Promettimi che ti ucciderai
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Promettimi che ti ucciderai

Storia dei suicidi di massa alla fine del Terzo Reich

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Promettimi che ti ucciderai

Storia dei suicidi di massa alla fine del Terzo Reich

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Tra le pagine meno note della storia del Terzo Reich c'è quella della straordinaria ondata di suicidi che ha attraversato la Germania nelle ultime fasi della Seconda guerra mondiale. Una vera e propria "epidemia" che ha mietuto vittime non soltanto tra i militari e i gerarchi nazisti (a cominciare da Adolf Hitler) ma soprattutto tra i comuni cittadini.Nei primi mesi del 1945, i casi di annegamento, impiccagione, avvelenamento, che spesso annientarono intere famiglie, divennero così frequenti e capillari da rendere difficile persino contarli. Tormentati dal senso di colpa, ossessionati dagli orrori della guerra, terrorizzati dall'arrivo dell'Armata Rossa, la cui offensiva stava lasciando dietro di sé una scia di sangue, distruzione e violenze, migliaia di tedeschi di ogni età ed estrazione sociale scelsero di rivolgere su se stessi e sui propri cari quella violenza che ormai da troppo tempo era parte della loro realtà quotidiana. A partire dal caso di Demmin, la cittadina della Pomerania dove ha avuto luogo il più grande suicidio di massa della nazione, Florian Huber prova a ricostruire la psicologia di un intero popolo, per rendere ragione di un fenomeno che non ha equivalenti negli altri Paesi falcidiati dalla guerra, e che in Germania ha potuto contare su un particolare combustibile: l'ideologia.Con l'aiuto di preziose testimonianze private, l'autore ci spiega come l'intera parabola del Terzo Reich sia stata un susseguirsi di emozioni travolgenti, di stupefacente intensità, destinate a marchiare indelebilmente l'animo del popolo tedesco. E quando il Reich fu messo in scacco dal nemico, la fine di quel tragico sogno - e il vuoto di speranza che portava con sé - fu per molti davvero impossibile da tollerare.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788858699690
PARTE TERZA

Nel turbine delle emozioni

La Germania ferita

Una domenica di gennaio del 1926, a mezzanotte, Melita Maschmann fu svegliata dai genitori e portata in sala da pranzo, dove c’era una radio, una sorta di scatola di legno dotata di cuffia. La fecero sedere davanti all’apparecchio e, spostandole dal viso i capelli arruffati, le misero la cuffia sulle orecchie. Tra i ronzii delle interferenze, la bambina udì un rumore lontano ma penetrante. I rintocchi di pesanti campane, cupi e severi.
Dalle cuffie arrivava un rimbombo terribile e violento. Mamma e papà avevano le lacrime agli occhi e noi bambini intuimmo in cuor nostro che questa Germania doveva essere un mistero insieme splendido e spaventoso.1
Melita aveva appena compiuto otto anni. I genitori volevano assolutamente farle sentire le campane del duomo di Colonia, che suonavano in nome della Germania perché negli ultimi giorni di quel mese i soldati britannici avevano lasciato la zona di occupazione intorno alla città. Dalla fine della Prima guerra mondiale, la Renania era controllata dalle truppe delle potenze vincitrici, e vaste regioni rimasero nelle mani dei francesi anche dopo quel ritiro parziale. Molti tedeschi vedevano nell’occupazione un riflesso del destino della loro patria dopo la sconfitta del 1918, un destino umiliante, arbitrario e determinato dagli stranieri. Per i Maschmann, che erano una famiglia conservatrice, ciò equivaleva a un’onta personale, perché la madre era originaria di Darmstadt, nell’Assia, appena fuori della zona di occupazione.
La prima volta che Melita e suo fratello l’avevano accompagnata nella sua città natale non andavano ancora a scuola. Quando, sul treno partito dalla Renania, si erano imbattuti nei variopinti soldati britannici, erano fuggiti dallo scompartimento. La madre aveva inculcato loro l’idea che il vergognoso Trattato di Versailles del 1919 avesse distrutto i confini del Paese, che i nemici avessero saccheggiato l’economia e corrotto la cultura. «Nutriva per la Germania un amore incondizionato quanto quello per la sua città natale e i suoi genitori, ma non c’era alcuna gioia in quell’amore.»2 E la donna non si dava pace, perché le discussioni politiche a tutti i livelli della società di Weimar erano intrise dello stesso divorante rancore verso la pace di Versailles. Questo tema ricorre spesso nelle memorie e nei diari dell’epoca.
Fin da piccola, dunque, Melita Maschmann percepì la Germania come un sentimento. Un sentimento tragico e oscuro verso la patria, che le fu trasmesso dai genitori. «Prima ancora di comprendere il significato della parola “Germania”, la amai come qualcosa su cui si stendeva l’ombra di una tristezza misteriosa, come qualcosa di infinitamente caro e vulnerabile.»3
La ferita sanguinante della Germania fu l’esperienza infantile e adolescenziale di un’intera generazione.
Quando, dopo la maturità, Gerhard Starcke iniziò a frequentare l’università di Berlino, alla fine degli anni Venti, portava ancora dentro di sé i segni del clima politico che aveva respirato a casa e a scuola. Anche lui era stato nella Renania occupata con i suoi genitori. A Mannheim, sul ponte sopra il Reno, avevano dovuto farsi perquisire dai soldati coloniali francesi e camminare sulla carreggiata, perché ai tedeschi era proibito l’uso del marciapiede. Un’efficace lezione politica per l’adolescente Gerhard, che così aveva interiorizzato il leitmotiv della sua epoca.
In Germania esisteva un’idea preponderante tanto nella destra quanto nella sinistra: la convinzione che la colpa di OGNI COSA fosse dell’ingiustizia di Versailles. Era in primo luogo su quest’ultima, e in secondo luogo sulla repubblica, che gravava il sospetto generale di dipendere dalla pietà delle potenze vincitrici.4
A scuola, Gerhard aveva imparato il disprezzo per la repubblica dal suo insegnante di tedesco, un ufficiale della riserva. All’università entrò in contatto con alcuni ex studenti, membri anziani della sua confraternita che avevano combattuto in prima linea e passavano le serate bevendo birra e celebrando le idee reazionarie. Ma Gerhard fu anche bersaglio dell’odio dello schieramento opposto. Quando camminava lungo la strada con la fascia e il berretto della confraternita, i rappresentanti della sinistra radicale lo tempestavano di pietre. «La spaccatura del popolo tedesco era profonda fino a questo punto.»5 I due fronti erano concordi soltanto sull’indignazione nei confronti di Versailles e dell’esecrabile «sistema» della democrazia di Weimar.
Con il Trattato di Versailles del 1919, la Repubblica di Weimar si macchiò, agli occhi di molti tedeschi, di un errore fatale. La rivoluzione del novembre 1918, scaturita dalla sconfitta bellica, aveva acceso un profondo risentimento in milioni di soldati che non si consideravano vinti sul campo di battaglia ma traditi dai nemici della patria. Intorno al mito della generazione del fronte si riunirono anche ampie fette della borghesia, che speravano in una rinnovata esperienza comune in trincea. Versailles diventò il simbolo del perfetto nemico immaginario. Le riparazioni, l’occupazione della Renania e, in particolare, la conferma della responsabilità esclusiva della Germania e dei suoi alleati suscitarono tra i tedeschi un odio e una sete di vendetta implacabili. A essere considerati colpevoli non erano soltanto le potenze vincitrici, ma anche coloro che avevano sottoscritto il trattato a nome della repubblica. I tedeschi rivolsero questo astio anche contro se stessi.
L’epoca in cui è nato si trova sotto il segno del folle Trattato di Versailles, che con le sue disposizioni e le sue conseguenze – disoccupazione, asservimento del popolo tedesco e povertà nelle campagne –, è addirittura destinato a scatenare una nuova guerra mondiale.6
È con queste parole che Ilse Cordes inizia il resoconto della vita del suo unico figlio, Hermann-Friedrich Cordes, nato nel 1921. Con uno stile peculiare, che alterna l’amore materno al pathos politico, descrive la vita del ragazzo, esposto agli alti e bassi del suo tempo, alle fiamme dell’odio e al fervore della speranza. Ilse parla di sé in terza persona – «la madre» – e il testo si sofferma più su di lei che su Hermann-Friedrich. L’autrice è la portavoce di una generazione di genitori delusi, animati dal desiderio di un futuro migliore per i loro figli. Tra le righe, tuttavia, si insinuano i teneri ricordi di una madre.
I due sono pressoché inseparabili. Finché lui non è abbastanza grande per andare a scuola, vanno a fare passeggiate ogni giorno, mattina e pomeriggio, conversando come due piccoli amici. E guai a chiunque si azzardi a fare del male alla sua amata madre!7
Hermann-Friedrich Cordes crebbe nell’ambiente militarista coltivato tra le mura domestiche dal padre, il rappresentante di una casa editrice che, dopo il ritorno dal fronte, aveva avuto difficoltà a riadattarsi alla vita civile. Quasi sempre ubriaco, guadagnava ora moltissimo, ora niente. I membri dei corpi franchi Roßbach ed Ehrhardt andavano e venivano come in un covo di cospiratori. Erano uomini minacciosi, ancora giovani, che ripetevano senza sosta le parole «Versailles» e «sistema», lamentandosi della patria ferita. I genitori non cacciavano mai il piccolo Hermann-Friedrich dalla stanza, permettendogli di ascoltare i combattenti defraudati dei frutti della loro lotta. Due milioni di commilitoni caduti. La loro morte non poteva essere stata vana! Prima ancora di studiare le tabelline, il bambino imparò le formule del malumore tedesco.
E così, fin dalla più tenera età, attraverso le cose viste, udite e vissute nella casa dei genitori, il bambino sente crescere dentro di sé, in modo silenzioso e inconsapevole, la volontà di dedicarsi al compito la cui realizzazione sarà il coronamento della sua vita.8
Alle elementari, che frequentò dal 1927, Hermann-Friedrich si azzuffava con i figli dei comunisti. Durante le vacanze ornava il suo castello di sabbia con la bandiera militare nera, bianca e rossa dell’impero. I genitori, seppure entusiasti, si allontanarono sempre di più l’uno dall’altra. Il padre era ubriaco o fuori casa, la madre passava intere giornate a letto. Di tanto in tanto l’ufficiale giudiziario bussava alla porta e se ne andava con un mobile, finché le loro voci echeggiarono tra le pareti nude. Il bambino dovette imparare a fare sacrifici e diventò chiuso e taciturno. «Giorno dopo giorno, madre e figlio rientravano dalla passeggiata nell’appartamento buio e vuoto. Soltanto il conforto di quel piccolo compagno instancabile salvò la donna dalla disperazione.»9
Nonostante i critici anni iniziali e il trauma dell’iperinflazione del 1923, alla metà degli anni Venti la Repubblica di Weimar era riuscita a trovare una certa stabilità economica e politica. In quel periodo, inoltre, si fecero passi importanti per condurre il Paese fuori dall’isolamento in cui era precipitato sul piano della politica estera. Dopo il crack del 1929, però, la nazione si ritrovò di fronte al più grave sconvolgimento che l’economia mondiale avesse mai registrato.
Il signor Maschmann aveva affisso un cartello alla porta di casa: «No mendicanti, no venditori!». Tuttavia i mendicanti suonavano ugualmente il campanello, mentre da fuori arrivavano le melodie dei musicisti di strada affamati. «Non era possibile dimenticare neppure per un istante che eravamo nati in un Paese povero.»10 Di tanto in tanto vedevano il figlio dei vicini nel cortile sul retro, ubriaco fradicio. Era disoccupato e spendeva il sussidio nei bar. Un giorno, Melita lo incontrò sulla strada. Scalzo, con lo sguardo vacuo, un lacero cappotto militare e un cagnolino in braccio. Di lì a qualche ora, la bambina udì un urlo. La vicina aveva trovato il figlio in cortile, con le vene tagliate.
Il padre di Gerhard Starcke, che gestiva un’azienda artigianale e risparmiava per realizzare il sogno piccolo borghese di una casa di proprietà, era terrorizzato all’idea di perdere ogni cosa. «Quello fu un periodo atroce per la Germania, un periodo in cui molte persone, alcune delle quali per nulla sprovvedute, erano così disperate da cercare un’ultima amara via di fuga nel rubinetto del gas e nel cappio al collo.»11 A poco a poco, le prospettive svanirono. Gerhard, che studiava tedesco e storia, notò che il nazionalismo radicale stava prendendo piede tra gli universitari. Sviluppò una visione tutta sua di come uscire da quella situazione e non fu immune al fascino dell’ideale della vita in trincea, della promessa di una coesione eroica. «Tutti per uno, uno per tutti!»
Renate Finkh di Ulma era la minore di tre fratelli. All’inizio degli anni Trenta era troppo piccola per capire come la guerra avesse estraniato i suoi genitori, per comprendere perché il padre le incutesse paura anziché infonderle fiducia e perché l’amata madre fosse così cagionevole di salute. Nessuno aveva mai tempo per Renate. Fu questa la sua prima sensazione conscia, risalente a quando aveva quattro anni: «Ora so di essere sola».12 Si sentiva ripetere senza sosta che non c’erano soldi per la scuola, per il tram, per il burro. Gioì quando vide che altri bambini se la passavano ancora peggio. Alcuni comparivano davanti alla porta dei Finkh, aggrappati alle gonne delle madri, donne brutte, scheletriche e grigie, che per giunta puzzavano. Renate guardava la cameriera mettere gli avanzi nelle pentole che portavano con sé. «I poveri, però, avevano un che di minaccioso. Era una sensazione sempre più forte.»13
Renate rabbrividiva al solo vederli. Avevano un’aria sinistra quando camminavano nelle vie in lunghe file. La bambina li vedeva dalla finestra.
Gli uomini indossavano berretti con la visiera e avevano un’espressione folle sul viso. Alcune donne spingevano carrozzine nere, dalle ruote alte. Avevano capelli untuosi e occhi stranamente grandi. Una sera arrivarono da tutte le direzioni e si riunirono nel Lindenhof.14
Comunisti, spiegò sua sorella. In quel momento, la madre fece irruzione nella cameretta e spense la luce. Da fuori arrivò una musica strana e commovente. Si udì uno scoppiettio, seguito da un urlo. Renate si nascose sotto le coperte.
Gli stranieri che andavano in Germania in quel periodo restavano colpiti dalle contraddizioni e dalle intense passioni della vita pubblica. Le fiamme ardevano soprattutto a Berlino. Sefton Delmer, un cittadino britannico di venticinque anni, era nato e cresciuto nella capitale e aveva imparato prima il tedesco e poi l’inglese. Figlio di un professore australiano, aveva trascorso i primi anni della guerra nelle scuole di Berlino prima di trasferirsi in Inghilterra con la famiglia nel 1917. Allo scoppio del conflitto, aveva avuto la sgradevole sensazione di vivere in un ambiente troppo vicino agli eccessi dell’aggressività nazionalista. Tuttavia la Germania non aveva smesso di affascinarlo. Quando tornò a Berlino nel settembre del 1928 per conto di un giornale inglese, trovò tutto ciò che un reporter poteva desiderare. «Sesso, omicidi, intrighi politici, denaro, segreti e spargimenti di sangue. Soprattutto spargimenti di sangue.»15 L’antagonismo tra destra e sinistra si era inasprito fino a sfociare in una rivalità acerrima, con scontri chiassosi e cruenti tra i militanti. Le fasce nazionaliste della popolazione ritenevano, secondo Delmer, che la guerra non fosse finita e consideravano il Trattato di Versailles un armistizio durante il quale combattere il nemico dall’interno.
Delmer ricorda la simultanea ricerca del piacere e la concupiscenza giovanile descrivendole come una sfrenata celebrazione pagana. «Se ora ci ripenso, vedo il folle vortice della Berlino del 1928 e del 1929 come una sorta di gozzoviglia pompeiana alla vigilia dell’eruzione del Vesuvio.»16
Due anni dopo, la francese Stéphane Roussel approdò a Berlino come corrispondente estera del giornale «Le Matin». Aveva ottenuto il lavoro per caso, tramite un conoscente, e non sapeva nulla della Germania. Nella capitale si ritrovò esposta a una miriade di impressioni e informazioni diffi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Promettimi che ti ucciderai
  4. PARTE PRIMA. Quattro giorni a Demmin
  5. PARTE SECONDA. Demmin è ovunque
  6. PARTE TERZA. Nel turbine delle emozioni
  7. PARTE QUARTA. Il vortice del silenzio
  8. Note
  9. Bibliografia
  10. Copyright