In Timore e tremore, Kierkegaard parla di Abramo come del più luminoso esempio di cavaliere della fede: di una persona, cioè, che si abbandona senza riserve nelle mani di Dio confidando di riceverne il senso della propria vita. Ciò che Dio chiede ad Abramo – il sacrificio del suo unico, amatissimo figlio, che di quello stesso Dio era stato un dono – è assurdo, ma Abramo non esita, non dubita, agisce nella serena certezza che Dio gli concederà la fortuna e la numerosa progenie che gli ha promesso.
È un’idea molto forte, che ha ampie applicazioni anche per chi non condivida la fede religiosa di Abramo e di Kierkegaard. È lo stesso Kierkegaard a suggerircelo: i suoi esempi, infatti, chiamano spesso in causa non direttamente la fede ma l’amore – un sentimento e un rapporto in cui possiamo vedere una versione simmetrica e democratica di quel che Abramo prova per il suo Dio.
Chi pretende di amare un altro per quanto di oggettivo l’altro ha da offrire – la sua bellezza, la sua intelligenza, la sua cultura, la sua condizione sociale o economica – sta trattandolo come un oggetto: il suo è un desiderio di possesso che, sebbene più intenso e profondo, non è diverso da quello di possedere un vestito o una lavatrice. E la sua convivenza con l’altro, su tali basi, sarà di natura strumentale e manipolativa, né più né meno che con un vestito o una lavatrice. Nonostante le pretese, niente di tutto ciò avrà a che fare con l’amore.
Si ama un altro quando lo si incontra come un soggetto, come un serbatoio di potenzialità pronte a sorprenderci, nel bene e nel male, e quando si consegnano le chiavi della propria esistenza a questo soggetto, che le imprimerà una direzione, un senso non prevedibili adesso, collocati in un futuro cui ci si abbandona. Nei casi migliori, di amore corrisposto (che suggerivo parlando di simmetria e democrazia), al futuro ci si abbandona insieme, vivendosi reciprocamente come soggetti.
Ho detto che molti esempi di Kierkegaard chiamano in causa l’amore e non direttamente la fede. Questo perché non esiste solo la fede religiosa, ed è lecito dire che chi ama un altro ha anche fede in lui (o lei), che sono due espressioni diverse di uno stesso contenuto. Così come si può dire che molti hanno questo sentimento e rapporto con un ideale, un progetto, una causa: che hanno fede nella giustizia sociale, nell’umanità o nell’arte (o le amano) precisamente nel senso di abbandonarvisi e aspettarsi di riceverne il senso della propria vita.
State guidando e a qualche centinaio di metri da voi c’è una curva; come dovete affrontarla? Primo, allargatevi leggermente pur rimanendo nella vostra corsia (cioè impostate la curva). Secondo, frenate, anche con decisione, mentre siete ancora in rettilineo, per ridurre la velocità. Terzo, sterzate con continuità, senza strappi. Quarto, arrivati all’apice della curva, cominciate ad accelerare in modo costante e progressivo, per mantenere stabile il mezzo (automobile o motocicletta) ed evitare slittamenti.
A prima vista, potrebbe sembrare un comportamento controintuitivo. In rettilineo si va forte, si potrebbe pensare, e in curva si va più piano; quindi in rettilineo si schiaccia l’acceleratore e in curva si frena. Se però si procedesse così, si finirebbe regolarmente contro un muro. Frenare in curva ci farebbe perdere il controllo della guida. La curva va anticipata: quando ci si arriva, il mezzo deve essere già nelle condizioni ideali per affrontarla; quando si è dentro la curva, il mezzo deve essere già nelle condizioni ideali per proseguire oltre, sul rettilineo che segue.
Il nostro percorso esistenziale comprende molte curve. Ci sono cambi di residenza e di impegni lavorativi, slanci e crisi sentimentali, malattie e disagi: un gran numero di eventi e situazioni che interrompono il quieto tran tran delle nostre abitudini per immetterci in un nuovo rettilineo, in una nuova routine. Spesso arriviamo a queste svolte soprappensiero, con la velocità acquisita in precedenza, sospinti dal pilota automatico, quindi rimaniamo sorpresi dal repentino mutamento di direzione e rallentiamo, indugiando in una condizione di attività ridotta proprio quando avremmo bisogno di tutte le nostre energie e di tutta la nostra iniziativa e talvolta sbandando in modo clamoroso. Dovremmo imparare ad anticipare le curve, a prepararle, e preparare noi stessi, quando ancora non sono iniziate, quando le scorgiamo da lontano: rallentare nel nostro corso per riflettere su quale dovrà essere la prossima mossa, il comportamento da attuare in futuro, e poi, quando la curva è cominciata, percorrerla con foga, mordere il terreno, infilarci nella svolta che il destino ci ha riservato senza indugi o titubanze – perché indugi e titubanze li abbiamo attraversati e risolti prima, quando la curva era ancora all’orizzonte.
Si obietterà che molti eventi e situazioni ci colgono effettivamente di sorpresa, che è impossibile anticiparli. Rispondo che, se è impossibile anticiparli nel dettaglio, non è impossibile prepararsi in generale al loro arrivo.
Dice Aristotele nella Poetica: «È verosimile che accadano anche cose contrarie al verosimile». E Machiavelli, discutendo della fortuna nel Principe, ammonisce:
E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, rovinano li arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta e’ sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini né e’ ripari a tenerla.
Impariamo dunque dal segretario fiorentino: impostiamo le curve della vita prima del tempo, pur se ancora non ne conosciamo esattamente la struttura, levando argini e ripari e addestrandoci al meglio per ogni evenienza. Quando arriveranno, potremo così affrontarle con decisione.
Un centometrista percorre la sua distanza in circa dieci secondi; in questo lasso di tempo respira solo una volta, o addirittura rimane in apnea. Lo stesso vale per altri sport, come il sollevamento pesi e il culturismo. Siccome respirare è necessario per vivere, è chiaro che nessuno potrebbe sottoporsi ad attività (e fatiche) del genere, dette anaerobiche, se non per periodi estremamente limitati. Durante l’attività, lo sportivo va in debito d’ossigeno: investe quello che ha e recupera quando l’attività è terminata.
All’estremo opposto troviamo un maratoneta, che corre per un paio d’ore e per più di quaranta chilometri. Non potrebbe farlo senza respirare costantemente, assumendo ossigeno con regolarità; la sua attività viene detta aerobica.
Restando inteso che ogni genere di esercizio fisico è benefico per l’organismo, i vantaggi conseguiti con attività anaerobiche e aerobiche sono molto diversi. Le prime potenziano in misura talvolta impressionante la massa muscolare (ho parlato di culturisti, ma anche pesisti e centometristi non scherzano); le seconde promuovono invece un fisico esile e longilineo e migliorano lo stato del sistema cardiovascolare e cardiopolmonare. Che cosa impariamo se utilizziamo questi due tipi di attività come metafore?
Alcuni di noi procedono nel lavoro, nello studio, nelle relazioni e negli svaghi in modo anaerobico. Vivono un’esistenza fatta di strappi lancinanti, che bruciano tutte le loro risorse e li lasciano stremati; se non fanno allora ricorso a «additivi chimici», sono costretti a recuperare le energie prima della prossima esplosione. Altri, dopo una fase di «allenamento», trovano una misura che permette loro di sostenere sforzi anche intensi per periodi di lunghezza indefinita, perché durante quei periodi sono in grado di rigenerarsi (in corsa, per così dire) e dunque non sono costretti a sostare; il loro procedere è aerobico. I primi, quando sono coinvolti in attività creative, danno il meglio di sé in situazioni di particolare urgenza, mossi da forti emozioni, da una vena irresistibile o da una scadenza impellente; i secondi creano con metodo e continuità, e tendono ad avere una carriera produttiva (e anche una vita) più lunga. Il mito romantico del genio ispirato ha favorito l’associazione dell’artista con una persona votata ad attività anaerobiche; ma gioverà ricordare che, per la maggior parte della nostra storia, l’artista è stato un artigiano che lavorava su commissione, non diverso – se non per le sue specifiche doti e competenze – da chi praticasse, con quotidiana solerzia, un qualsiasi altro mestiere.
Platone e Aristotele sono d’accordo che molti Stati, forse anche tutti gli Stati esistenti, siano uno di nome e non di fatto: che siano costituiti da fazioni in costante conflitto, quindi di fatto siano non un singolo Stato ma una congerie di Stati distinti e reciprocamente ostili, per esempio uno Stato dei ricchi e uno dei poveri. Entrambi si pongono il problema di come realizzare l’unità dello Stato, e rispondono in modi diversi. Per Platone occorre disintegrare le famiglie biologiche (separando i neonati dai loro genitori) e ricostruire lo Stato come una grande famiglia, in cui ogni cittadino si riferisca agli altri cittadini del genere e dell’età appropriati come a suoi padri, madri, fratelli, sorelle, figli e figlie; qui non discuterò oltre la sua soluzione. Aristotele ritiene invece che lo Stato sia uno nella misura in cui circola fra i suoi membri la philía, solitamente tradotta con «amicizia» ma che potremmo anche rendere con «solidarietà», e che equivale a «volersi bene»: volere il bene l’uno dell’altro. Non è possibile, naturalmente, che tutti vogliano bene a tutti; ma è auspicabile che ciascuno voglia bene a un numero sufficiente di altre persone da costituire una rete di solidarietà che tenga, e con la sua tenuta garantisca l’integrità dello Stato.
La modernità ha rifiutato l’idea aristotelica, sostituendole perlopiù varie forme di contratto sociale: secondo queste teorie, la legittimità e solidità dello Stato si fonderebbero su un contratto (implicito) con cui i cittadini acconsentono a recedere in certa misura dalle loro tendenze personali (dall’aggressività, dall’avidità, dall’ambizione) per garantirsi pace e sicurezza. Si tratta di teorie, però, che nascono gravate da un peccato originale: se può essere vero che a tutti convenga firmare (implicitamente) un contratto che sancisca il quieto vivere, non è vero che a tutti convenga rispettarlo. La possibilità, anzi l’alta probabilità del crimine è inscritta nel concetto stesso di contratto sociale; e non ci stupiremo se il crimine imperversa, a dispetto di leggi che presumono di dare, del contratto che sarebbe nell’interesse comune, versioni sempre più cogenti e dettagliate. Né ci stupiremo se l’imperversare del crimine va di pari passo con la disgregazione della società: con il suo frantumarsi in individui sempre più soli, più disinteressati l’uno dell’altro – l’uno del bene dell’altro. Forse sarebbe il caso di riprendere in esame l’idea di Aristotele, insieme con l’altra sua idea che uno Stato solidale, sorretto da un’intensa circolazione di amicizia, si ottiene preoccupandosi della crescita morale dei cittadini, della loro educazione alla virtù.
Non finisce qui. Platone e Aristotele sono d’accordo che ognuno di noi è a sua volta, in partenza, uno di nome e non di fatto: è una mescolanza di impulsi, appetiti, desideri distinti e reciprocamente ostili (in quanto ciascuno reclama la sua esclusiva soddisfazione), fra i quali si pone, come nello Stato, il problema di stabilire una coerenza, un’unità. Ed entrambi pensano che la soluzione per lo Stato e per l’anima individuale sia la stessa; in particolare, Aristotele pensa che le varie componenti di ciascuna anima debbano imparare a volersi bene.
Nella persona virtuosa e integra, secondo lui, ogni componente ha fiducia in ogni altra: fiducia che l’altra parli anche a suo nome e per il bene del tutto. Quindi la persona agisce in modo sinergico e sintonico e si congratula con sé stessa per quel che ottiene. Per converso, l’anima di una persona viziosa è disgregata: le varie componenti si guardano in cagnesco e spingono in direzioni opposte, dando luogo a comportamenti disfunzionali e autodistruttivi e ai rimpianti che ne sono la naturale conseguenza. Prova evidente di queste diverse condizioni è il fatto che il virtuoso ama passare del tempo con sé stesso, perché si vuole bene e si compiace di quel che fa, ha fatto e farà, mentre il vizioso desidera sempre essere in mezzo al frastuono e alla folla, per dimenticarsi di sé, di quella rissa continua tra fazioni avverse che lo costituisce, e del male che ciascuna fazione fa all’altra e che tutte insieme, con il loro comportamento, fanno alla persona nel suo complesso.