Dove non siamo stati
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Dove non siamo stati

  1. 144 pagine
  2. Italian
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Dove non siamo stati

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Informazioni sul libro

Dove non siamo stati, sembra dirci l'autrice in questo nuovo libro di poesie, in realtà c'eravamo già: eravamo nei corpi e nelle storie degli altri. La transizione, che nei versi di Dolore minimo è sessuale, diventa qui un dato esistenziale irrinunciabile per poter andare avanti. Una poesia di fantasmi e di addii, di case abbandonate, di realtà custodite solo nel ricordo di chi resta, nei giochi lasciati dai bambini nei cortili dell'infanzia. Un senso di conclusione pervade i suoi versi serrati, quello definitivo che sempre precede il cambiamento. Una fine che va indagata nei momenti più dolenti, prima di lasciare il passo alla realtà nuova che bussa alle porte. Un portato poetico universale e autentico, in cui l'esperienza personale si trasfigura per accogliere il vissuto di ciascuno, interrogando un vuoto in cui, a ben vedere, siamo sempre stati.
Con una prefazione di Roberta Dapunt e una nota critica di Alberto Bertoni.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788858699751
Argomento
Literature

LA MISURA DELLO STRAPPO

Di lato c’era come un recinto
e lì duravano le cose.
Antonella Anedda
Questa mattina ci siamo svegliati
presto e all’alba siamo usciti in giardino.
Si diceva da tempo che dovesse
succedere qualcosa di lacerante.
Che fosse proprio oggi, però, questo
non lo sapevamo. Ma c’era
un presentimento nell’aria – quasi
un fremito animale a preannunciare l’evento.
Così, senza una parola, abbiamo preso
il corpo, lo abbiamo lavato con cura,
vestito come per affrontare un lungo
viaggio. Cullato alla luce piana del giorno.
Avevamo convissuto per venti anni
eppure già non ci apparteneva più.
Avevamo capito che era arrivato il momento.
Lo abbiamo seppellito nell’erba alta,
senza indugiare, con il capo rivolto
verso le nostre finestre e gli occhi
ben visibili, due punti di luce
tra le sterpaglie. Non capivamo
cosa fosse accaduto il giorno in cui
lo abbiamo perduto – perciò volevamo
mantenere un contatto, un ponte
tra noi per rimediare. Per farci
perdonare, un giorno, per questa morte
inutile eppure inevitabile.
Lo chiamammo sacrificio d’amore
per conferirgli la compostezza
ieratica di un mistero insondabile.
Quasi a convincerci che fosse
necessario per sopravvivere.
Ma tu un giorno sei crollato, hai chiamato
assassinio quel gesto consumato
alla luce del sole – di cui, dicevi,
non potevamo davvero pentirci.
Come, replicavi, come possiamo
dimenticare, far finta che niente
sia successo. Come andare avanti
con le sue ossa a guardarci dal basso,
a commiserarci di questo nostro niente?
Col tempo avremmo imparato
per non farci cogliere mai più impreparati
a sapere far parlare anche il vuoto.
Cosa sarebbe diventato quel corpo
se l’avessimo lasciato crescere?
Mi hai chiesto oggi a pranzo
quasi tremando di desolazione.
Al mio silenzio ti sei voltato
verso la finestra, hai guardato fuori
rintracciando qualcosa con lo sguardo.
Ma sapevo non avresti trovato
nulla, neanche un indizio a farci
tornare indietro, forse anche pentirci.
Ti ho visto impallidire, poi sussurrare
È ancora lì, la notte ci guarda
e si tormenta nel buio. Ci maledice.
Avrei potuto toglierti un peso,
dirti che quel corpo l’avevo rimosso
due notti prima, gettato nel fiume,
allontanato per sempre il senso di colpa.
Ma non l’ho fatto oggi a pranzo.
Per proteggerti, non l’avrei mai fatto.
Ti sfiancava questo mio tacere,
il nutrire con un grave silenzio
le tue più angoscianti paure.
Così eri convinto ti provocassi.
Vuoi farmi impazzire dicevi
con la gola chiusa dalla rabbia
vuoi darmi la colpa di tutto,
mettermi in croce, e te la prendevi
coi mobili, strappavi i libri,
gettavi per aria le posate.
Mi ricordavi la stessa foga
violenta con cui mi imponevi
di rinunciare al corpo. Lo stesso
per cui ora ti strazi e non ti rassegni
d’averlo perso. Così fragile tu
nel non saper lasciare andare i morti.
C’erano albe piene di nebbia
in cui restavi in attesa sul balcone
per ore intento a tormentarti.
Ogni volta ti sembrava scorgere
una figura avanzare in quell’aria
densa prima della luce – il contorno
sbiadito di chi più non c’era.
Di scatto rientravi, con gli occhi impastati
gridavi al soffitto Lo sapevo già!
È venuto a prendermi nel sonno:
per me sta arrivando da lontano.
Con entrambe le mani proteggevi
la testa come da una minaccia
incombente. Allora compatirti
in quella misera, delirante follia,
avvertire a un tratto tutta quanta
la piccolezza era l’unico modo
che mi restava per continuare ad amarti.
Tornavi piccolo in quell’orrore
di mani che ti toccavano nel sonno,
di voci a chiamarti da un altro mondo.
Minuscolo tu, quasi invisibile
nell’ora che più ti addolorava.
Mi sembra di vederli tutti qui
i corpi che abbiamo seppellito,
qui a chiedere di spegnere la luce,
qui a tentare una rinascita.
E poi tremavi, sbiadivi piano
finché il sonno ti riprendeva,
benefica interruzione del dolore.
Non è niente ti sussurravo. Con la mano
ti asciugavo la fronte atterrita e intanto
ascoltavo la vita riprendere
lenta nel suo ventre gonfio di madre.
Così distante da ciò che in noi si consumava.
Perché tornare indietro era impossibile
provammo a fare come se nulla
fosse mai accaduto. Sulla tavola
le posate venivano sistemate come allora,
i gesti apparentemente disinvolti
in larghi movimenti di braccia,
gli abiti ordinati per stagione
affinché non tradissero l’immutare
del tempo – le porte aperte ad abbattere
confini. Noi due distanze più vicine
nel dramma della perdita imparammo
l’arte di simulare la normalità:
seguire riti che tramortissero
il dolore, tabelle di salvezza
da consultare nei picchi del male.
Capire persino di non amarci
ma continuare a fingere per non soffrire.
Supporlo qui tra le cose umane
era la condanna per chi come noi
non poteva dimenticare. L’oblio
promesso dal dolore era la menzogna
più grande delle nostre vite. Nulla
sarebbe arrivato a consolare, nulla
a quietare il ricordo. Nulla a dirci
che potevamo continuare senza di lui.
Eppure a volte ci piaceva immaginare
un miraggio di redenzione, un segno
piano dall’altrove a liberarci
dal suo presentissimo fantasma.
Mi pare di non sentirla più, la sua voce
e questo ti calmava l’ansia sotto la pelle
per un attimo. Solo fino a quando,
col terrore mosso che annuncia il crollo,
quella voce non la risentivi
squillare viva nella mia gola.
Avevamo tappezzato le pareti
di casa col suo volto di cristallo
come si faceva nelle dimore
dei nostri antenati. Sugli altari
impigriti mille occhi a trapassare
il vuoto ed era come conoscerli
tutti quei morti di cent’anni
invischiati nella vita come
vecchissime radici nodose.
A chiunque arrivasse lo indicavamo
come la parte migliore dei nostri giorni.
Come se ancora fosse lì e da nessuna parte.
Sulla credenza ben in vista ma in nessun’altra
porzione di cielo. Così ci illudevamo
di poterci sottrarre alla colpa.
Era così prepotente la cifra
della sua assenza da riaffiorare
in ogni movimento quotidiano.
Il gesto di scrutarsi la fronte allo specchio,
la cadenza delle posate sopra
il piatto, il modulare una frase,
una carezza, schiudere gli occhi
al risveglio, articolare in un certo
modo il respiro: erano talmente
suoi da non capire dove lui
finisse e dove iniziassimo noi.
Dove si trovasse il confine, dove
preservare ancora i ruoli. Per molto tempo
tacemmo l’unica verità di quei
giorni – e cioè che col perderlo
avevamo iniziato a perdere
qualcosa di noi stessi.
Regredire a puro elemento naturale
per lui significò acquisire un vantaggio
incalcolabile sulle nostre vite.
Rimanere qui voleva dire
limitarsi a uno spazio, esaudire
i giorni fino a non ricordarne il nome.
Chiudere il cerchio senza sapere
dove il principio, dove la fine.
Ma per lui, che era tornato essere in potenza,
cosa significassero davvero i luoghi,
il senso dei giorni, la natura
intima di tutto ciò che si compie
– non aveva più alcuna importanza.
La sua fortuna era poter accadere
in qualsiasi forma ora volesse,
presagio luminoso di un’attesa rovina.
A questo stato di cose noi
non potevamo ribellarci, non più.
Perché sotto forma d’acqua, di terra,
di luce e di ombra, di bestia o corteccia,
da ora in poi avrebbe sempre trovato il modo
per ritornare qui. E chiederci il conto.
Capitavano giorni di salvezza
in cui era concesso dimenticare.
Allora scrutavamo i nostri corpi
nuovi come bestie che presentono
col fiato la minaccia. A tentoni
ne perlustravamo le pieghe,
gli spigoli vivi, evitav...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Roberta Dapunt
  4. DOVE NON SIAMO STATI
  5. La misura dello strappo
  6. Il paniere sul balcone
  7. Ciuriddia
  8. Dove non siamo stati
  9. Nota critica. di Alberto Bertoni
  10. Copyright