A caccia di dinosauri
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A caccia di dinosauri

Scavare nel passato per scoprire il futuro del pianeta

  1. 256 pagine
  2. Italian
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A caccia di dinosauri

Scavare nel passato per scoprire il futuro del pianeta

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Perché mai, nell'epoca dell'esplosione della tecnologia, un giovane promettente dovrebbe fare il paleontologo? Quale interesse possono avere oggi ossa e tracce risalenti a milioni di anni fa? Sono domande che Federico Fanti, paleontologo e National Geographic Explorer, oltre che conduttore della trasmissione cult Il cacciatore di dinosauri, si è sentito porre molte volte. Ma la sua risposta è decisa e intrigante: scavare per capire come quelle incredibili creature - il 99, 9% di tutte le forme di vita mai esistite! - abbiano affrontato i cambiamenti che la Terra ha subìto (ere glaciali, asteroidi, collisioni tra continenti, estinzioni di massa...) può aiutarci a comprendere perché il nostro Pianeta appaia attualmente com'è e quali mutazioni lo attendano se non trasformeremo presto le nostre abitudini. Ecco perché, sotto la minaccia drammatica del riscaldamento globale, è particolarmente interessante andare a caccia di dinosauri. Conscio di ciò, Fanti ci porta per mano nelle proprie missioni raccontate con ironia e spirito d'avventura, dal Canada alla Mongolia, dall'Inghilterra alla Tunisia, sempre in scenari remoti e affascinanti. Seguendo le sue indagini sul campo, impariamo così a osservare con l'occhio dello scienziato ambienti e stratificazioni e a ridimensionare la posizione della specie umana, una fra le tante sulla Terra. Il mondo non è nostro e la paleontologia - oggi più attuale che mai - ci induce non solo ad accettarlo ma anche a adeguarci di conseguenza.

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Informazioni

VII

Il sauropode che respira come un uccello

Tunisia, 2009-2015
Credo che ci sia, nell’esistenza di ognuno, un momento che rappresenta un vero spartiacque; il passaggio irreversibile verso la vita adulta. Da quel punto in poi le regole del gioco non sono più le stesse e, guardando indietro al ragazzo che si era, ci si rende conto che nulla sarà più come prima, nel bene e nel male. Il viso nello specchio piano piano inizia a mutare e finalmente si diventa ciò che si sarà per il resto della vita.
Nel mio percorso di paleontologo (e non solo), quella svolta peculiare è cominciata nel 2009, durante il mio ultimo anno di dottorato. È avvenuta in un luogo che, nonostante ciò che poi sarebbe successo, non riesco a non portare in un cassetto segreto del cuore: la Tunisia. Là, in quella terra non mia, posso dire di aver capito come trovare dentro di me da un lato la Forza dell’ostinazione, la cosiddetta “testa dura”, dall’altra quella della rinuncia, lato opposto della medaglia e variante ancora più ardua da ottenere (ma decisamente più preziosa). Là ho capito come marciare verso un obiettivo con tutta la volontà di cui si è capaci, così come ho capito che le cose non vanno sempre come si vorrebbe e che, prima o dopo, tutti noi affrontiamo non solo vaghe paure ma nemici reali, in carne e ossa. In Tunisia, nel 2009, ho trovato davvero la Forza necessaria per diventare un cacciatore di dinosauri.
Non è un caso che abbia scritto la parola “Forza” in maiuscolo e, se si è fan della saga di Star Wars, forse si sarà già capito dove sto andando a parare. La Tunisia è stata infatti la location di molte scene ambientate su Tatooine, il pianeta natale del mitico protagonista Anakin Skywalker, e Tatooine prende il nome da una vera città tunisina, Tataouine, dove è anche stato realizzato gran parte del set di Guerre stellari e dove io ho lavorato per sei anni con l’impegno di uno Jedi, ma a caccia di dinosauri. Certo, la forza che ho ottenuto io in Tunisia è ben diversa da quella “Forza” di cui si parla nella saga; è di sicuro più prosaica e non permette di arrivare a prevedere il futuro o a sollevare oggetti, ma quando l’ho maturata è stato come sbloccare un aspetto di me che non conoscevo e che, forse, nemmeno immaginavo di avere. Ma andiamo con ordine.
Nel 2008 il professore con il quale tesserò la tela del mio percorso post-dottorato comincia una collaborazione con l’Eni. Il rapporto è finalizzato a studiare alcuni territori nel sud della Tunisia, aree che oggi sono davvero aride ma che qualche millennio fa hanno ospitato terreni così rigogliosi da poter sfamare una buona parte dell’Europa. Oggi quell’acqua preziosa si nasconde nel sottosuolo, e alcuni studiosi, mandati in avanscoperta, si sono accorti che nei punti in cui nelle profondità si è rifugiato quell’antico reticolo d’acqua, in superficie dorme qualcos’altro: fossili. I reperti riempiono, in quantità spropositate, la zona attorno alla città di Tataouine, in particolare i pendii della catena montuosa del Dahar, il confine orientale del grande Sahara. Si tratta di un territorio ampio e quasi del tutto disabitato dell’entroterra tunisino, che si estende verso sud e verso il confine con la Libia e ancora verso est per centinaia di chilometri.
Vista la mole di resti, si tratta di una sfida che pare già vinta. Almeno, in teoria.
L’anno successivo si presenta per me l’occasione del primo viaggio in Tunisia, dove farò un po’ di ordine sul potenziale di questi sperduti affioramenti. Metto in piedi una piccola squadra, insieme a due giovani dottorandi: Fulvio Franchi (che parteciperà soltanto a questa prima spedizione tunisina, e che nel giro di pochi anni diventerà un esperto di geologia extraplanetaria) e Michela Contessi (la stessa dottoranda che mi ha seguito nelle avventure turkmene, che mi seguirà in tutti gli anni di ricerca in Tunisia, e che oggi ha preso le redini del Museo di Bologna). Con loro dovrò riconoscere, catalogare e identificare quei dinosauri fermi in attesa da milioni di anni e le rocce che li contengono.
Tutto sembra molto semplice. E allora cosa c’è che non mi fa dormire? Mentre mi giro e rigiro nel letto e pianifico come organizzare i lavori, il pensiero che nessuno abbia mai scavato con attenzione tra queste montagne mi fa perdere il sonno. Prima di noi non ci sono stati paleontologi che hanno operato qui in modo sistematico e con l’intento di fare realmente e diffusamente luce sui giacimenti presenti. Quello che troveremo tra le rocce – se saremo bravi e fortunati – non sarà mai stato visto prima da occhio umano. Giustifico così questa consapevolezza che mi tende ogni nervo anche se, sotto sotto, in qualche parte di me, so che c’è qualcos’altro a cui non so dare nome. Una sorta di inquietudine.
Il nostro obiettivo di ricerca là non sarà solo quello di inventariare le ossa che affiorano dal terreno, ma anche affrontare alcuni aspetti geologici ancora in ombra.
Punto primo, come accennato, la Tunisia per quasi tutta la durata dell’Impero romano era un luogo tanto florido e ricco d’acqua da essere considerato il granaio di Roma, mentre oggi la terra è in larga parte desertica e povera di risorse. L’essenza del luogo è evidentemente cambiata, ma sta a noi capire il perché: come e quando è mutato quell’angolo del Pianeta?
Punto numero due: perché qui si sono conservati tutti questi fossili e, soprattutto, quale mondo perduto possono svelare?
Tutte le risposte risiedono in una serie di indizi che attendono di essere messi insieme, ma solo in cambio di camminate di ore sotto il sole del deserto, tempeste di sabbia che arrivano dal Sahara, ricerche nelle terre di popolazioni berbere fiere e diffidenti. Le risposte aspettano chiunque abbia voglia di incassare molti insuccessi per una sola favolosa conquista. Aspettano noi.
Il periodo che scegliamo per la spedizione (e che sarà lo stesso negli anni a venire) è ben ponderato: l’inverno, tra novembre e marzo. In questi mesi le temperature sono più miti – ben lontane dai cinquanta gradi che soffocano queste terre in estate – e il vento è clemente, scongiurando il rischio di quotidiane tempeste di sabbia che ci bloccherebbero chissà dove.
È la mia prima volta in Africa. Il nostro volo dall’Italia ci lascia a Tunisi, con la sua città vecchia affacciata sul Mediterraneo e le incredibili rovine di Cartagine, gli ulivi a perdita d’occhio e gli aranceti. Da lì ci spingiamo con altri mezzi verso sud, verso Tataouine, e siamo immersi in un paesaggio rosso e sferzato dalla furia degli elementi che ricorda più Marte che la Terra. Arrivati a Médenine, la porta d’accesso al sud della Tunisia, ancora allibiti dal panorama, scorgiamo gli antichissimi granai torreggianti che fino a quel momento avevamo visto solo in fotografia. Alte fino a cinque piani e dipinte di bianco, queste costruzioni sembrano oggi così fuori luogo, surreali. Sono edifici che, come tutti i resti del passato, sono ammantati da un denso velo di malinconia. Qui si percepisce bene l’ineluttabile procedere del tempo, e il viaggiatore viene messo di fronte all’evidenza (severa, terribile) che davvero nulla dura uguale a se stesso per sempre.
“Un tempo qui c’era così tanta abbondanza da richiedere granai così immensi” mi dico spostando con la scarpa un mucchietto di terra bruciata dal sole.
Mentre siamo qua mi rendo conto che non è affatto strano che i granai siano stati scelti come set di moltissime scene di Star Wars: questi piccoli nuclei fortificati si chiamano ksour e sono divenuti, su pellicola, le case del paese di Anakin Skywalker. Immagino che il regista George Lucas abbia deciso di non modificare troppo la natura di queste costruzioni dato che, circondate come sono da tutto questo “nulla”, creano un effetto a dir poco alienante, quasi di sospensione onirica. La sabbia, finissima e invadente, abbraccia ogni cosa.
Io e il resto della squadra avremo modo di conoscere meglio i vicoli segreti di Tataouine, che di fatto sarà il nostro campo base (ora e per molti anni a venire). I territori che dobbiamo andare a esplorare si trovano però ancora più a sud: a ovest si staglia un’enorme scarpata, estesa tanto da tagliare in due la piana della Jeffara, tra il Mediterraneo e il confine con l’Algeria, ed è lì che siamo diretti. Là ci aspetta l’avventura.
La Tunisia è un Paese che è stato molto visitato dai paleontologi nel corso dei decenni, soprattutto in epoca coloniale. È una tappa nota. Il nostro gruppo però ha a portata di mano un’occasione inedita, e non batterà strade già conosciute: il terreno di indagine sarà nei luoghi dei berberi, arroccati e non facili da raggiungere. Lavoreremo in porzioni di territorio ancora non del tutto presenti nella grande mappa dei cacciatori di dinosauri, cercando ossa e indizi geologici dove ancora nessuno si è spinto. Finora, di queste terre si aveva soltanto la vaga consapevolezza della presenza di fossili: da adesso, finalmente, avremo modo di capire quali reperti ci sono effettivamente: di che tipo, di che periodo, e in quale mondo vivevano quelle creature.
Sin dai primi giorni ci rendiamo conto che la situazione generale è propizia e tranquilla. Non solo veniamo ben accolti dalle istituzioni locali, con le quali ci accordiamo sul fatto che ogni reperto rinvenuto verrà depositato al sicuro nei musei della capitale, ma, una volta arrivati a destinazione, siamo pervasi da una ventata di “italianità” che ci fa sentire piacevolmente a casa. Veniamo infatti ospitati da una coppia di italiani che, in qualche modo, diventerà importante nella storia della paleontologia del luogo: Aldo Bacchetta e Graziella Alpicrovi. Dopo essere andati in pensione, hanno deciso di vivere per sei mesi in Italia e per sei mesi in Tunisia, innamorati dei luoghi e dello stile di vita che hanno incontrato qui. Aldo è un ex capitano di navi che non ha mai perso il gusto dell’avventura, sempre in sella al suo fuoristrada lucidissimo, ed è avvezzo a scorrazzare in ogni angolo del Paese. Graziella è un’ex benzinaia, anche lei appassionata di viaggi e attratta dai luoghi sperduti, nonché cuoca tra le più prodigiose che si possano incontrare. Come è facile immaginare, avere un campo base da Aldo e Graziella, in una vera e propria casa, rende questa spedizione decisamente più comoda sotto molti aspetti: dal comfort di una dimora con uno spirito famigliare al lusso di un’alimentazione “all’italiana” (anche se alternata con gustose pietanze locali). La missione non poteva iniziare meglio. Mi dico che quell’inquietudine senza forma che mi ammantava nel buio della notte doveva essere soltanto un po’ di ansia ingiustificata.
Nel 2009 e nel 2010 prendono piede due spedizioni, entrambe molto proficue e di buon valore scientifico. Lungo gli affioramenti rocciosi, io, Michela e Aldo e, il primo anno, anche Fulvio troviamo quintali (davvero: quintali!) di fossili di ogni tipo che raccogliamo, analizziamo e schediamo con ordine, con l’obiettivo di lasciare qualcosa di concreto e organizzato alle autorità museali tunisine.
Per un cacciatore di dinosauri, la Tunisia appare così sorprendente da andare ben oltre le stranezze del pianeta extraterrestre che ha voluto costruire George Lucas: è un infinito archivio degli esseri viventi che hanno camminato sul pianeta milioni di anni fa, un incredibile e continuo affiorare inesplorato di ossa e reperti di ogni sorta, per chilometri e chilometri. Una biblioteca del passato, dove i libri sono le rocce e dove i fossili sono una lingua sconosciuta, che attende solo di essere decifrata.
Le grandi scoperte scientifiche quasi mai seguono una trama logica. Di certo non lo è stata quella che abbiamo fatto nel 2011. Da un Paese pieno di fossili sommato a una squadra di cercatori di dinosauri risulterebbe, se di logica si trattasse, un risultato scontato. Ma il colpo di scena che darà una svolta alle nostre instancabili ricerche e che travolgerà anche la mia carriera ha come protagonista non un qualche cercatore di ossa che, sporco di sabbia, col sudore della fronte e imprecando tutto il giorno, si spacca la schiena sul terreno tunisino. No. Il protagonista di questa svolta paleontologica è seduto nei paraggi di alcuni nostri scavi e, pulito e profumato, chiacchiera con me e gli altri ragazzi. Ci sta raccontando una barzelletta. Aldo, il nostro ospite in pensione, snocciola una serie di giochi di parole, ride, ci incalza, mentre muove la gamba avanti e indietro. Ed ecco che all’ennesima battuta si rende conto che col piede ha appena colpito qualcosa che non sembra un masso come tutti gli altri. Sembra qualcosa di più… “vivo”. Aldo ha trovato un osso che fuoriesce dalla terra.
Quel giorno del 2011, quando Aldo, con un semplice coltellino, comincia a scavare attorno a quel pezzo di osso che sbuca dal terreno sabbioso come un’Excalibur, non immaginiamo di trovarci davanti al preludio di qualcosa di molto, molto più grande e importante.
Come in ogni racconto dell’assurdo che si rispetti, e come capita costantemente nella paleontologia tanto da essere divenuta una delle regole più solide e immutabili nel mio decalogo privato, anche le tempistiche di rinvenimento non possono che essere fuori asse: se si deve fare una grossa scoperta, be’, avverrà durante l’ultimo giorno di missione. E infatti, eccoci qua: abbiamo passato giorni e giorni a cercare e oggi, quando manca poco al viaggio di rientro che chiuderà le ricerche per questo inverno, abbiamo spennellato solo la punta superficiale di un grosso iceberg scientifico.
Finora abbiamo rinvenuto moltissimi fossili, è vero. Sono però solo piccoli frammenti, come parti di vertebre e frazioni di denti che, ogni sera, da quasi due anni, io e Michela inventariamo con cura nel giardino di Aldo e Graziella in ordine alfanumerico e che conserviamo negli appositi sacchetti. Facciamo questo quotidianamente perché ogni volta che si recupera un reperto fossile dal terreno è fondamentale catalogarlo: in questo modo, sin dal primo momento, ogni osso e ogni reperto hanno una propria scheda che contiene il giorno e il luogo di ritrovamento, il nome della persona che lo ha trovato e una breve identificazione. Questo ci permette di non perdere informazioni essenziali, anche dopo lunghi periodi, specialmente quando si rimettono le mani sul materiale una volta in laboratorio.
Troviamo questo tipo di reperti ovunque, sempre, per centinaia di chilometri quadrati, ed è qualcosa di snervante perché è come se qualcuno o qualcosa si fosse impegnato con costanza e perseveranza diabolica a far esplodere quelli che una volta dovevano essere molto più che frammenti, molto più che oggetti isolati.
Ma da questo momento in poi, grazie ad Aldo, tutto cambia rotta.
Dopo alcuni minuti ci rendiamo conto che il coltellino non basta. Non potrà mai essere in grado di riconsegnarci il profilo del fossile nel quale è incappato, visto che l’osso sembra spingersi molto a fondo nel terreno. Il fossile sembra non avere una fine. Prendiamo quindi gli strumenti per scavare, mentre percepisco un brivido peculiare lungo la schiena e un’eccitazione che sentirò poche altre volte nella mia vita professionale. Si capisce che stavolta è diverso. Stiamo tutti, involontariamente, zitti.
Scaviamo. Per minuti e minuti. All’osso singolo si aggiungono altre ossa, e poi ancora, e ancora: è una porzione di scheletro.
Per ore e ore sveliamo quel profilo sommerso. Non solo è uno scheletro, ma è enorme. Capiamo che quello che abbiamo trovato è un grande dinosauro, ed è integro. Vediamo molto chiaramente le ossa della schiena e quelle del bacino, poi le prime vertebre della coda, in fila come dovrebbero essere. Ci siamo. Il demone che tutto aveva rotto si era perso questo animale: il nostro. Un caso che sa di miracolo. E non è un’esagerazione, la mia, basti pensare che prima delle nostre spedizioni gli unici fossili, più o meno completi, che erano stati trovati in Tunisia consistevano in un dente e in due vertebre.
L’entusiasmo cresce insieme alla fatica, ma a un certo punto devo ordinare a tutti di fermare lo scavo: è chiaro che sottoterra c’è ancora la coda del dinosauro e che noi non ce la faremo mai a farlo emergere tutto. È ora delle decisioni drastiche, quelle “da grandi”. Valuto mille opzioni alla velocità della luce e nessuna strada conduce al terminare il lavoro. Ci sono molti punti a nostro sfavore: dobbiamo ripartire e non abbiamo mezzi e risorse per finire lo scavo. Quando torneremo in Tunisia? Non lo sappiamo. Lo scheletro sarà al sicuro, se lo abbandoniamo qua? Ne dubitiamo fortemente. Dobbiamo però fare tutto il possibile per un fossile di questa portata e quindi do il mio ordine: il poco tempo rimasto ci servirà per prelevare almeno la porzione di scheletro rinvenuta, ingessarla, e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. A caccia di dinosauri
  4. Introduzione
  5. I. Come nasce un cacciatore di dinosauri. Canada, 2003
  6. II. Il dinosauro con la cresta di gallo. Canada, 2004-2012
  7. III. Distese di fossili inesplorate. Messico, 2009
  8. IV. Sulle tracce dei dinosauri polari. Alaska, 2010
  9. V. Impronte: tante ed enormi. Turkmenistan, 2011-2012
  10. VI. I dinosauri d’opale. Australia, 2015
  11. VII. Il sauropode che respira come un uccello. Tunisia, 2009-2015
  12. VIII. Ciro, Antonio e gli altri dinosauri del Bel Paese. Italia, 2019-oggi
  13. IX. Dinosauri radioattivi. Mongolia, 2007-2018
  14. X. Dove tutto ebbe inizio. Inghilterra, 2020
  15. Ringraziamenti
  16. Copyright