Una lunga notte messicana
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Una lunga notte messicana

  1. 288 pagine
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Una lunga notte messicana

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Della valigia messicana Jamón aveva già sentito parlare. Era stata Greta, quella sua cugina piena di vita dagli occhi nerissimi e le labbra rosse come il fuoco, a raccontargli solo qualche anno prima come fosse stata trafugata dalla Spagna franchista e portata in Messico durante la Seconda guerra mondiale. Ma soltanto adesso che Greta è morta, Jamón se la ritrova davanti; è la sua eredità. Cuoio frusto, e all'interno vecchie scatole che contengono immagini rimaste invisibili agli occhi della Storia. Negativi, a migliaia, di fotografie che nessuno ha mai stampato, scatti di una guerra civile sconosciuta, firmati da chi inventò la professione di fotoreporter: l'ungherese Robert Capa, la tedesca Gerda Taro e il polacco David "Chim" Seymour. Colto alla sprovvista da quei ritagli traslucidi che sanno di polvere e lacrime, Jamón si trova di fronte a un bivio, incerto se mettere a parte il mondo di questa strabiliante testimonianza oppure continuare a proteggerne il segreto. Prenderà la sua decisione dopo avere riavvolto il nastro della vita delle tre donne che custodirono la valigia prima di lui, protagoniste fiere e determinate di un'epopea che riconduce Jamón alla lunga notte in cui l'eroismo e l'audacia di un manipolo di persone misero in salvo il prezioso materiale. Isabelle Mayault trae ispirazione da una storia vera per scrivere il suo primo, vibrante romanzo. Calandoci con trasporto e grazia in una vicenda che merita di essere conosciuta, in nome della voglia di riscatto e della libertà.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2020
ISBN
9788831800457

TERZA PARTE

Mireille Sarquis

1

La storia avrebbe potuto fermarsi qui, vale a dire nel mio armadio. E in un certo senso avrebbe dovuto fermarsi qui, ma allora non sarebbe stata una storia, ma solo una scatola che resta chiusa. Buchi nel tempo che il futuro non viene mai a colmare, come tutto ciò che è perduto. La storia in realtà continua, e mio malgrado, dopo la morte di Greta. Alcuni direbbero che comincia con lei. «Se Greta non avesse avuto quell’incidente…» è una frase che mi capita spesso di cominciare senza osare finirla, da quando lei non c’è più.
Molto presto, la sera stessa del loro arrivo in casa mia, forse, o l’indomani, il campo magnetico dei negativi ha cominciato a sprigionarsi attraverso le ante dell’armadio, che tuttavia aveva spesse porte di legno di cacao. Nei giorni che seguirono la loro adozione, sentii i negativi diffondersi nella stanza, poi in corridoio e infine nell’intero l’appartamento, fenomeno che in mancanza di un termine migliore sarei tentato di definire «presenza». Le parole di Greta mi tornavano in mente, e ciò che avevo interpretato come un comportamento irrazionale da parte di mia cugina ormai lo vedevo chiaramente, quasi la valigia mi fosse apparsa in fondo a un lago dalle acque trasparenti. All’inizio speravo che i negativi non mi avrebbero dato più fastidio del televisore acceso in una stanza, e addirittura che mi avrebbero tenuto compagnia, una sorta di animale domestico un po’ particolare, ma accadde tutto il contrario e feci sempre più fatica a dormire. O non mi addormentavo, o mi svegliavo più volte durante la notte e finivo per ascoltare la radio in attesa dell’alba. Poi dei nodi sconosciuti sono venuti ad annidarsi nella mia schiena. E così ebbi un riflesso netto, perfino drastico, di cui fui il primo a stupirmi. Non avevo mai cercato di andare via da Città del Messico, nutrendo per gli orizzonti lontani (steppe, savane, aurore boreali, capolinea ghiacciati) un’indifferenza confinante con il disprezzo, ma con la valigia scoprii quanto la voglia di fuggire può divorarti da dentro, come quella leggenda antica in cui un cucciolo di volpe rosicchia le viscere di un giovane spartano che lo aveva nascosto sotto la tunica. Ora, alla mia veneranda età, so bene che, quando fuggire appare la soluzione migliore, o perfino l’unica, forse vuol dire che per l’appunto è sconsigliato. Ma cosa si sa a ventiquattro anni, se non che si è giovani?
Oh, non andai lontano, ma si trattava comunque di una partenza, e perfino di un tentativo di sparizione. Presi una corriera per Puebla – ci volle l’arrivo di Mireille nella mia vita perché diventassi comproprietario di una macchina, e come spiegherò, ormai quel periodo me lo sono lasciato alle spalle –, deciso a sottrarmi al mondo e ai suoi spaventosi obblighi, senza dire a nessuno dove andavo né per quanto tempo partivo. Da solo nella casa rosa, che sarebbe stata per sempre la residenza dei miei nonni, sebbene non fossero più tra quelle mura già da un pezzo, se non con lo spirito, percorrevo ossessivamente i lunghi corridoi nel tentativo di elaborare strategie per eliminare i negativi. Sarebbe bastato gettarli dal ponte di una nave (una soluzione che aveva il vantaggio di essere cinematografica). O buttarli nel fuoco, in questa stessa casa, nel camino del salone fresco. Ma mentre snocciolavo le mie opzioni da delinquente alle prime armi, spuntava fuori Greta. Dapprima sotto forma di fischiettio – Greta fischiava spesso, seduta davanti alla finestra aperta, abitudine che scandalizzava i nostri nonni. L’amour est enfant de bohème, qui n’a jamais jamais connu de loi. Poi sotto forma di ricordo. Il passato formava una massa appiccicosa, una bacinella di melassa cangiante che mi faceva venire voglia di immergermici dentro, ma la corrente era troppo forte.
«Devi mettere un po’ di pepe nella tua vita, Jamón» mi aveva detto Greta all’epoca dell’ascesa della relazione con Beppe il nuotatore.
«Un po’ di pepe?» avevo detto io, e lei aveva riso.
«Tu non capisci nemmeno cosa vuol dire, mettere un po’ di pepe nella tua vita.»
L’avevo guardata e lei aveva spazzato gli angoli ottusi delle mie sopracciglia con una mano in un gesto scanzonato. Poi aveva attraversato la stanza fino al grammofono e, poco dopo, era riecheggiato il sax di Charlie Parker, frenetico, fulmineo come una bicicletta in mezzo a un concerto di clacson, di neon che lampeggiano, di gente che parla forte, il venerdì sera per le strade di Città del Messico. «Salt peanuts, salt peanuts» cantava Greta imitando il fraseggio del jazzista. Altri giorni, al grande Charlie preferiva le ballate dei Panchos, o quelle di Antonio Machín. Nelle loro canzoni c’era, come in lei, una nostalgia che conferiva alla sensualità un colore particolare. La sentivo anche imitare, per farmi ridere, un omone americano che cantava in uno spagnolo in cui i dittonghi venivano massacrati e le R erano impacciate, quasi fossero immerse nel guacamole. «Que se quede el infinito-o-o sin est-w-ellas, o-o-o que pie-w-da el ancho ma-w su inmensidad, pe-w-o el neg-w-o de tus ojos que no mue-w-a.» Ma quel giorno, il giorno del pepe, si era voltata e aveva detto: «Un giorno capirai, Jamón» con un tono che mi pareva, lì da solo nella casa di Puebla, assolutamente crepuscolare. Alla fine avevo capito. Capivo, e bene. Tutta quella storia era luminosa come viscere attraverso cui filtrassero i raggi del sole. Greta mi aveva lasciato una pepiera. Di quelle che sono tappate – trasparenti ma tappate – e che scuotiamo col timore che la spezia venga a rovesciarsi di colpo nel piatto sotto forma di cumulo, rendendo la nostra pietanza, che non vedevamo l’ora di mangiare, immangiabile.
Quelle apparizioni avvenivano mentre erravo tra le stanze della casa rosa, chiedendomi cosa sarebbe successo a tutto ciò che contenevano quei muri ora che la loro custode principale non c’era più. Mia madre avrebbe avuto il coraggio di occuparsene? E io? Aprivo distrattamente i cassetti dal cui fondo emanavano strati di vita scomparsa, e che in alcuni casi non avevo conosciuto. Nella stanza che Greta chiamava «la mia stanza» e di cui aveva fatto ridipingere le pareti di verde smeraldo perché diceva che il verde era propizio alla creatività, entrai con passo incerto, per la prima volta da solo di fronte al comò Luigi XV e allo specchio da terra. Sul ripiano di marmo grigio del comò troneggiava un portagioie a intarsio che i genitori di Greta avevano portato dall’Egitto. Mi aspettavo di trovare, nelle incavature di legno verniciato, una collezione di orecchini colorati, invece pescai un pacchetto di Maspero, riconoscibile dalla testa di cavallo che si stagliava sullo sfondo arancione grazie a un bordino dorato. Greta le aveva prese a Buenos Aires, dove aveva girato un film, ed era diventata una fervente fumatrice di quelle sigarette, per via del loro sapore di tabacco biondo che le ricordava le erbe secche e ondeggianti della Sierra. In realtà le piacevano per la veste del pacchetto, che si abbinava ai suoi abiti e alle pochette luccicanti che stringeva sotto l’ascella nelle serate in città. Senza riflettere, infilai il pacchetto nella tasca della giacca e proseguii la mia lenta ispezione. Chi poteva impedirmelo? Dopo dieci lunghe notti insonni nella casa di Puebla, durante le quali non osai scendere al pianterreno per andare in bagno, preferendo pisciare in una bottiglia d’acqua che tenevo accanto al letto – era il mio modo di evitare i fantasmi –, decisi di ripartire per Città del Messico senza aver preso alcuna decisione in merito alla valigia. Scomparire avrebbe richiesto una certa abilità che con ogni evidenza mi mancava, e l’unica certezza che veniva a coronare quel soggiorno abbreviato era che, alla fine, non mi sarei sbarazzato dei negativi. Quando rientrai nell’appartamento di Coyoacán in cui mi ero trasferito l’anno precedente alla fine degli studi, e dove vivo ancora oggi, i negativi erano là dove li avevo lasciati, rigorosamente intatti.

2

Cinque anni dopo, la valigia mi si era quasi sedimentata dentro. Avevo accettato che diventasse un pilastro della mia esistenza, al punto da sconvolgere in modo sotterraneo tutto quello che riguardava la mia identità, ma quei sommovimenti avevano il merito di rimanere invisibili, come il tempo di invecchiamento delle cellule. Ci pensavo in maniera fluttuante. Mi bastava guardare la valigia, coperta di libri ai piedi del mio letto, per sentire la presenza dei negativi, che da molto tempo non mi impedivano più di dormire, né si infiltravano più nei corridoi stretti del mio appartamento.
Il giorno in cui conobbi Mireille partecipavo a un vernissage in compagnia di due amici. Avrei compiuto trent’anni due mesi dopo e il pensiero di non avere ancora sperimentato quella che all’epoca chiamavo «la vita comune», e che oggi chiamerei «la vita domestica», cominciava ad assillarmi. Diversi artisti di nostra conoscenza esponevano con il titolo «Natura + Futuro». Uno di loro aveva avuto l’idea di fissare una pianta in vaso a una tavola con le rotelle. Questa avanzava meccanicamente, da un punto a un altro della sala, cambiando direzione se incontrava un ostacolo. Infastidito dal fatto che quell’invenzione potesse trovare spazio in una galleria d’arte, la guardavo con occhio poco amabile quando un custode distratto lasciò aperta la porta della sala. La pianta, dotata di gambe per la prima volta in vita sua, fece quello che chiunque avrebbe fatto al posto suo: scappò. Ancora scosso dalla sorpresa, fui colpito da una risata alla mia sinistra. Quella risata era di Mireille. Mi parlò con tono amichevole, facendo le battute spiritose che ci si immagina in tali circostanze. Mi era piaciuta subito perché avevo sentito una nota anticonformista spuntare sulla superficie della sua mondanità. Siamo fuggiti dalla medesima porta della pianta, che nel frattempo era stata riportata dentro dal suo creatore. «Il problema è che la gente vuole capire» aveva detto Mireille. «Ma quando si ritrova di fronte a una persona che si limita a produrre per il suo circoletto chiuso, non si volta dall’altra parte. Lo approva. Applaude alla modernità.»
L’avrei baciata.
Non molto tempo dopo, ci baciammo.
Dal modo in cui mi chiedevo dove fosse Mireille nell’universo prima di conoscerla e com’era possibile che non ci fossimo già incontrati (magari durante l’infanzia), da come sorridevo da solo per strada per qualcosa che aveva detto, seppur senza molto senso o non particolarmente comico al di fuori della bolla che formavamo quando eravamo insieme, seppi che le cose per me avrebbero preso una piega insolita: quella della durata. Mireille Sarquis, la mia ex moglie, come si dice per convenienza, benché l’espressione non traduca le palpitazioni che il suo nome mi provoca ancora oggi, è stata difatti la mia consorte per dodici anni. Doveva il cognome a un nonno libanese, attratto come molti altri nonni libanesi dalle promettenti rive del sole azteco. Sulle prime credetti che Mireille fosse di origini greche, e fu il primo malinteso di una lunga serie. Mireille era convinta che fossi rimasto deluso dalle sue origini arabe, quando invece le avevo confidato quasi subito di non aver mai conquistato una persona tanto seducente. Mireille avrebbe potuto avere un nonno uiguro, per quanto mi riguardava, non faceva alcuna differenza. Ero fiero, paralizzato, non riuscivo a crederci. Per entrambi si trattava del primo matrimonio e, quando finì, dell’unione più lunga che entrambi avevamo avuto. Questo per dire che prima di conoscerci non sapevamo nulla delle relazioni amorose. In seguito (l’ho già precisato?), Mireille si è risposata con un produttore cinematografico specializzato in film d’azione. Ovviamente non sono stato invitato alla cerimonia. Fatta eccezione per i quattrocento presenti, sono venuto a saperlo insieme a tutti gli altri dal giornale.
Chi, nella famiglia Sarquis, aveva avuto il vezzo di trasformare la K araba in QU, alla francese? Forse lo stesso Émile Sarquis, il nonno paterno che Mireille descriveva, conformemente alla leggenda famigliare, come un giovane commerciante analfabeta arrivato al porto di Tampico su una bagnarola benedetta dal fratello prete. In realtà, Émile veniva da una famiglia borghese della regione di Tripoli che aveva accumulato e poi dilapidato in tre generazioni i benefici del commercio della seta di un avo di fine Settecento, il quale aveva fatto fortuna con i tessuti che arrivavano dall’Asia centrale tramite Aleppo. Émile non aveva ereditato castelli in Spagna, e perciò sarebbe più esatto descrivere il giovane di ventun anni sbarcato a Tampico senza parlare spagnolo come uno «squattrinato». Analfabeta no, però, sarebbe ingrato nei confronti della memoria del fratello Georges, che era riuscito a mandare l’ultimo fratello a studiare dai gesuiti il francese e la Bibbia. L’esagerazione dell’indigenza iniziale del nonno Sarquis permetteva a Mireille, e ancor di più a suo padre, Horacio, di inserirsi in una stirpe di self-made men che non doveva niente a nessuno, tranne a Dio. I «Volere è potere» di Horacio equivalevano in realtà a «Non potere è non volere abbastanza». Questo volontarismo ingannevole non sorprende considerato che Horacio aveva ereditato dai suoi la convinzione di meritare sempre di più. Nei pasti di famiglia, che dai Sarquis prendevano sempre la piega di discorsi solenni, gli piaceva descrivere il temperamento, a suo avviso rispettoso delle leggi e ammirativo del Paese di accoglienza, degli immigrati libanesi in Messico. Con la mano sul cuore, ricordava come il padre, Émile Sarquis, gli avesse giurato di amare il Messico più di qualsiasi altra cosa al mondo, e in quei momenti non potevo fare a meno di pensare a mio zio, con il quale Horacio aveva in comune la grandiloquenza patrizia, la cattiva fede e quelle ombre che danzavano in fondo agli occhi. Gabriela Sarquis sapeva essere all’altezza del suo rango con discrezione, con le mani incrociate sul tavolo e lo sguardo di ferro rivolto a Mireille se per caso osava alzare le sopracciglia. C’era in lei, come in mia zia Maria, un’eleganza sobria e il piacere di giocare alla padrona di casa; solo che, ed è una sfumatura importante, in Gabriela non ho mai percepito l’agitazione sotterranea di una libertà contrariata. Da lei emanava invece la felicità di una donna appagata di non fare niente, se non dormire fino a tardi, andare al cinema o al museo, trascorrere lunghi weekend in riva al mare. Insomma, il sogno realizzato della maggiore di nove figli, che era stata sollecitata fin da giovanissima a mandare avanti la famiglia e aveva trovato una via d’uscita per un lungo e meritato riposo. La sua sete di ozio irritava Mireille, la quale mi rimproverava il mio affetto per sua madre. Se le ero così affezionato, era perché rivedevo in lei la leggerezza della mia cara cugina Greta. Sapevo che bisognava prendere quella leggerezza sul serio e proteggerla dal mondo esterno, che tendeva a trasformare in polvere le cose delicate e inutili. Checché se ne pensi del suo metodo, Horacio Sarquis aveva talento per conquistare e accumulare. Il Messico gli era piaciuto così tanto che l’aveva ingurgitato voracemente, come un gatto con una ciotola di latte, solo che la lingua di Horacio Sarquis non aveva mai toccato la ceramica. La lingua di Sarquis era immersa nel latte. E anche sua figlia era immersa nel latte. Quell’opulenza aveva spinto Mireille verso il mondo del bello e del denaro, ovvero il mondo dell’arte contemporanea.
All’epoca godevo del riconoscimento del mio ambiente ristretto, quello delle installazioni video di Città del Messico. Per la prima volta nella mia carriera, l’uscita del mio cortometraggio Splash aveva suscitato qualche reazione. Vi apparivo inquadrato fino alle spalle, con un’espressione che voleva essere stoica per tutta la durata del film, nonostante la successione di prodotti alimentari liquidi (condimenti, latte, acqua frizzante, miele) che mani non identificate mi versavano in testa. Le mani appartenevano al mio amico Paulo, che si era divertito molto a farmi quel favore. Ogni prodotto mi scivolava sulla faccia a una velocità diversa dal precedente, creando l’effetto di dissimmetria ricercato. Le materie più solide mi si attaccavano agli zigomi e scendevano lentamente all’altezza delle ali del naso e degli angoli della bocca, mentre le più liquide colavano a tutta velocità verso la maglietta, rigorosamente bianca. Quel film e l’accoglienza che ricevette la sua proiezione al museo dell’Innocenza indussero Mireille in errore: credette di aver scovato il David Lynch messicano, forse perché non aveva visto tanti film di David Lynch quanti invece affermava, né del resto i suoi dipinti. Fu grazie al denaro del padre che Mireille aprì, a ventisette anni, una galleria d’arte in una strada trafficata del quartiere di San Ángel. La dirige ancora oggi. I soldi non avrebbero dovuto essere un problema per Mireille perché ne aveva parecchi, ma la questione restò, durante i nostri dodici anni di vita comune, un campo minato riesplorato in continuazione. E questo mi dispiaceva tanto più perché venivo da una famiglia di mani bucate, nel cui novero Greta non era certo l’ultima. «Meglio questo che farsi seppellire con il proprio oro» diceva mia cugina per giustificare le sue spese. Dal canto suo, Mireille mi rimproverava di non guadagnare abbastanza, quando in realtà non aveva bisogno di guadagnare un patrimonio per mantenere un tenore di vita di gran lunga superiore alla media nazionale, e perfino a molte medie nazionali. Non posso avercela con lei: Mireille non è l’unica donna a considerare che il marito, se proprio non può essere più ricco della moglie, debba spendere più per lei di quanto lei spenda per lui.
Tuttavia, Mireille non aveva l’indifferenza che hanno i ricchi dei Paesi ricchi nei confronti di ciò che suo padre chiamava il «popolo dei pezzenti». Per i ricchi dei Paesi ricchi, la povertà dipende spesso dalla prodezza intellettuale. Finché non si sentono tirare per la manica al mercato da bambini con le mani nere, finché delle donne incinte non vengono a vendergli fazzoletti sulle strade trafficate a fine giornata, finché degli adolescenti che sembrano aver attraversato a piedi un intero continente non buttano di forza l’acqua saponata sul loro parabrezza prima di raschiarlo con un colpo secco, nel breve intervallo in cui il semaforo resta rosso, finché degli ottantenni non guidano il taxi su cui viaggiano, finché le vittime di cancri provocati dalle loro imprese muoiono in silenzio a casa loro, possono cullare il proprio senso di colpa che, siccome sono umani, va a trovarli più spesso di quanto non vogliano ammettere. Gli cantano delle canzoncine per addormentarlo, il senso di colpa di essere potenti e di aver accumulato, di essersi ingozzati, perché la vita è breve e volevano godersela, e volevano che se la godessero anche i loro figli, non nelle stesse proporzioni ma visto che è possibile, visto che è proprio lì, come resistere al brivido di tendere la mano e arraffare un’altra manciata, e poi un’altra ancora. Gli canticchiano mio dolce, mio caro senso di colpa, tanto si servono anche gli altri, nel barattolo delle indennità, sfornano marmocchi e mettono insieme due sussidi di disoccupazione e vivono così, prosperi, a ognuno i suoi intrallazzi, in fondo. Ecco cosa si dicono i ricchi dei Paesi ricchi per dormire meglio. Mireille invece non dormiva bene perché era una ricca di un Paese povero. Come tutti in Messico, Mireille cuoceva nel brodo della violenza atavica del nostro Paese, illimitata come il wi-fi dei nostri parchi e dei nostri eleganti autobus climatizzati. Ricco o povero, sul piatto della bilancia c’era l’integrità fisica di ogni messicano. Bastava vedere quanti candidati alla presidenza erano stati assassinati dalla rivoluzione messicana alla fine degli anni Novanta, bastava contare gli omicidi, i rapimenti e gli incidenti stradali, e a questo conto salato bisognava ancora aggiungere le vittime dei terremoti e di overdose, della violenza domestica e dell’inquinamento. Mireille era consapevole del fatto che in cambio delle somme accumulate dalle due generazioni precedenti di Sarquis, su cui riposava tutta la famiglia, e il cui ingozzamento trasudava nel loro tenore di v...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una lunga notte messicana
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. TERZA PARTE
  7. Nota
  8. Copyright