E finalmente ci siamo: quella linea scura che si staglia all’orizzonte è la nostra prossima meta. Da qui appare quasi come una sfumatura diversa di azzurro, ma è la terra! Non preoccupatevi, però: siamo ancora lontani dal terminare il viaggio. È solo che ora dobbiamo avvicinarci leggermente a riva, se vogliamo cogliere un altro affascinante e fondamentale aspetto del mare. Le coste, infatti, sono i luoghi più dinamici e produttivi del nostro pianeta. Aree dove vince chi si sa adattare a un costante cambiamento, superando le sfide poste da un luogo che per definizione si trova al confine tra mare e terra.
E adesso che ci avviciniamo capirete quanto sia difficile anche solo darne una definizione. I mari costieri ospitano infatti ambienti tra loro molto diversi: dalle zone umide paludose alle foreste di mangrovie, dalle barriere coralline alle praterie di piante marine. E tutti questi spazi, a loro volta, ospitano un’incredibile varietà di forme di vita vegetale e animale.
Non solo: è sulle coste che la vita del mare incrocia da sempre la storia dell’umanità. È lì che civiltà antiche e moderne hanno imparato a conoscere e a vivere il mare in ogni suo aspetto. Come i pesci, i molluschi e le alghe, anche gli esseri umani si sono dovuti adattare a quel luogo sospeso tra mare e terra, imparando tecniche di pesca e di navigazione, e inventando nuovi sistemi di produzione e di alimentazione. Sino a dare vita, nei casi più fortunati, a nuove civiltà.
E se dovessi farvi un esempio di tutto questo, credo che non avrei nulla di meglio da mostrarvi di ciò che vi circonda da sempre: le linee frastagliate degli scogli e delle spiagge, le barche blu e le case bianche; e poi i greggi, i campanili, i minareti… insomma, l’avete capito: il Mediterraneo.
Aggrappati a uno scoglio
La ricchezza culturale e storica del Mediterraneo (le contaminazioni etniche, le conquiste e le guerre che l’hanno caratterizzato e che anche oggi non mancano di attraversarlo) curiosamente si rispecchia anche nella sua biologia: il Mediterraneo è infatti un mare di straordinaria ricchezza biologica, abitato da oltre diciassettemila specie, caratterizzato da una biodiversità che rappresenta, a seconda di come la si calcoli, dal quattro al venticinque per cento della varietà di specie marine globali, circa dieci volte superiore alla media mondiale.
E non pensiate che si debba andare lontano o in profondità per vedere tutto questo. Venite qui, davanti alla riva, e guardate un po’ più da vicino questo scoglio. L’intera complessità di questo mondo sospeso tra acqua e aria è racchiusa proprio qui, negli interstizi della roccia, nascosta nella schiuma di risacca che sospinge piccole alghe di superficie nelle pozze d’acqua salata, dove corrono granchietti velocissimi e nuotano piccoli gamberetti trasparenti. Ecco, proprio lì in mezzo: forse non l’avete mai notata veramente. L’avete vista, certo, ma senza degnarla di vera considerazione. Nient’altro che una piccola macchia sullo scoglio. Ma la patella merita ben altra attenzione: pochi animali meglio di lei mostrano quanto possa essere difficile la vita delle coste e che eccezionali risorse possano essere messe in opera dalla natura.
Non sorridete: è tutto vero. La vita su uno scoglio è dura. Si può essere colpiti da onde fortissime o essere intrappolati in pozze d’acqua troppo salate, oppure finire arrostiti o bolliti dal cocente sole estivo, o congelati dai venti invernali. In questa dura lotta per la sopravvivenza, la patella è di sicuro uno degli animali più forti e affascinanti dello scoglio. Una piatta conchiglia rotondeggiante, che si muove curiosamente sempre solo verso sinistra, dotata di minuscoli denti capaci di grattare le alghe sulle rocce per nutrirsene e di aggrapparvisi con incredibile forza. Pensate che quei minuscoli denti rappresentano il biomateriale più forte in natura, almeno tra quelli conosciuti dagli scienziati. Si parla di cose microscopiche ovviamente: di dentelli provvisti di nanofibre un centinaio di volte più piccole di un capello, in cui si trova la goethite, un minerale costituito da idrossido di ferro e caratterizzato da una resistenza impressionante. Gli scienziati che lo hanno studiato assicurano che tale resistenza sia indipendente dalla taglia del mollusco: se la patella fosse enorme, insomma, starebbe attaccata con la stessa forza. Il che potrebbe aprire la strada ad applicazioni potenzialmente infinite: dall’ingegneria navale a quella aerospaziale.
Ma la patella non è sola in questo mondo di piccoli esseri tenaci. Se non avete mai sentito parlare dei denti di cane, perlomeno è capitato a molti di avvertirli sotto i piedi camminando scalzi sugli scogli lasciati scoperti dalla bassa marea. Nel caso, sappiate che erano proprio loro: strani crostacei chiamati balani, o comunemente detti denti di cane. Animali che non sono liberi di muoversi come tutti gli altri crostacei, ma che vivono attaccati agli scogli, chiusi in una torre di pietra dalla quale arraffano le sostanze nutritive. Passano la vita così: sdraiati sulla schiena, circondati da una vera muraglia di robuste piastre, dalla cui sommità sporgono le zampette fitte di setole. Le chiamiamo cirri, da cui viene il nome della specie, cirripedi appunto, e sono preposte alla cattura del plancton e di altre sostanze nutritive spinte dalle onde. Ma la cosa che fa davvero la differenza in un balano è un’altra. Be’, potrà anche suonarvi ridicolo, ma i loro peni sono i più atletici del mondo! Il meglio di quegli animaletti sta proprio nel tubo affusolato e trasparente che potete vedere uscire dalla fessura centrale del suo guscio: otto volte la misura del corpo, non so se mi spiego… In un mondo difficile come la scogliera, questa in fin dei conti è una buona strategia di sopravvivenza: protetti da una sicura corazza, i balani possono dedicarsi a fertilizzare la costa attorno a loro con la stessa tecnica di un tubo d’irrigazione da giardino.
Coralli e stelle marine
Lasciamo ora patelle e balani al loro scoglio e tuffiamoci in acqua. Dovremo immergerci solo di qualche metro, la profondità sufficiente per incontrare un altro habitat, un mondo ancora più ricco e affascinante. Guardate laggiù per esempio: di sicuro la conoscete tutti la stella marina. O almeno così pensate. Tanto per cominciare, non si tratta di una prerogativa mediterranea: al mondo ci sono circa duemila specie di stelle marine che si sono adattate a vivere in tutti gli ambienti, da quelli tropicali a quelli polari. E tra esse ne esistono alcune che presentano dieci, venti e persino quaranta braccia. Sulla parte ventrale, poi, ecco i pedicelli, utilizzati principalmente per muoversi e rimanere attaccate agli scogli. Ma in alcune specie essi servono anche per far leva sui gusci di vongole e ostriche, fino ad aprirli. E in quei casi il pasto vero e proprio avviene in modo letteralmente «rivoltante»: il loro stomaco, infatti, si rovescia fuori dalla bocca e striscia fino alla preda. Penetra nel guscio aperto, avviluppandola e digerendola all’esterno. Solo a operazione completata, lo stomaco riprende il suo posto abituale. Nel nostro caso, però, ci troviamo al cospetto di una stella marina mediterranea, con solo cinque punte e un bel colore rosso scuro sul dorso (la parte ventrale è più chiara). Questa specie di stella marina si nutre prevalentemente di spugne, vermi e detriti, che veicola fino alla bocca posta nella parte ventrale al centro dei bracci. Senza fare insomma cose troppo strane.
E forse non lo sapete, ma le macchie nere che vedete tutt’attorno, i ricci di mare, sono in realtà parenti stretti della stella marina. Sono classificati entrambi come echinodermi, che in greco significa «dalla pelle spinosa». Nel Mediterraneo si trovano sostanzialmente due specie di ricci: quelli neri, appunto, e quelli dal colore più violaceo. Ed è buffo che comunemente i primi siano chiamati maschi e i secondi femmine: il sesso non c’entra niente, non è nemmeno riconoscibile a occhio nudo e si stratta di due specie diverse. Sia come sia, la forma la conoscete a memoria: un corpo tondo ricoperto di aculei appuntiti, sotto i quali si nasconde uno scheletro dermico calcareo, quella fragile conchiglia rotonda che molti di noi hanno trovato più volte in mare. Poi sul ventre ecco la bocca con cinque robusti denti calcarei, quella chiamata «lanterna di Aristotele», perché fu lui il primo a darne descrizione. I ricci di mare sono dei veri e propri brucatori, e rivestono un importante ruolo ecologico nel delicato equilibrio dell’ambiente marino. Tanto per fare un esempio, una consistente diminuzione del loro numero potrebbe portare a una proliferazione di alghe, così come il loro eccessivo aumento finirebbe per togliere troppa vegetazione dal fondale, con conseguente perdita di biodiversità.
Adesso però scendiamo un po’ di più, seguendo ancora la parte di scogliera sommersa. Qualche decina di metri. Con un po’ di fortuna potremo intravedere le gorgonie e il bellissimo corallo rosso: un ramoscello all’apparenza esile di poche decine di centimetri.
Ambitissimo sin dai tempi più antichi, Greci e Romani, valutandone la forma, si erano perlopiù convinti che fosse una pianta: una strana pianta che acquistava rigidità al contatto con l’aria, diventando come pietra. In ogni caso, la sua bellezza lo faceva assomigliare a un gioiello, e poi aveva forma d’albero, era rosso come il sangue, affiorava dagli abissi marini… Naturale che i suoi poteri dovessero essere eccezionali: ottimo per fermare le emorragie, perfetto contro i veleni e in generale di grande utilità come amuleto (una dote che la tradizione popolare ancora gli riconosce, a giudicare dai corni di corallo napoletani). Un vero e proprio oggetto del desiderio, insomma, ma anche un prodotto locale, visto che sembrava crescere solo qui. Per secoli e millenni lo hanno pescato ovunque nel Mediterraneo: San Vito Lo Capo, Trapani, Tabarka, Marsiglia, Alghero, Sorrento, facendolo però con uno strumento devastante, l’ingenio: un’enorme croce in legno o in ferro, assicurata con una fune a una pietra, con reti agganciate ai suoi bracci, che raschia e devasta brutalmente il fondale, mettendo a serio rischio la ricrescita dei coralli. Perché ora tanto vale che ci chiariamo: il corallo è un animale. Più precisamente è costituito da una colonia di animaletti impiantati lungo i rami. Animaletti minuscoli, cosine di 1 o 2 millimetri, simili a fiorellini bianchi con diversi tentacoli. Piccoli polipetti che a ogni movimento dell’acqua in cui vivono sono pronti a captare le piccole particelle di cibo o a ritrarsi rapidamente in quello scheletro calcareo che offre loro riparo. I forellini che vediamo nei rami di corallo sono appunto la loro traccia. Il corallo rosso cresce solo nel Mediterraneo e nelle aree atlantiche più vicine, dove vive sul fondale roccioso, tra i 10 e i 200 metri di profondità, in condizioni particolari: salinità dell’acqua costante, ridotto movimento della stessa e illuminazione attenuata. Cresce per giunta molto lentamente, circa pochi millimetri di altezza all’anno. Ma se nessuno lo strappa è decisamente longevo, con colonie di più di un secolo di vita. Oggi pescare il corallo con l’ingenio è ormai proibito: è evidente a tutti che raschiare il fondo del mare sia il modo migliore per distruggere senza rimedio le sue risorse. La legislazione attuale, applicata in tutti i Paesi del Mediterraneo, prevede che il corallo rosso possa essere raccolto solo da subacquei autorizzati, prevede inoltre la taglia minima e il quantitativo di raccolta, al fine di garantirne il razionale sfruttamento. Nonostante questa regolamentazione, è facile immaginare quanto spesso tale legge venga infranta. Anche in questo settore i pescatori di frodo non sono affatto pochi e usano spesso metodi distruttivi. Inoltre, grazie al contributo di inquinamento e riscaldamento globale, il risultato è che il corallo rosso è sempre più raro nel Mediterraneo: se un tempo bastava scendere in apnea una quindicina di metri per avvistarlo, oggi bisogna arrivare a oltre 100 metri di profondità per trovare rametti di pochi centimetri.
Ma non c’è solo il corallo a decorare questi fondali rocciosi: le gorgonie sono in grado di trasformarli in colorati giardini sommersi. Altri animali che sembrano piante: un’elegante forma arborescente, con i rami posizionati perpendicolari alla corrente principale per catturare più cibo con i loro polipi. Anche le gorgonie svolgono un ruolo fondamentale per la salute del Mediterraneo, supportando la vita di centinaia di specie e garantendo persino la riproduzione di molte di esse, visto che pesci, squali, calamari e altri molluschi affidano a quei rami le loro uova, per metterle al riparo da possibili predatori.
È un ecosistema complicato e bellissimo quello che si cela tra questi rami e gli anfratti delle rocce. Proprio per questo vi chiedo adesso ancora più attenzione: bisogna saperla riconoscere la bellezza; e avere pure quel tanto di pazienza che serve. Ma vedete, ora, quella sagoma scura un po’ nell’ombra? È difficile, lo so, perché è quasi completamente mimetizzato, ma non vi sbagliate: è un occhio che vi guarda. E quella massa grigia attorno sono le sue braccia. Be’, lo ammetto: sono di parte in questo caso. Chi mi conosce lo sa: è il polpo l’animale che amo di più!
Il polpo straordinario
Ormai lo abbiamo capito: ci siamo sbagliati. Per millenni abbiamo pensato che il polpo fosse un animale mediamente stupido: «Chi mai oltre al polpo si avvicinerebbe con tale facilità alla mano di un uomo se fosse calata in acqua?» sentenziava Aristotele già all’epoca. Così, cercando l’intelligenza nel regno animale, ci siamo sempre rivolti ai mammiferi o al più agli uccelli. E solo recentemente è diventato chiaro che un ramo molto distante dell’albero della vita aveva prodotto un’intelligenza addirittura superiore: i cefalopodi! Il polpo, in particolare, può navigare attraverso i labirinti, risolvere problemi e ricordare soluzioni, avere personalità distinte, se in cattività distinguere un individuo dall’altro, spegnere le lampadine emettendo getti d’acqua e riuscire pure a organizzare piani di fuga!
Un cervello decisamente complesso il loro, fatto di testa e… braccia, che vanno di pari passo. La maggior parte delle specie di polpi hanno ventose sul fondo di ciascun braccio e al loro interno hanno recettori che consentono di assaggiare ciò che stanno toccando. I bracci sembrano avere una propria mente, considerando che ospitano i due terzi dei neuroni di un polpo. Questo fa di loro degli animali letteralmente multitasking: possono infatti concentrarsi sull’esplorazione di una grotta alla ricerca di cibo con un braccio mentre con un altro cercano di aprire un mollusco e sentirne il sapore. E non è solo una questione di cervelli, ma anche di cuori: tre per la precisione! Due dei cuori lavorano esclusivamente per spostare il sangue oltre le branchie dell’animale, mentre il terzo mantiene la circolazione del loro sangue blu. E il terzo cuore smette per giunta di battere quando il polpo nuota, il che spiega la propensione di questa specie a gattonare piuttosto che a nuotare…
E se tutto questo vi sembra già straordinario, fidatevi: dovete vederlo in azione. È lì che dà il meglio di sé. Quando gioca in difesa innanzitutto. La sua abilità di scomparire rendendosi completamente invisibile è davvero incredibile. Usando una rete di cellule pigmentate chiamate cromatofori e muscoli specializzati che si trovano nella sua pelle, può quasi istantaneamente modificare il suo corpo con i colori, i modelli e persino le trame dell’ambiente circostante. Predatori come squali, anguille e delfini gli nuotano accanto senza nemmeno accorgersene. E c’è un polpo indonesiano, il Thaumoctopus mimicus, che va addirittura oltre: è in grado infatti di trasformarsi per assomigliare a una quindicina di animali diversi, tra cui razze, serpenti e pesci scorpione. Attraverso questo ingegnoso stratagemma, finisce per sembrare il predatore e non la preda, in un’operazione mimetica che coinvolge colore della pelle, configurazione dei bracci e persino il comportamento!
Se proprio dovesse venire scoperto, qualsiasi polpo saprebbe però difendersi egregiamente. È piuttosto nota infatti la sua capacità di rilasciare una nuvola di inchiostro nero per oscurare la vista del suo aggressore, prendendosi il tempo necessario per trovare una via di fuga. L’inchiostro contiene un composto chiamato tirosinasi che, quando viene spruzzato negli occhi di un predatore, provoca un’irritazione accecante, alterando anche l’olfatto e il gusto. L’intruglio è così potente, che anche i polpi stessi devono guardarsene, e se non scappano in fretta dalla propria nuvola possono anche morire.
L’ideale a quel punto è un nascondiglio sicuro. E anche in questo caso i polpi si dimostrano strabilianti: i loro corpi molli non hanno scheletri interni o gusci protettivi, quindi possono spremersi fino a entrare in qualsiasi buco che non sia più piccolo della loro bocca a forma di becco, l’unica parte dura del loro corpo. Proprio questa capacità, nell’aprile 2016, ha consentito l’evasione a un polpo del National Aquarium della Nuova Zelanda: uscito dalla sua vasca, si è infilato in un tubo di scarico lanciandosi in una folle corsa a otto braccia che – fortunatamente per lui – lo ha portato direttamente al mare!
Considerando il numero di avventure straordinarie di cui può fare esperienza, il polpo mediterraneo vive decisamente poco. Il suo ciclo vitale dura infatti all’incirca un anno. La riproduzione è un’impresa ardua. Le femmine sono mediamente più grandi e più aggressive dei maschi e possono anche trasformarsi in cannibali, divorando l’ipotetico compagno. Quando la storia si mette male, i maschi possono anche autoamputarsi il braccio che trasporta lo sperma (ectocotile) per evitare di essere mangiati dalla femmina. Una volta terminato il loro compito, i maschi cadono in una sorta di senescenza e muoiono. Le femmine li seguiranno di lì a poco. Prima devono concentrarsi in un’attenta protezione delle uova. E deve essere un bel lavoraccio visto che possono deporne sino a quattrocentomila… Dando la priorità ai loro doveri materni, le femmine smettono di mangiare e muoiono poco dopo la schiusa dell’ultimo uovo.
Praterie sommerse
E mentre guardate tutte queste creature straordinarie, ecco che vi girate e vi accorgete di quella immensa prateria verde e ondeggiante. Alghe, penserete… e invece no: la posidonia è una pianta a tutti gli effetti, con tanto di radici, foglie, fiori e semi.
Le praterie di posidonia sono anche e soprattutto uno dei luoghi di maggiore biodiversità del Mediterraneo. Per centinaia di specie si tratta di un vero e proprio asilo: qui trovano riparo piccoli invertebrati, come granchi, gamberi e altri tipi di crostacei, oltre a non pochi giovani pesci. Altri invertebrati, come spugne, vongole o anemoni di mare, crescono incastonati tra le foglie o nei sedimenti. E non mancano nemmeno vere alghe e microalghe, per esempio le diatomee, che crescono sulle foglie (un po’ come i licheni e il muschio crescono sugli alberi). E naturalmente questo accumulo di microrganismi attira animali più grandi. E finisce così che tra le praterie di posidonia si muovano anche tartarughe, polpi, calamari, seppie, gamberetti, granchi e tanti altri ancora.
Tra i residenti stabili, però, ce n’è uno che merita alcune parole in più: lo chiamano nacchera di mare, ma sarebbe meglio usare il suo nome scientifico, Pinna no...