Operazione Raspberry
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Operazione Raspberry

La battaglia dell'Atlantico e il gioco segreto delle donne che sfidarono Hitler

  1. 400 pagine
  2. Italian
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Operazione Raspberry

La battaglia dell'Atlantico e il gioco segreto delle donne che sfidarono Hitler

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Nel 1941 gli Alleati stanno perdendo la guerra, almeno nell'Atlantico. Migliaia di navi partono dal Nord America cariche di rifornimenti per il Regno Unito, ma viveri e munizioni non arrivano a destinazione: i convogli vengono sistematicamente intercettati e distrutti dagli U-Boot, i temibili sottomarini dei nazisti. La Gran Bretagna è ormai allo stremo, ma il primo ministro Winston Churchill non vuole che la popolazione ne sia informata. I vertici politici e militari mentono sul numero di imbarcazioni affondate e su quello dei morti, pur sapendo che manca poco alla resa. Questione di mesi; di settimane, forse. Poi, agli inizi dell'anno successivo, qualcosa cambia. Dieci giovani donne - la più piccola ha solo diciassette anni - agli ordini di un capitano in congedo della Marina danno vita alla Western Approaches Tactical Unit: un'unità segreta incaricata di arginare gli attacchi dei sommergibilisti tedeschi. Come? Attraverso simulazioni e giochi di guerra. A Liverpool, quelle eroine dimenticate passano giorni e notti a studiare le tattiche degli U-Boot assieme al loro ufficiale per scoprire come ribaltare le sorti del conflitto nell'oceano, e forse nel mondo intero.
Attraverso una narrazione che non ha nulla da invidiare a un romanzo, Simon Parkin ricostruisce una delle vicende meno note della Seconda guerra mondiale, mai raccontata con così tanta attenzione e cura. La resa vivida di protagonisti e situazioni trascina il lettore nel mezzo dell'azione, trasportandolo su una scialuppa fra le onde, dentro lo scafo di un sommergibile in immersione o al tavolo coperto di mappe su cui fu combattuta la più imponente e importante partita a battaglia navale della storia: l'Operazione Raspberry.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831800259
1

L’ultimo rimasto

23 maggio 1945

Gilbert Roberts, ufficiale in congedo della marina britannica divenuto «stratega per giochi di guerra», salì sulla passerella che conduceva al transatlantico. Se non andava errato, l’uomo che gli veniva incontro arrancando per la pesante valigia era Karl Dönitz, grandammiraglio tedesco che ventitré giorni prima – in seguito al suicidio di Adolf Hitler – era diventato il nuovo Reichspräsident, il capo di Stato della Germania nazista.
I due avanzarono fino a fermarsi uno davanti all’altro, sospesi – come per gran parte della guerra – in uno spazio liminale: né terraferma né mare. Per un momento, i cigolii e lo sciabordio della banchina furono gli unici suoni ad animare la scena, immersa nella luce di metà pomeriggio.
Entrambi sembravano indossare uniformi della taglia sbagliata, troppo grandi per loro. Erano state le privazioni, non la moderazione, a far sì che evitassero la pinguedine tipica di chi raggiungeva i vertici della gerarchia militare e gli agi che ne conseguivano. Un’estenuante lotta con la malattia aveva lasciato il quarantaquattrenne Roberts a corto di fiato e sottopeso: appena cinquanta chili per un metro e ottanta di altezza. Dönitz, invece, aveva trascorso le ultime settimane gravato dal delicato incarico di negoziare la resa della sua nazione, ormai assediata. Un peso che si aggiungeva all’inconsolabile dolore per aver perso in guerra non uno, ma due figli, e nel giro di un solo anno. Entrambi i ragazzi erano morti prestando servizio nella divisione U-Boot, che Dönitz aveva fondato e diretto con fermezza lungo ogni passo della sua ascesa. Era responsabile dei loro destini tanto come padre quanto come comandante.
Ma tragedie e perseveranza non erano le sole cose ad accomunare i due. Nei tre anni precedenti, Roberts e Dönitz si erano affrontati nella lunga e letale sfida tra U-Boot e corazzate che solcavano le acque dell’oceano Atlantico, un’arena così infida e capricciosa da essere considerata, da quanti vi combattevano, come l’ennesimo avversario in campo.
Roberts era stato congedato dalla marina nell’estate del 1938, il giorno successivo a quello in cui gli avevano diagnosticato la tubercolosi, ed era stato reintegrato in servizio sette mesi dopo l’inizio del conflitto. In effetti, «stratega per giochi di guerra» non era una qualifica in uso nella marina, però descriveva alla perfezione il compito affidatogli dal primo ministro del Regno Unito, Winston Churchill. Il suo incarico consisteva nel decifrare le tattiche dei sommergibili tedeschi, i temibili U-Boot che stavano decimando la flotta alleata. Per mesi, lavorando assieme a un gruppo di giovani – molte avevano appena terminato gli studi – e brillanti donne del Women’s Royal Naval Service, Roberts aveva affinato le proprie strategie ripercorrendo in simulazione centinaia di battaglie oceaniche. Grazie a quei «giochi di guerra» aveva sviluppato soluzioni che, una volta testate, erano state insegnate a migliaia di ufficiali di marina in procinto di prendere servizio.
Anche Dönitz sapeva quanto fossero importanti quelle simulazioni in tempo di guerra: lui stesso le aveva sfruttate per affinare tattiche che, dal suo quartier generale nella Francia occupata, in un bunker sotto un’elegante villa del XIX secolo, venivano diramate ai comandanti dei suoi amati sommergibili. Esse avevano aiutato gli equipaggi a raggiungere il loro obiettivo primario: affondare i mercantili alleati, impedendo che viveri e rifornimenti raggiungessero le coste britanniche, con l’intento di affamare la popolazione e vincere la guerra.
Entrambi avevano studiato attacchi e finte spostando tessere di legno sopra enormi carte nautiche dette diagrammi, come pedine su una scacchiera acquatica. La posta in gioco era altissima: diverse migliaia di britannici e di tedeschi erano morti, compresi uomini che Roberts e Dönitz avevano conosciuto e istruito personalmente.
«Buon pomeriggio, ammiraglio» salutò Roberts. Era affiancato da un giovane statunitense esperto in interrogatori, un ex agente dell’FBI.1
Dönitz riconobbe il rivale grazie a una fotografia apparsa su una rivista britannica l’anno prima, e annuì rispettosamente.2 Sapeva perché Roberts era giunto lì, nel porto tedesco di Flensburg: per cercare prove che dimostrassero se le teorie, elaborate attraverso le sue simulazioni, sulle tattiche segrete degli U-Boot fossero corrette.
Roberts, che parlava un ottimo tedesco, tastò nella tasca il suo «Ike’s pass»; il documento – chiamato così dal soprannome dell’uomo che l’aveva firmato e rilasciato, il generale dell’esercito statunitense nonché comandante supremo delle forze alleate Dwight D. Eisenhower – gli conferiva l’autorità di interrogare chiunque fosse collegato alle indagini. Fremeva all’idea di torchiare Dönitz sulle tattiche degli U-Boot: i «branchi di lupi», come venivano chiamati quei gruppi di sommergibili, che attaccavano con i siluri per poi allontanarsi in immersione. Inoltre voleva scoprire cosa sapesse il grandammiraglio delle contromisure dell’Ammiragliato. Dönitz, però, era atteso in Lussemburgo, dove sarebbe stato processato per crimini di guerra insieme ai vertici del partito nazista e delle SS, ai comandanti militari e ai ministri già in stato di arresto.
«Le verrà fornito tutto ciò che le serve, di modo che la sua visita si riveli piacevole e proficua» disse Dönitz prima di proseguire lungo la passerella, verso la banchina.
Scortato da una guardia armata, il grandammiraglio oltrepassò un’unità di carri armati britannici e si diresse verso la vicina stazione di polizia, dove l’avrebbero perquisito per assicurarsi che non nascondesse del veleno.3 Roberts e l’esperto di interrogatori salirono invece a bordo della nave, la Patria: un nome che faceva pensare alle ultime vestigia dell’ormai sconfitta madrepatria di Hitler.
Giunti a bordo del transatlantico, una nave di linea in grado di ospitare quasi seicento persone tra equipaggio e passeggeri, Roberts fu accompagnato ai suoi alloggi. La cabina di prima classe era una vera e propria suite, completa di zona notte, bagno privato e salottino. Lì avrebbe ascoltato gli ufficiali degli U-Boot che si erano arresi. Appena varcata la soglia, Roberts fu accolto da un giovane e attraente ufficiale della marina tedesca, i capelli tirati all’indietro e l’aria determinata. L’uomo si presentò come Heinz Walkerling e spiegò che gli avrebbe fatto da assistente per tutta la durata della missione.
Walkerling, che aveva festeggiato il proprio trentesimo compleanno appena quattro giorni prima,4 era stato al comando di uno dei sommergibili che il britannico si era con tanto zelo impegnato a distruggere negli ultimi tre anni. Lui era stato fortunato: dopo aver silurato e affondato cinque navi alleate – due britanniche, due americane e una canadese – era stato trasferito all’accademia navale di Mürwik, dove aveva insegnato alle reclute assegnate agli U-Boot come centrare un obiettivo con un siluro. Mentre l’ex agente dell’FBI sistemava il registratore – in apparenza una comune valigia – sotto alla cuccetta di Roberts, Walkerling chiese al suo nuovo capo se avesse con sé una pistola, per difesa personale.
«No» rispose Roberts. Gli avevano suggerito di prenderne una prima che lasciasse Londra, ma lui aveva preferito rifiutare.
Alle cinque del pomeriggio Roberts diede inizio al primo interrogatorio: ascoltò il capo dello stato maggiore di Dönitz, l’uomo responsabile della gestione di tutti gli U-Boot e delle relative operazioni. Due ore più tardi spense il registratore e, accompagnato da Walkerling, raggiunse il quadrato ufficiali per mangiare qualcosa.
L’atmosfera nella stanza era straniante. I tedeschi, un insieme di comandanti di nave e ufficiali dell’arsenale, scherzavano seduti ai tavoli lungo le pareti. Roberts intuì, nelle loro risate profonde e spontanee, un che di isterico: il sollievo di chi si è tolto di dosso un enorme fardello psicologico.5 Gli ufficiali britannici, al contrario, sedevano in solenne silenzio attorno a un tavolo in mezzo alla stanza, riflettendo sulla gravità del compito di repulisti che li attendeva. L’euforia dello sconfitto e l’infelicità del vincitore: uno degli strani paradossi della guerra.
Roberts e gli altri mangiarono in silenzio – pane nero e un’insipida zuppa di cavolo – poi lui si ritirò in cabina, ancora affamato. Il giorno seguente avrebbe iniziato a interrogare gli ufficiali imbarcati sugli U-Boot. Inoltre era ansioso di esaminare i diagrammi usati da Dönitz per portare avanti la battaglia dell’Atlantico: avrebbe finalmente potuto confrontare il centro operativo tedesco con l’equivalente britannico, a Liverpool, che lo aveva ospitato nei tre anni precedenti.
Quando lui e Walkerling ebbero raggiunto la cabina, quest’ultimo gli chiese se poteva dormire sul divano.
«Non ho un posto dove andare» spiegò, mesto.
Roberts rifiutò, ma fece assegnare all’improbabile sottoposto una cabina vicina, e ordinò che sulla porta venisse affisso un cartello con la scritta: ASSISTENTE TEDESCO DEL CAPITANO ROBERTS.
Sistemata la questione, poté finalmente stendersi nella sua cuccetta. Era stanco, e non solo dal punto di vista fisico. Certo, era stremato dai rigori di una guerra durata cinque anni, con il cibo razionato e, per chi viveva in città come lui, i bombardamenti notturni, ma c’era altro: la prolungata tensione di un matrimonio in crisi e l’esperienza della notte precedente, trascorsa a tremare in un hotel belga mentre i caccia americani imperversavano sopra Bruxelles, in uno degli ultimi raid della guerra.
Roberts sprofondò nell’impenetrabile sonno di chi è esausto. Non sentì scattare la serratura della cabina, né vide la tremolante silhouette di un uomo stagliarsi in controluce sulla soglia, una Luger in mano.

PARTE PRIMA

«Abbiamo sfamato il nostro mare per mille anni e continua a chiamarci, non sazio.»
RUDYARD KIPLING, The Song of the Dead
2

As you wave me goodbye

Cinque anni prima

Cullato dal moto delle onde e dai cigolii della cabina, con accanto un fumetto aperto, Colin Ryder Richardson stava sonnecchiando quando sentì un tonfo sordo da qualche parte sotto la cuccetta.1 Stando all’orologio, la mezzanotte era passata da tre minuti. A casa l’undicenne sarebbe stato addormentato già da un pezzo, ma quella non era Londra e sulla nave non c’erano i genitori a brontolare di levatacce e luci che si dovevano tenere spente. Quando si erano conosciuti, quattro giorni prima, il giovane giornalista ungherese di nome Laszlo Raskai che accompagnava Colin e divideva la cabina con lui aveva deciso che quel ragazzino dai capelli biondi e dallo sguardo intelligente non sembrava aver bisogno dell’eccessiva supervisione di un adulto. A parte cadere in mare, qual era la cosa peggiore che poteva capitare su una lussuosa nave da crociera?
Libero dal controllo degli adulti, Colin aveva infilato un cuscinetto a sfere, trovato nel solco tra le assi del ponte, nel cassetto della scrivania che separava la sua cuccetta da quella di Raskai.2 Trovava rilassante il rumore che faceva rotolando là dentro, e poi Raskai non c’era mai, quindi non aveva motivo di lamentarsi. Poco dopo essere stato svegliato dal tonfo, Colin sentì il cuscinetto a sfere schioccare contro il legno e smettere di colpo di muoversi. Dapprima impercettibilmente, poi in maniera più accentuata, la nave cominciò a inclinarsi. Le prime urla raggiunsero la cabina, poi il ragazzo sentì un deciso odore di smalto per unghie.
Una sera d’inizio di settembre, dopo cena, i genitori l’avevano fatto sedere nella fattoria di famiglia nel Galles – un rifugio temporaneo lontano dai bombardamenti di Londra – e gli avevano chiesto cosa ne pensasse di un viaggio in America. Colin si era immaginato la scritta di Hollywood e cowboy appoggiati a staccionate di legno: la visione romantica di un undicenne. Aveva accolto la proposta con entusiasmo, ma si era sentito dire che non sarebbe andato a Beverly Hills, bensì a New York. Forse non era la meta che aveva sognato, ma il razionamento aveva reso i pasti del Regno Unito monotoni e insipidi. A Colin il nome Grande Mela suggeriva l’immagine di una città in cui il cibo abbondava.
Sebbene i genitori non l’avessero dato a vedere, i preparativi per il viaggio di Colin erano già in atto. Avrebbe viaggiato da solo, in nave, fino a Montreal. Da lì avrebbe proseguito verso sud, a Long Island, dove avrebbe trovato ad aspettarlo una delle tante coppie benestanti di New York che avevano offerto ospitalità ai bambini britannici evacuati.
Era stato difficile decidere di mandare via il figlio, all’inizio, ma con il tempo era sembrata la scelta migliore. La Seconda guerra mondiale durava già da un anno. Quell’estate, dopo una resistenza di appena sei settimane, la Francia era caduta in mano ai nazisti; era quindi crollato l’ultimo baluardo tra il Regno Unito e l’esercito tedesco, il che aveva reso obsoleti i presupposti strategici britannici. Come molti altri, anche i genitori di Colin credevano che i tedeschi, dopo aver ributtato in mare i britannici a Dunkerque nel giugno del 1940, fossero determinati ad attraversare la Manica – circa cinquantacinque chilometri di larghezza, nel tratto più stretto – e dare avvio a un’invasione, la cui riuscita sarebbe stata quasi inevitabile. Nelle ultime settimane il ministero per l’Informazione aveva cominciato a far circolare opuscoli intitolati Se arriva l’inva...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Operazione Raspberry
  4. 1. L’ultimo rimasto
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. Postfazione
  9. Epilogo
  10. Ringraziamenti
  11. Nota sulle fonti
  12. Note
  13. Bibliografia
  14. Copyright