Dove crollano i sogni (Nero Rizzoli)
eBook - ePub

Dove crollano i sogni (Nero Rizzoli)

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Dove crollano i sogni (Nero Rizzoli)

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

NERO RIZZOLI È LA NUOVA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. Dalla periferia della Certosa il mare non si vede. Lì la gente tira a campare tra i capannoni dismessi della vecchia Genova operaia che ora non c'è più, all'ombra del grande ponte autostradale su cui s'infrange ogni occasione di riscatto. A Certosa non c'è nessun posto al sole per la diciassettenne Blondi che abita in un buco d'appartamento insieme alla madre, single trasandata che quando non lavora come infermiera in un ospizio, trascorre le serate a bere. L'esistenza della ragazza è tutta lì, inchiodata all'asfalto, tra le panchine dei giardinetti e il bar di Carmine, ritrovo degli ultras della Sampdoria, a bere e fumare con improbabili amici. Blondi ha una storia con il bello e inconcludente Cris, che sogna di comprarsi una moto e intanto passa da una canna a un "tirello" di ero. Lei, di sogni, ne ha altri. Vuole fuggire in Costa Rica per ricominciare. Servono i soldi, però. E l'occasione giusta. Gli scrupoli, invece, si dimenticano in fretta quando si è disposti a tutto - ma proprio a tutto - pur di scappare. Bruno Morchio riporta il noir nei sobborghi del Nord Italia, nelle strade dannate di quel Sud del Nord di cui Genova è la capitale. Con una lingua cruda e nuda stila la confessione in prima persona di un'umanità senza innocenza e senza speranza, per la quale nessun assalto al cielo è più possibile, e il vivere è come terra che trema, e frana, sotto i piedi.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Dove crollano i sogni (Nero Rizzoli) di Bruno Morchio in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Littérature e Littérature policière et sur le mystère. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831800136

1

Tutti nel quartiere mi chiamano Blondi, ma il mio vero nome è Ramona. La mamma ripete di averlo scelto perché le ricordava una bella collega dell’Ecuador a cui era molto affezionata, ma io non l’ho mai bevuta. Le ecuadoriane hanno la pelle scura e i capelli neri e di somigliare a una come me se lo sognano di notte.
La mamma lavora in una casa di riposo con la qualifica di OSS, che sta per operatrice socio-sanitaria, una specie di infermiera a cui sono rifilati i compiti più sfigati, tipo portare la padella ai vecchi, lavarli e cambiargli le lenzuola. Glielo ripeto sempre: «Il tuo lavoro non vuole farlo nessuno e dovrebbero darti il doppio degli altri». Invece la sua paga è la più bassa di tutte.
Sul mio nome ho due teorie: la prima è che l’ha sentito in una telenovela. Quando sono nata io le soap opera andavano di moda ed erano piene di Ramone, Consuelo, Dolores e Conchite; la seconda, un po’ più contorta, è la mia preferita, specie nei giorni quando sono giù di corda.
Il fatto è che non ho mai conosciuto mio padre. La mamma giura che era un marinaio e lo racconta come il grande amore della sua vita. La loro storia è durata poco, giusto il tempo di metterla incinta e imbarcarsi e non si è più fatto sentire. A me piace pensare che era un bell’uomo, si chiamava Ramon e proveniva da una di quelle isole dei Tropici con le palme, le spiagge bianche e uno sconfinato mare azzurro da sballo. In dote mi ha lasciato due cose: la bellezza e il suo nome. Nelle fotografie di quando ero piccola si vede una bambola con gli occhi azzurri e una cascata di boccoli d’oro; ora che sono cresciuta, i ragazzi del quartiere mi lumano e si trattengono dal fischiarmi dietro solo per paura di Cris, il mio ragazzo, che è un tipo geloso e basta niente per farlo incazzare.
Non è mica facile rassegnarsi all’idea di non avere avuto un padre. Un conto è rimanere orfani, come è successo a Cris, che ha perso la madre da bambino: sarà pure doloroso, ma i ricordi e l’odore ti restano dentro e diventano parte di te; un altro è sapere che sei stata un incidente, uno scherzo del destino. È come essere monchi, ti manca un pezzo e questo ti fa sentire che vali meno di zero. Ogni volta che penso a mio padre mi prende una rabbia… Anche perché la vecchia − che poi ha appena trentotto anni − non ha mai voluto dirmi come si chiamava. La cosa è strana, ma lei sostiene di farlo per il mio bene: non vuole che mi metta a cercarlo, lui non sa nemmeno che io esisto e, se mai lo trovassi, andrei incontro a una seconda delusione.
Sono nata e cresciuta nel quartiere di Certosa, al capolinea della metropolitana, e dalla valle del Polcevera non mi sono mai mossa. Abito al quinto piano di un palazzo popolare costruito prima della guerra che sta cadendo a pezzi, senza ascensore e con l’intonaco tutto scrostato. L’appartamento è un buco composto da cucina, bagno e due camere, la mia e quella della mamma; la cucina è abbastanza grande e luminosa e ci abbiamo sistemato un divano per vedere la tele. Per fortuna l’affitto è basso, e comunque la vecchia dice che non possiamo permetterci di meglio.
Quando non hai conosciuto altro che sacrifici e rinunce, finisci per schifare la vita e odiare la speranza. La bellezza e la felicità ti spaventano, non fanno per te, e il solo modo per non sentirne il richiamo è mangiare a pranzo e cena pane e rassegnazione.
Nel quartiere i palazzi sono tutti uguali, almeno fino al viadotto della ferrovia, oltre il quale corre la strada principale che risale la valle. Lì ci sono edifici più antichi, con le facciate restaurate, i poggioli e i portoni che luccicano come quelli del centro città, ma la gente che ci abita non è tanto diversa da noi. Molti sono operai e impiegati in pensione, altri vengono dal Sudamerica e lavorano nell’edilizia, mentre le donne fanno le badanti o le colf.
Il venerdì e il sabato con gli amici prendiamo la metro o uno scooter e andiamo a Genova a girare per le strade del centro e riempirci gli occhi davanti alle vetrine dei negozi più fighi, quelli delle griffe. Poi la sera scendiamo nei vicoli a ridosso del porto dove si incontrano i ragazzi della movida. Qualcuno si fa una canna, qualcun altro beve birra e chupiti fino a ubriacarsi e cacciare l’anima. Però a me piace e ci vado per vedere il mare. Non c’è niente di più figo che fissare il mare di notte dopo due tiri di ganja. Dal mio quartiere non si vede altro che il ponte dell’autostrada e il torrente, un rigagnolo d’acqua marrone che quando piove si gonfia e fa davvero paura. Il mare è troppo lontano e posso solo immaginarlo, come mio padre.
Ah, il mare! Quella distesa grandissima, chiusa dalla striscia dell’orizzonte, che di giorno ruba i colori al cielo e di notte si lascia solo sentire, col suono delle onde che accarezza l’anima e mette voglia di piangere. Quando ce l’ho davanti mi sembra che ogni cosa per me diventi possibile, perché a due passi, oltre quella linea blu, c’è il mondo che mi aspetta. Città e paesi dove batte il cuore della vita, i sogni diventano veri e la felicità smette di essere una bugia che ci raccontiamo per consolarci. Bisogna solo trovare il coraggio di raggiungerlo, l’orizzonte, e scavalcarlo.
I vecchi del quartiere raccontano che una volta la valle era piena di fabbriche, ma questo accadeva molto prima che io nascessi. Ora sono rimasti solo gli scheletri vuoti degli stabilimenti e tanti capannoni colorati dove trovi qualunque cosa: mobili, auto, articoli sportivi, abbigliamento, parrucchiere, centro benessere, generi alimentari, bricolage, macchine da lavoro, toelettatura per cani e perfino case prefabbricate. Averci il cash, sarebbe una pacchia. Il fatto è che a soldi sono messa da schifo: non ho un lavoro e nemmeno un diploma.
A scuola mi sono sempre annoiata a morte. Studiare non mi piaceva, così dopo le medie ho frequentato ragioneria e mi hanno steccata. La mamma ha provato a iscrivermi a un istituto professionale per ottici, ma a metà del primo anno sono rimasta incinta e si sa come vanno queste cose: quando sono uscita dall’ospedale stavo talmente a pezzi che la vecchia non se l’è sentita di rimandarmi a scuola. Il prossimo anno dovrei cominciare un corso per parrucchiera, ma non sono tanto dell’idea. Per il mio futuro ho altri progetti.
Cris è il mio primo, vero ragazzo e stiamo insieme da quasi tre anni. Sono rimasta incinta per colpa sua: l’abbiamo fatto senza protezione, s’era rollato non so quante canne e mi è venuto dentro come un animale. Io l’ho insultato, l’ho preso a schiaffi e lui, nonostante sia un tipo tosto, non ha fiatato perché sapeva d’essere in torto. Per noi scopare non è un problema, lo facciamo da quando usciamo insieme, ma gli ho sempre detto di stare attento. Abitiamo vicini e abbiamo ogni giorno la casa tutta per noi: la mamma esce dal lavoro alle cinque e suo padre, che fa il bidello alle elementari, quando finisce il turno s’infila nel bar sotto casa e si attacca ai videopoker. A quelle macchinette ha perso una fortuna e, se non fosse per il fratello, lo zio Armando, a quest’ora si sarebbe già venduto l’appartamento.
Cristian ha ventitré anni e da quando era piccolo nel quartiere l’hanno sempre chiamato Cris, per fare prima. Neanche a lui piace studiare e ha tentato due volte un istituto per meccanici senza mai arrivare alla fine dell’anno. Ogni settimana va a trovare lo zio Armando, titolare d’una falegnameria nella valle, gli ripete la solfa strappalacrime di quanto gli manca la mamma e poi batte cassa. È l’unico nipote che ha e, dopo avergli fatto la ramanzina, lo zio finisce per cedere e gli molla dieci o quindici euro.
Armando è il più grande dei due fratelli, non si è mai sposato, lavora dodici ore al giorno e con la segheria ha accumulato una fortuna. A forza di stressarsi l’anno scorso gli è venuto un infarto e per poco ci lascia la pelle. Lo hanno preso per i capelli ma, appena s’è rimesso in piedi, ha ricominciato la stessa vita di prima.
Cris certi pericoli non li corre. Ha lavorato nella falegnameria per qualche settimana, poi si è licenziato. Diceva che fare l’operaio non gli piaceva, ma la verità è che la notte tirava tardi e al mattino si presentava in fabbrica alle undici suonate, si rollava una canna dietro l’altra e non faceva che combinare casini. Per colpa sua ci è mancato poco che un operaio ci lasciasse un braccio nella sega elettrica. Certe volte non si presentava neppure. Era stato assunto come apprendista nel mese di gennaio, faceva un freddo porco e, piuttosto che montare sul Kymco e affrontare la strada sul fiume per raggiungere la fabbrica, preferiva venire a infilarsi nel mio letto caldo.
È figlio unico come me e gli è rimasto solo suo padre, anche se un padre così è meglio perderlo che trovarlo: porta un nome insignificante, Franco, va in giro vestito come un pezzente, odora di fumo stantio e ha le unghie sporche ingiallite dalla nicotina.
La mamma di Cris si chiamava Eleonora e lui dice di ricordarla bene. L’ha persa quando aveva quattro anni e a volte mi domando se la ricordi davvero o se lo racconti tanto per consolarsi. Certo la casa è piena di fotografie: Eleonora in abito da sposa a fianco del marito, Eleonora con in braccio Cris appena nato, Eleonora alla guida di una macchina sportiva. Doveva essere una donna in gamba, peccato che se ne sia andata così presto. È cresciuto con tutte quelle foto davanti agli occhi e deve averla in mente per forza, ma chissà se conserva l’immagine di lei in carne e ossa. Magari senza saperlo gli è rimasto nella memoria il sapore del suo latte o il profumo della sua pelle. Sarebbe bello se ci portassimo dietro i ricordi di quando eravamo piccoli, anche senza saperlo. Comunque con lui non si può approfondire perché parlare di sua madre lo rende nervoso e cambia subito discorso. Certe volte ho l’impressione che il solo pensiero lo faccia incazzare e, anziché prendersela con quel buono a niente di Franco, sembra avercela con lei come se lo avesse abbandonato. Ma che colpa aveva quella poveretta se si è ammalata ed è morta?
Insomma, stare con Cris non è facile e ci vuole la mia pazienza per sopportarlo. È pieno di difetti, si strina di hashish ed erba, qualche volta sniffa di nascosto anche l’ero di Bobo, il senegalese che smercia droga nel quartiere, ed è sempre pronto a fare a botte per qualunque stronzata, specialmente con negri e africani, che secondo lui puzzano di sudore, trattano le mogli da schiave e ci rubano il lavoro. Le prime due ragioni sono sacrosante, ma sulla terza farebbe meglio a stare zitto, perché a lui, che non fa un cazzo dal mattino alla sera, il lavoro non lo ruberà mai nessuno.
E poi ha una fissa col sesso: sono tre anni che scopiamo e ancora non si è rassegnato. Ogni volta mi chiede di farlo “come Sodoma e Gomorra” e poi ride come un balordo, ma io gli rispondo che se lo può scordare. Deve averlo sentito da bambino al catechismo, quando ha fatto la comunione, e l’idea lo ha eccitato un casino e non gli è più uscita di testa. Una volta che mi scopava da dietro ha provato a metterlo a tradimento nel buco sbagliato, ma anche se è forte come un toro gli ho tirato un pestone sui coglioni e ha dovuto mollarmi. Gli ho fatto male e s’è incazzato un casino, ma almeno non ci ha più riprovato. Dice che sono una stupida, che mi piacerebbe di brutto, ma io non ci credo e quando gli domando cosa ci trova di così arrapante risponde che non deve fare marcia indietro né mettere il domopak, perché i bambini non escono dal culo.
«I bambini no, ma gli stronzi come te sì» gli rispondo.
Forse la vecchia ha ragione a insistere: devo mollarlo.
«Cosa ci caverai di buono da una leggera come quella?»
E se prima non le piaceva, dopo la faccenda dell’aborto gli ha dichiarato guerra e non vuole più sentirlo nominare. Il giorno che l’ha saputo ha cominciato a mettermi alle strette: «O lo pianti o ti butto fuori di casa!».
Ora lo chiama “il bastardo” e non vuole che metta piede in casa nostra.
Sì, l’aborto è stata una gran brutta storia. Cris si sentiva in colpa e se n’è venuto fuori dicendo che, se volevo, potevamo tenere il bambino. Non so se lo pensasse davvero, ma mi è sembrato un atto di responsabilità e un segno d’amore nei miei confronti. Quando l’ho raccontato alla mamma, convinta che si sarebbe sciolta e avrebbe cambiato idea su di lui, ha svalvolato e s’è messa a urlare come una furia. Ha detto che se Cris si comportava da tossico debosciato, io ero un’oca senza cervello e col cavolo che lei ci avrebbe mantenuti tutti e tre col suo stipendio da fame. E il mattino dopo mi ha portato in ospedale ad abortire.
La verità però è semplice: anche se non brilla per intelligenza e in qualche occasione sembra proprio rinco, Cris è un bravo ragazzo e a suo modo mi vuole bene. È il tipo più figo che abbia mai incontrato: alto, atletico, le spalle e le braccia ricoperte di tatuaggi, ha due occhi neri e profondi che quando mi guardano mi fanno sentire bellissima. E poi tra noi c’è intesa chimica e scopiamo troppo bene. Non capita tutti i giorni di trovare uno così. Alle due gattemorte, la Ketty e la Sabri, fa un sangue esagerato e non aspettano altro che io lo molli per saltargli addosso. Da Carmine, il bar degli ultras sampdoriani dove ci becchiamo il pomeriggio, è visto come un dio e finché sto con lui anch’io sono considerata e rispettata.
Tra qualche mese compirò diciott’anni e a quel punto deciderò le sorti della mia vita. Può essere che decida di farlo “come Sodoma e Gomorra”, oppure che dia retta alla mamma: lo pianto e me ne trovo un altro. Ma c’è una cosa davvero importante a cui non rinuncerò mai.
È una storia vecchia, cominciata alla vigilia di Capodanno di due anni fa per colpa della Ketty. Da quel momento non ho fatto che pensare al giorno in cui sarei diventata maggiorenne. E, ora che sta per arrivare, non voglio certo perdere la mia occasione. È il sogno che mi ossessiona, e sono pronta a tutto pur di realizzarlo.

2

Due anni fa, la mattina di San Silvestro, la Ketty mi ha svegliato di soprassalto telefonando verso le dieci, un’ora strana per lei che di solito dorme fino a mezzogiorno.
Non era stata una nottata facile, la mamma era in ferie e, come succede quando non va al lavoro, si era brasata davanti alla tele e aveva vuotato una bottiglia di rosso, quello in offerta a due euro al discount. Si era addormentata sul divano e, verso le cinque, l’ho sentita in bagno che cacciava l’anima. Mi sono alzata dal letto, ho attraversato come uno zombi la cucina e l’odore del vomito mi ha preso alla gola. Sul pavimento c’era un lago di vino rancido, uno schifo che levati. L’ho aiutata a ripulirsi, ho sciolto una bustina di granuli in un bicchiere d’acqua e gliel’ho data da bere. Poi l’ho spogliata e, dopo averla aiutata a infilare la camicia da notte, l’ho messa a letto come se io fossi la madre e lei la figlia.
Mi spiava con aria mortificata e quell’espressione è stata la cosa che più mi ha fatto schiumare. Pulire il pavimento col detersivo profumato al limone, vedere allo specchio la mia faccia sconvolta, con gli occhi gonfi e i capelli arruffati, non mi è pesato quanto il suo sguardo da cane randagio incollato addosso.
Sei una donna adulta, cazzo, se ti dai una sistemata fai ancora la tua porca figura e potresti trovarti un uomo decente che ti porta al cinema o ti offre una vacanza in qualche bella città: oggi con pochi euro prenoti un last minute e vai in capo al mondo. Macché. In diciott’anni l’unico che ha saputo mettersi in casa è stato un alcolizzato in cassa integrazione che le rubava i soldi dal portafoglio per berseli al bar, uno fuori di testa, geloso marcio che, quando la sera tornava a casa storto, la picchiava senza motivo. Io avevo sei anni e, anche se lui non mi ha mai toccata, prima di addormentarmi prega...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dove crollano i sogni
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. Epilogo
  28. Ringraziamenti
  29. Copyright