Venerdì 22 giugno
Le reazioni allo stress variano. C’è gente flessibile, capace di adeguarsi. Poi ci sono quelli fragili, impossibilitati a piegarsi. In fisica si parla di curve sforzo-deformazione. Una cosa è certa: se il peso è eccessivo, o l’incremento di carico troppo rapido, chiunque può spezzarsi.
Io lo so bene. L’estate dopo che avevano ucciso il mio capo ero arrivata al punto di rottura. Sì, moi. Quella granitica, quanto a emozioni. E non parlo solo degli incubi.
A dire il vero, la morte di Larabee non era stata né il primo né l’unico evento a innescare il crollo. C’era stato Andrew Ryan, da anni mio compagno di vita e partner nelle indagini per omicidio nel Québec. Cedendo alle insistenze, avevo accettato la convivenza nelle due città che segnavano gli estremi della nostra relazione geograficamente complessa: a Montréal e a Charlotte, nel North Carolina. C’era stata Katy, spedita in missione in Afghanistan. Il tumore della mamma. Le notizie di Pete su Boyd. La mia diagnosi, poi l’intervento. Le emicranie. La mia curva era stata sottoposta a un’infinità di sforzi.
Ripensandoci, ammetto di essere schizzata fuori dall’orbita. Forse la mia ribellione era un tentativo di gestire forze ingestibili: un vaffanculo all’età che avanzava, al vaso sanguigno che minacciava di devastarmi il cervello. Forse era un grido d’aiuto rivolto a Ryan. O un tentativo inconscio di allontanarlo? O forse era solo lo stramaledetto caldo del North Carolina.
Chi può dirlo? Avevo retto finché l’uomo senza faccia mi aveva fatto crollare. I suoi resti e l’indagine che era seguita avevano aperto un buco nero nella mia tranquilla esistenza.
Mia madre aveva notato i cambiamenti ben prima del rinvenimento del misterioso cadavere. I momenti di assenza. L’agitazione. L’irritabilità. Lei attribuiva tutto all’aneurisma. Da quando mi avevano scoperto quella bollicina, la mamma era convinta che sarebbe esplosa e che il mio stesso sangue mi avrebbe fatta fuori. Io liquidavo in fretta le sue critiche al mio comportamento, ma sapevo che aveva ragione. Ignoravo le mail, il telefono; rifiutavo gli inviti a uscire per potermene stare da sola a vedere un vecchio film dietro l’altro. Porca miseria, il mio preferito, Io e Annie, l’avevo visto quattro volte.
Non raccontavo alla mamma delle visioni notturne: contorte sequenze cinematografiche popolate da sagome malvagie e pericoli indistinti, o compiti frustranti che non riuscivo a portare a termine. Ansia? Scompensi ormonali? I farmaci per il mal di testa che ero obbligata a mandare giù? Irrilevante la causa della mia suscettibilità. Dormivo poco, ero perennemente inquieta ed esausta.
Non serviva scomodare Freud per capire che ero messa male.
Perciò eccomi lì, sveglissima in piena notte, a tentare di scrollarmi di dosso un sogno con un temporale, e dei serpenti, e Larabee chiuso in una sacca mortuaria. Il vecchio Sigmund avrebbe potuto fare qualche commento interessante.
Tentai con la respirazione profonda. Un esercizio di rilassamento che partiva dalle dita dei piedi.
Niente da fare.
I nervi a fior di pelle, mi alzai e andai alla finestra. Un piano più sotto, il parco del comprensorio che si estendeva tutt’intorno a casa mia era buio e silenzioso, se non per il lieve ondeggiare di una foglia nei deboli e sporadici aliti di vento. Mi stavo voltando quando colsi un movimento fugace accanto al pino sul prato dei vicini.
Aguzzai la vista e distinsi una sagoma. Robusta. Maschile?
Tra le case di Sharon Hall a mezzanotte?
Con il cuore che accelerava, socchiusi gli occhi per mettere a fuoco.
La sagoma era sparita nell’ombra.
Avevo davvero visto qualcuno, laggiù?
Incuriosita, m’infilai un paio di pantaloncini vecchi, le Nike, e andai di sotto. Non intendevo affrontare il tipo, se davvero c’era un tipo; solo stabilire che motivo avesse per trovarsi fuori da casa mia a quell’ora.
In cucina disattivai l’allarme e sgusciai fuori dalla porta sul retro. La canicola era ben più opprimente della tipica notte estiva nel Sud, l’aria era calda e afosa, le foglie molli e abbattute come mi erano apparse da sopra. Non vedendo individui sospetti, feci il giro della casa: nessuno. Imboccai uno dei vialetti che attraversavano il parco.
Alle dieci, mentre mi mangiavo una pizza scaldata al microonde, aveva piovuto, e l’aria era ancora carica di umidità. Sulla ghiaia le pozzanghere baluginavano scure per poi virare al giallo quando io e la mia ombra sfocata passavamo sotto quei cavolo di pittoreschi lampioni vintage, appannati per la condensa.
Il minuscolo laghetto appariva come uno spazio vuoto e buio, indistinto dove l’acqua lambiva la sponda. In superficie scivolavano delle sagome scure, silenziose, consapevoli della propria transitorietà: l’associazione dei proprietari porta avanti una battaglia incessante e spesso anche creativa, ma quale che sia il deterrente le oche tornano sempre.
Stavo oltrepassando una struttura nera tipo Lego che sapevo essere un gazebo, quando intuii, più che sentire, una presenza. Mi fermai. Puntai lo sguardo.
Nella macchia d’ombra sotto il gazebo c’era un uomo. Stava a capo chino, i lineamenti nascosti. Altezza e corporatura media. Non potevo dire molto altro di lui. A parte due cose.
Uno: non lo conoscevo. Non era un residente, né l’avevo mai visto da qualcuno che abitava lì.
Due: malgrado il caldo soffocante, indossava un trench. Quando alzò un braccio, forse per dare un’occhiata all’orologio, il colore chiaro del tessuto spiccò nelle tenebre che lo avvolgevano.
Ansiosa, mi guardai alle spalle.
’Fanculo. Perché non mi ero portata il telefono? Semplice. Perché quell’odioso aggeggio era scarico. Tanto per cambiare.
Ottimo. Perché non avevo almeno acceso la luce della veranda? Tornare a casa e chiamare il numero dedicato alla segnalazione di intrusi? Oppure il 911?
Mi girai. Il gazebo era vuoto. Controllai il vialetto in entrambe le direzioni. A destra, a sinistra. L’uomo non c’era più.
La nebbiolina si mutò di nuovo in pioggia. Gocce indolenti cercavano di restarmi aggrappate al viso, ai capelli. Ora di rientrare.
D’un tratto, oltre il vialetto circolare, scorsi un bagliore grigio. Un attimo, e poi nulla.
Una botta di adrenalina. Ombra in Trench stava puntando me? Studiava la disposizione di Sharon Hall? Altrimenti, che ci faceva lì sotto la pioggia a notte fonda? E perché era così sfuggente?
Oppure la mia diffidenza era solo frutto della paranoia, un altro regalino della curva sforzo-deformazione sottoposta a un peso eccessivo. In ogni caso, ero felice che mi fosse rimasto in tasca lo spray al peperoncino dall’ultima volta che ero andata a correre.
Forse risvegliate dall’incubo, presero a scorrermi nella mente le immagini degli ultimi istanti di Larabee. Il pallore grigio-verdognolo della sua pelle. L’illuminazione innaturale della Terapia intensiva. L’implacabile bip dei monitor che rilevavano picchi e avvallamenti. L’urlo del silenzio quando i bip si erano fermati. E dopo, in una sala interrogatori che sapeva di paura e sudore, la sciatta indifferenza del tossico all’ultimo stadio che aveva cacciato i proiettili in pancia a quello che era stato il mio capo per così tanti anni.
Ferma!
L’avevo sentito davvero? O me l’ero solo immaginato?
Allungai il passo, con un sommesso scricchiolio nel silenzio.
Trascorse un minuto, poi ecco la sagoma coperta da un trench, in lontananza, dove il vialetto terminava in uno dei parcheggi per residenti. L’uomo procedeva con una strana andatura barcollante, dandomi le spalle.
D’un tratto sentii rimbalzare suoni ovunque. Foglie che crepitavano, fronde che ondeggiavano, rami che si spezzavano. Creature della notte? I compari strafatti di Ombra in Trench che volevano finanziarsi dell’altra metanfetamina?
Io non avevo addosso roba di valore: niente soldi, niente orologio. Si sarebbero arrabbiati?
O quei rumori erano un parto dei miei nervi a pezzi?
Tastai lo spray al peperoncino nella tasca destra. Sentii la bomboletta. Rosa e perfida. Una minima percentuale del prezzo era stata devoluta alla ricerca sul tumore al seno.
Attimo d’indecisione.
Tornare a casa? Proseguire e osservare l’uomo? Affrontarlo nel parcheggio? Lì c’erano dei lampioni; con quell’oscurità faticavano, ma facevano del loro meglio.
Rallentai. Adesso Ombra in Trench era a una decina di metri.
Il mio cervello scelse quel momento per propormi una drammatica scena da film.
Appena mi avvicinavo, lui tirava fuori un coltello e cercava di tagliarmi la gola.
Cristo!
Perché permettevo a quel tipo di mettermi in agitazione? Con il mestiere che faccio, vedo roba ben peggiore di uno vestito come Humphrey Bogart in Casablanca. Biker fuorilegge che staccano testa e mani ai rivali a colpi di motosega. Teste di cazzo che perseguitano e strangolano le loro terrorizzate ex. Bulli ubriachi che sbattono contro il muro i neonati che frignano. Tutta feccia che non mi impedisce di concentrarmi sul lavoro. Anzi. Mi stimola a darci dentro ancora di più.
E allora perché quella tensione per uno che indossava un impermeabile con la cintura? Perché la sensazione di pericolo? Non c’era alcuna certezza che fosse uno psicopatico. Magari non tollerava l’umidità.
Comunque, scoprirlo era un dovere nei confronti dei miei vicini. Avrei sfruttato la siepe per tenermi nascosta e l’avrei seguito per un po’. Se avesse fatto qualcosa di sospetto, sarei andata a casa a chiamare la polizia. Che decidessero loro.
Mi infilai in un pertugio della siepe, procedetti lungo il lato esterno per qualche metro, poi mi fermai a guardare il parcheggio.
Era lì, sotto uno dei fiochissimi lampioni. La testa alta, i lineamenti vagamente distinguibili che apparivano come chiazze nere su un rettangolo bianco sporco.
Mi mancò il respiro.
Il tipo mi stava fissando.
O no?
Impaurita, mi girai per cercare un varco nella vegetazione alle mie spalle. Niente. Mi tuffai dove l’oscurità sembrava meno fitta. Il passaggio era stretto, esisteva a malapena, o forse non esisteva proprio. Ramoscelli e foglie mi s’impigliavano alle braccia e ai capelli, dita scheletriche mi trattenevano come artigli.
Presi ad ansimare più forte, più disperata, come se stessi lottando per non rimanere intrappolata dalla vegetazione. L’aria era satura dell’odore di corteccia bagnata, di terra umida, e del mio stesso sudore.
Pochi metri, poi fui libera e mi precipitai di nuovo verso il laghetto. Non sul sentiero di prima, un altro. Meno illuminato. Meno scoperto.
In modo impercettibile, un nuovo odore si unì all’insieme. Un odore familiare. Un odore che scatenò una nuova ondata di adrenalina.
Quelle che sentivo erano zaffate di carne in decomposizione.
Impossibile.
Eppure era così. Nette e fredde come le immagini che infestavano i miei sogni.
Un momento per farmi strada intorno a una macchia di azalee e rododendri, poi individuai uno smuoversi delle tenebre davanti a me. Sul prato spigoli e piani d’ombra si spostavano e si inclinavano.
I tirapiedi di Ombra in Trench in agguato?
Ero quasi in fondo al giardino quando un ringhio stile ti-strappo-la-faccia-a-morsi mi bloccò di colpo. Mentre tentavo di formulare una spiegazione razionale, un grido acuto mi fece venire la pelle d’oca dappertutto.
Con le mani tremanti tirai fuori di tasca lo spray al peperoncino e avan...