Alcuni giornalisti, politici ed esperti della comunicazione hanno una capacità sorprendente di trasmettere, senza la minima remora, le più stravaganti favole dell’industria digitale. Cosa che potrebbe farci sorridere. Ma così ignoreremmo il potere della ripetizione. Infatti, a forza di essere riprodotte, alla fine queste favole diventano, nella mente collettiva, fatti veri e propri. Lasciamo quindi il campo del dibattito per affrontare la leggenda metropolitana, ossia quella storia «abbastanza plausibile per essere creduta, basata principalmente su dicerie e ampiamente diffusa come vera».5 Quando ripetete con una certa frequenza che le nuove generazioni hanno, a causa della loro strabiliante padronanza del digitale, un cervello e modi di apprendimento differenti, le persone finiscono con il crederci e, quando lo fanno, a risentirne è la loro visione globale del bambino, dell’apprendimento e del sistema scolastico. Decostruire le leggende che inquinano il pensiero è quindi il primo passo da compiere per una riflessione obiettiva e profonda sull’impatto reale del digitale.
«Una generazione diversa»
Sul meraviglioso mondo del digitale si raccontano storie di ogni tipo. Che però, in ultima analisi, si appoggiano quasi tutte sulla stessa chimera di base: gli schermi hanno trasformato radicalmente il funzionamento intellettivo e il rapporto tra mondo e giovani, che ormai sono chiamati nativi digitali.6, 7, 8, 9, 10 Per l’esercito missionario della catechesi digitale, «tre aspetti salienti caratterizzano questa [nuova] generazione: lo zapping, l’impazienza e la collettività. Si aspettano un feedback immediato: tutto deve andare velocemente, molto velocemente! Gli piace lavorare in squadra e possiedono una cultura digitale trasversale, intuitiva e istintiva. Hanno capito quanto siano importanti la forza del gruppo, l’aiuto reciproco e la collaborazione […]. Molti tralasciano il ragionamento dimostrativo, deduttivo, il “passo dopo passo” preferendo procedere per tentativi grazie ai collegamenti ipertestuali».11 Le tecnologie digitali, ormai, sono «così intrecciate alle loro vite da esserne indissociabili […]. Sono cresciuti con Internet e poi con i social network, e affrontano i problemi basandosi sulle sperimentazioni, gli scambi con chi li circonda, la cooperazione trasversale su determinati progetti».12 Immersi sin dalla nascita in un mondo magico fatto di schermi di tutti i tipi, questi ragazzini «non sono più “versioni di noi in miniatura”, come forse è stato in passato. […] Parlano dalla nascita la lingua della tecnologia, sono fluenti nel linguaggio dei computer, dei videogiochi e di Internet».13 «Sono veloci, multitasking, e saltano da una cosa all’altra con estrema facilità.»14
Queste evoluzioni così profonde decretano l’obsolescenza di tutti gli approcci pedagogici del vecchio mondo.11, 15, 16, 17 Non è più possibile negare la realtà: «I nostri studenti sono cambiati in modo radicale. Gli allievi di oggi non sono più le persone per cui il sistema scolastico è stato costruito. […] Pensano e trattano le informazioni in modo molto diverso da chi li ha preceduti».10 «In realtà, sono così diversi da noi che non possiamo più usare le conoscenze del ventesimo secolo o la nostra esperienza accademica come guida per determinare ciò che è meglio per l’istruzione […]. Gli studenti di oggi hanno imparato a padroneggiare una grande varietà di strumenti [digitali] che noi non saremo mai in grado di usare con lo stesso livello di competenza […]. Questi strumenti sono come estensioni del loro cervello.»13 In assenza di una formazione adeguata, gli insegnanti di oggi non sono sullo stesso livello, «parlano una lingua obsoleta (quella dell’era predigitale)».10 Di sicuro è giunto «il momento di passare a un altro tipo di pedagogia che tenga conto delle evoluzioni della nostra società»18 perché «l’educazione di ieri non permetterà di formare i talenti di domani».19 E, in questo contesto, sarebbe meglio dare ai nostri prodigiosi geni digitali le chiavi dell’intero sistema. Liberati dagli arcaismi del vecchio mondo, «diventeranno la prima e principale fonte di ispirazione per rendere le loro scuole luoghi di apprendimento pertinenti ed efficaci».20
Potremmo continuare con arringhe e proclamazioni simili per decine di pagine. Il che sarebbe tuttavia di scarso interesse. Infatti, al di là delle sue variazioni locali, la logorrea si incentrerebbe sempre su tre principali proposizioni: (1) l’onnipresenza degli schermi ha creato una nuova generazione di esseri umani, totalmente diversa dalle precedenti; (2) i membri di questa generazione sono esperti nella gestione e nella comprensione degli strumenti digitali; (3) per continuare a essere efficace (e credibile), il sistema scolastico deve adattarsi a questa rivoluzione.
Non ci sono prove convincenti
La comunità scientifica ha valutato per quasi quindici anni la validità di queste affermazioni. Anche in questo caso, e qui nessuno sarà sorpreso, i risultati ottenuti contraddicono la beata euforia di ciò che va di moda raccontare.5, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29 Nel complesso, «la letteratura sui nativi digitali mostra una chiara incoerenza tra la fiducia con cui vengono fatte queste dichiarazioni e le prove a sostegno di tali affermazioni».28 In altre parole, «a oggi non esistono prove convincenti a sostegno di tali affermazioni».26 Ormai hanno «una grande popolarità che viene più dalle dichiarazioni fatte che dalle prove».27 Questi «stereotipi generazionali»26 sono chiaramente «una leggenda metropolitana»5 e il minimo che si può dire è che «il ritratto ottimista delle competenze digitali delle nuove generazioni ha scarse fondamenta».30 In conclusione, tutti gli elementi disponibili sono concordi nel dimostrare che «i nativi digitali sono a pieno titolo un mito»,22 «un mito usato dagli ingenui».31
Di fatto, la principale obiezione che la comunità scientifica solleva circa i nativi digitali è di una semplicità sconcertante: la nuova generazione, presumibilmente indicata con questi termini, non esiste. Certo, cercando bene si possono trovare alcuni individui le cui abitudini di consumo corrispondono vagamente allo stereotipo del geek perennemente incollato allo schermo, ma tali rassicuranti modelli ormai rappresentano più l’eccezione che la regola.32, 33 Nel complesso, la cosiddetta «generazione Internet» è molto più simile a un «insieme di minoranze»34 che a un gruppo coerente. All’interno di questa generazione, l’ampiezza, la natura e la competenza delle pratiche digitali variano notevolmente a seconda dell’età, del sesso, del tipo di istruzione, del bagaglio culturale e/o dello status socioeconomico.35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42 Consideriamo, per esempio, il tempo dedicato a usi ricreativi (vedi Figura 1). Contrariamente al mito di una popolazione iperconnessa in modo omogeneo, i dati mostrano situazioni diverse. Così, per i bambini tra gli otto e i dodici anni, l’esposizione varia in modo più o meno armonioso, da «leggera» (meno di un’ora, diciannove per cento dei bambini) ad «ampia» (più di sei ore, venti per cento). Per i ragazzi tra i tredici e i diciotto anni, la categoria di consumatori famelici aumenta notevolmente, ma è ben lungi dal raggiungere la soglia maggioritaria (più di sei ore, trentanove per cento). Il dodici per cento degli adolescenti ha un’esposizione quotidiana di meno di sessanta minuti al giorno; quasi un quarto resta sotto le due ore. In larga misura, queste disparità si confanno alle caratteristiche socioeconomiche della famiglia. I soggetti svantaggiati hanno un tempo di esposizione molto più elevato (più di due ore e trenta minuti) delle loro controparti privilegiate.37
Non ci sorprende che il groviglio diventi sempre più intricato quando integriamo anche gli usi fatti a casa per la scuola (Figura 1, in basso). Infatti, anche qui, il grado di variabilità interindividuale è notevole. Prendiamo come esempio gli adolescenti. Questi si dividono in modo più o meno equilibrato tra utenti giornalieri (ventinove per cento), settimanali (quarantaquattro per cento) e occasionali (mensili o meno, ventisette per cento). Anche qui, in linea di massima, le disparità seguono il gradiente socioeconomico della famiglia.37 Così le persone privilegiate che ricorrono ogni giorno a Internet per fare i compiti sono quasi il doppio delle loro controparti svantaggiate (trentanove per cento contro ventidue per cento). Se prendiamo la percentuale complementare degli utenti occasionali, le proporzioni si invertono (diciassette e trentanove per cento).37 Insomma, non ha senso presentare questi ragazzi come una generazione in cui i bisogni, i comportamenti, le competenze e i modi di apprendimento sono gli stessi.
Figura 1. Tempo che i preadolescenti e gli adolescenti dedicano al digitale. In alto: variabilità del tempo trascorso usando schermi ricreativi. In basso: variabilità di utilizzo degli schermi per i compiti. In questo caso, la scarsità del tempo di utilizzo quotidiano (in media: preadolescenti quindici minuti; adolescenti quarantasei minuti) non permette di fornire una rappresentazione in fasce orarie, come per gli schermi ricreativi. Alcuni totali non arrivano al cento per cento per motivi di arrotondamento. Fonte.37
Incapacità tecniche sorprendenti
Un’altra obiezione fondamentale, regolarmente sollevata dalla comunità scientifica a proposito del concetto di «nativi digitali», si basa sulla presunta superiorità tecnologica delle nuove generazioni. Immerse nel digitale, avrebbero acquisito un certo grado di controllo che sarà sempre inaccessibile ai dinosauri dell’era predigitale. Una favoletta simpatica, che però darà non pochi problemi. In primo luogo, fino a prova contraria, questi dinosauri predigitali «sono stati [e spesso lo sono ancora!] i creatori di tali sistemi e ambienti».43 Poi, contrariamente alle credenze popolari, la stragrande maggioranza dei nostri geek in erba ha, al d...