimenti di quei drammatici giorni fu la vista delle serrande abbassate del bar-tabacchi di viale Monza dove, la sera precedente, avevo acquistato il tabacco. C’era un cartello listato di nero: CHIUSO PER LUTTO DI FAMIGLIA.
Non mi fu difficile scoprire a quale dei componenti della famiglia si riferisse il lutto. Il portiere dello stabile dove abito ne era informato fin nei minimi particolari nonostante la distanza di alcuni isolati da dove era avvenuto il fatto.
Il proprietario del bar, il bell’uomo in camicia bianca che avevo visto al banco delle scommesse, si era suicidato. All’apertura del mattino, lo avevano trovato impiccato nel locale dei biliardi con i piedi penzolanti sopra il tappeto verde. Che non fosse rientrato in casa per la notte non aveva inquietato più che tanto la moglie, assuefatta a simili assenze per le quali da tempo non chiedeva giustificazioni.
Le cause del suicidio erano incerte, si parlava di debiti di gioco ma non mancava chi ne attribuisse il motivo alle minacce di usurai nell’impossibilità di coprire il debito contratto per fare fronte alle smodate spese dell’impresa familiare, a sua volta impossibilitata a riscuotere i crediti sempre rimandati e mai soddisfatti. Cattiva gestione, debiti di gioco. Forse – e senza forse – anche donne.
Nessuno attribuì quel suicidio alla crisi economica e finanziaria che il Paese stava attraversando. Soltanto il successivo suicidio di un imprenditore di lavori di asfaltatura, sparatosi in testa a pochi giorni di distanza, fece notare come neppure il suicidio del barista fosse stato il primo – ormai sembrava certo – causato da ristrettezze economiche ma che, prima dell’impiccato, ci fossero stati altri due suicidi di analoga natura e modalità nel giro di una settimana.
Per dare colore alle notizie economiche e alle ipotesi di ristrettezze, nonostante le promesse del Governo, giornali e telegiornali nazionali presero lo spunto dei suicidi per rendere l’immagine drammatica della crisi che il Paese stava attraversando.
Suicidi, nel Paese, dovevano, naturalmente, essercene sempre stati ma soltanto dei più tragici e folcloristici era data notizia, specie se erano i bambini a essere coinvolti nei drammi familiari. Nei casi più truculenti il suicidio, o il tentato suicidio, seguiva all’assassinio e, sovente, alla strage.
Il suicidio divenne una costante tra le notizie di cronaca. Non c’era giorno che un padre di famiglia, o un titolare d’impresa, stretto dai debiti o dalla riscossione delle tasse, fino ad allora evase, non si togliesse la vita. Dietro ogni suicidio, a detta del cronista, c’era una strozzatura finanziaria, una carenza minima o cospicua di denaro per fare fronte alla spesa quotidiana della famiglia o dell’azienda.
La particolare propensione al suicidio dei cittadini di Milano non mi avrebbe allarmato né interessato più che tanto, immerso nella conclusione dei corsi universitari e vaccinato, come ogni cittadino dotato di razionalità, alle ansiogene campagne giornalistiche, quali quelle delle mucche e dei polli pazzi, se non avessi personalmente fatto, tra i primi, esperienza del suicidio del barista di viale Monza che la sera del sabato accoglieva da dietro il banco le scommesse ai più svar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Happy hour
  4. Primo tempo. MAGGIO
  5. Secondo tempo. GIUGNO
  6. Copyright