Della Pompei più antica, quella fondata verso la fine del VII secolo a.C. e che nel VI secolo è già una vera e propria città, non si conoscono le case e le tombe, mentre ormai si cominciano a porre le basi per avere precisa contezza del primitivo impianto urbano1 (Fig. 1). Ignoti restano – all’interno della griglia di strade che in questi anni si sta sistematicamente ricostruendo – i luoghi ove si svolgeva la vita quotidiana, gli spazi dei vivi hanno lasciato testimonianza solo in qualche muro, qualche piano pavimentale individuato in profondità, sotto i livelli delle città più recenti, quella che gli archeologi chiamano «sannitica» (IV-II secolo a.C.), o quella romana (I secolo a.C. – I secolo d.C.). Sconosciuti sono anche gli spazi dei morti, le tombe più antiche sepolte a vari metri di profondità già all’epoca dell’eruzione2.
In compenso sono noti i santuari, gli spazi dedicati alla divinità, quelli dove normalmente si concentravano gli sforzi della collettività per creare strutture monumentali degne degli dèi e della città di cui, si sperava, erano numi tutelari. Le aree sacre sono generalmente gli spazi più noti dei centri urbani arcaici: luoghi dove il fluire ininterrotto del tempo, lo scorrere delle stagioni, era ritmato dalle feste e dalle celebrazioni che si svolgevano nella cornice monumentale delle architetture religiose. Norme non scritte, le regole del rito, definivano i codici di queste cerimonie, che scandite nel tempo e di volta in volta rinnovate, costruivano uno spazio e un tempo condiviso dalla comunità, in cui i cittadini si riconoscevano come gruppo. I santuari sono infatti anche uno strumento per integrare le diverse componenti, sociali quanto etniche, della città. Diventano così, con il passare degli anni, luoghi della memoria, dove preservare il ricordo di un’appartenenza comune e rendere più saldi i legami del corpo civico. Per noi che, a distanza di secoli, ripensiamo le storie degli antichi, diventano straordinari archivi storici: la terra è uno «schedario» impareggiabile, dove si conservano documenti e tracce del passato, frammenti di storie, biografie, costumi, culture sepolte nel susseguirsi inarrestabile dei secoli3.
Fig. 1 Pompei arcaica, schema ipotetico della divisione urbana. In colore più scuro le direttrici viarie documentate da rinvenimenti archeologici.
La trasformazione dei più antichi villaggi sparsi, disseminati nella valle del Sarno, verso un insediamento di tipo urbano è documentata a Pompei già a partire dalla prima metà del VI secolo a.C., proprio dall’apparire di testimonianze relative a luoghi sacri. Il santuario nasce e si struttura con la città, di questa viene a incarnare l’identità, l’essenza. Insieme agli spazi per gli dèi è la presenza di un circuito difensivo – posto fin dal VI secolo a.C. a chiudere i sessantaquattro ettari che circondano l’area urbana distrutta dall’eruzione – a mostrare la formazione avvenuta della città. In assenza dello spazio pubblico, ancora non individuato, ma che si sospetta posto in coincidenza della piazza del Foro della città romana, sono proprio le mura e i santuari la cifra dello statuto urbano acquisito da Pompei in quest’epoca4 (Fig. 2).
Nella città vesuviana, come nella maggior parte dell’Italia antica, i dati per la conoscenza dei santuari provengono essenzialmente dallo scavo archeologico5. Non ci sono testi letterari che ce ne parlano; le iscrizioni più antiche, poche al di fuori del santuario di Fondo Iozzino su cui porteremo l’attenzione nel prossimo capitolo, non ci dicono granché del rito, delle credenze, delle cerimonie. Risalire da un contesto archeologico, fatto di stratigrafie e suppellettili, alle azioni che lo hanno determinato è esercizio assai difficile, soprattutto se quello che va decodificato è un rituale, scandito da norme e regole, che variano di caso in caso e possono anche non lasciare tracce materiali6. Difficile ricostruire una pratica che, affidata a gesti, movimenti, passi di danza, invocazioni, preghiere, canti, non è stata fissata nel ricordo collettivo tramite parole scritte. Se non vengono codificate nella scrittura, sulla pietra o su materiali durevoli, come «leggi sacre», le performance sono destinate a dissolversi presto nell’abisso del tempo, per sempre perdute alla memoria. Gli oggetti, d’altro canto, il più delle volte sono destinati a rimanere muti, se non si elaborano specifici processi ermeneutici per restituire loro voce e parola.
Il lavoro dell’archeologo consiste proprio in questo: cercare di collazionare ogni frammento, ogni indizio, ogni documento, in modo da ricomporli in un sistema, in modo da ricostruire, detto nelle parole più semplici, una storia. In modo da ricostruire le tante storie delle donne e degli uomini che ci hanno preceduti in un determinato luogo, dove ora interroghiamo le profondità della terra alla ricerca di risposte7.
Fig. 2 Lo scavo delle mura nel settore sud-est della città (qui in una foto d’archivio degli anni ‘30 del XX secolo) ha consentito di individuare un primo tracciato, costituito da blocchi di pappamonte e lava tenera, pertinente alla fase più antica (VI secolo a.C.) (Archivio PAP, Parco Archeologico Pompei).
In un santuario una fossa con oggetti votivi, la struttura in pietra di un altare, la disposizione di basi per statue lungo un percorso permettono di ricomporre aspetti della società che li ha realizzati, nonché effettivi momenti di vita degli attori antichi che qui si sono recati e hanno preso parte alle cerimonie. Il compito dell’archeologo sta nel decrittare, attraverso gli oggetti, le architetture, le tracce lasciate da eventi e azioni, quegli episodi astratti dalla quotidianità che avevano luogo nell’atmosfera sacra del santuario, dove un dio è presente e l’agire è scandito da norme; dove il tempo fluisce secondo altri parametri rispetto al mondo degli uomini.
Anche a Pompei occorre dunque affidarsi alla terra, scavare oltre i lapilli, al di sotto dei piani di calpestio del 79 d.C., per interpellare il sottosuolo e il suo racconto della storia più antica della città; per cercare indizi e recuperare documenti sepolti e dimenticati, per risvegliare la memoria perduta, per ritrovare il tempo di tanto tempo fa. Bisogna però fare i conti quasi sempre con i limiti che luoghi celebri come il nostro impongono alle ricerche di oggi: i santuari di Pompei, come i grandi santuari delle città famose, dall’acropoli di Atene a Olimpia a Roma, sono stati oggetto di imponenti e ripetuti scavi nel passato, in epoche in cui – il più delle volte – la cura per i contesti era del tutto tralasciata a favore del recupero di manufatti da esporre o esibire (o studiare in maniera erudita) e di edifici di impatto monumentale. Se si considera quanto incessantemente sia stato sondato il terreno a Pompei, soprattutto nei luoghi sacri, che di solito sono prodighi di begli oggetti, doni preziosi offerti alla divinità da chi prendeva parte al rito, si potrebbe essere del tutto scettici sulla possibilità di individuare attraverso i documenti rinvenuti le articolazioni di performance e rituali in cui doveva essere scandita la religiosità in un santuario8.
Nonostante le difficoltà evidenti, con la ripresa in questi ultimi anni degli scavi nei santuari pompeiani – spazi sacri in gran parte compromessi da indagini archeologiche non documentate e spesso mal condotte – le sorprese non sono mancate, e avremo modo di vederlo nel dettaglio nel corso di questo libro. Le novità che permettono di gettar luce su questi culti sono numerose, segno di quanto sia fondamentale proseguire le ricerche anche in aree già estesamente indagate in passato, purché condotte con metodi adeguati e soprattutto sfruttando tutte le tecnologie che il nostro mondo contemporaneo mette a disposizione9.
Tuttavia, anche agli occhi dei primi scavatori dei santuari pompeiani, che sterravano alla ricerca di oggetti senza grande attenzione ai contesti, doveva essere ben chiara l’importanza e la peculiarità di quanto si veniva portando alla luce. Se la precoce scoperta del tempio di Iside, individuato già nel 1764, aveva messo l’Europa dei Lumi in diretto contatto con la religiosità egizia, l’imponente mole del tempio del Foro Triangolare, portato alla luce nel 1767, faceva conoscere agli scavatori un monumento che richiamava le architetture in pietra di Paestum, rimandando così alla storia più antica di Pompei. Questa finestra aperta all’improvviso sul più remoto passato portò alle prime speculazioni sulle origini della città, mentre il confronto con il sacro continuava, grazie al procedere degli scavi nel corso dell’Ottocento, con le scoperte del tempio di Giove nel Foro e di quello di Apollo, anch’esso presto riconosciuto come culto assai antico. Le scoperte all’epoca generarono un dibattito scientifico più o meno avveduto circa la titolarità dei templi, portarono al confronto con le testimonianze letterarie ed epigrafiche, e a considerare le immagini di culto e il repertorio decorativo come chiavi per stabilire funzione e divinità dei santuari10.
La comprensione delle fasi più antiche della città, del suo sviluppo storico passa infatti ancora oggi in buona parte attraverso la conoscenza di questi santuari. Nella decrittazione dei momenti di apogeo e declino dei santuari di Apollo e di Atena (e di quello di Fondo Iozzino), si possono leggere oggi le fortune alterne della città vesuviana, lo sviluppo impressionante di età arcaica (VI secolo a.C.); il declino altrettanto impressionante del V secolo a.C.; la ripresa lenta ma costante a partire dal IV secolo a.C., fino all’apogeo del II secolo a.C.; le cesure e le continuità connesse alla fondazione della colonia romana nel I secolo a.C.; i danni del terremoto del 62 d.C. e infine il tragico epilogo del 79 d.C.
Alcuni santuari conserveranno per sempre il loro spazio, altri se ne aggiungeranno nel corso della storia della città, altri ancora verranno abbandonati; tutti si trasformeranno nel tempo quanto ad articolazione degli spazi, tanto nelle architetture quanto nelle decorazioni, adeguando l’aspetto materiale del culto alle rinnovate esigenze della comunità nelle sue diverse fasi storiche, alle mode che nascono e tramontano.
I santuari pompeiani dunque sopravvivono a lungo, o forse conoscono rinnovata frequentazione in piena continuità topografica, anche laddove il territorio è protagonista di esperienze insediative diverse; o assiste all’avvicendamento di nuove genti nel popolamento e nella frequentazione. È il caso proprio dei santuari di Apollo e Atena, che attraversano tutta la vicenda insediativa pompeiana dal VI secolo a.C. all’eruzione del 79 d.C.
Ma come si interroga il terreno di uno spazio sacro? Quali sono le informazioni che se ne possono trarre?
Nell’analisi delle forme cultuali delle varie genti del passato – come d’altro canto del nostro mondo contemporaneo – si sta portando negli anni più recenti una nuova attenzione alla «materialità» della religione11. Lo studio delle forme del sacro indirizza ora il discorso soprattutto sugli oggetti – un aspetto senza dubbio cruciale per lo sguardo dell’archeologo – attraverso i quali le religioni si affermano come universi simbolici capaci di condizionare e contribuire a elaborare il rapporto tra comunità e territorio12. Il tema della memoria e della localizzazione fisica della memoria (il suo «quadro materiale», ossia i luoghi dove questa si materializza attraverso un monumento, un oggetto, una roccia) è diventato un tema di studio cruc...