Bourbon, giugno 1944
«Mani in alto, polizia tedesca» dice un giovane mingherlino in un pessimo francese. Sono in due. Alle loro spalle splende un sole accecante e nell’aria l’aroma dell’erba tagliata si mescola piacevolmente con un pungente odore di stalla. Vestono una maglietta color cachi, pantaloni verde scuro e sulla testa un berretto storto che dà loro un’aria sfrontata. Portano mitragliette britanniche Sten a tracolla. Aggiungono solo una parola, secca come un colpo di fucile: «Gestapo».
Sono le tre del pomeriggio del 12 giugno 1944, il momento in cui la mia vita cambia per sempre.
Istintivamente penso agli Alleati che sono sbarcati in Normandia sei giorni prima, ai brindisi, agli abbracci, all’allegria che ha contagiato i miei amici, ai progetti sul futuro di cui ieri sera ho parlato con Claire, una ragazza incontrata in trattoria. Aveva un ciuffo di riccioli rossi che le scendeva sulla fronte e occhi colore del muschio. L’agente magro mi pianta la bocca del mitra contro il petto mentre l’altro, più robusto e scuro di capelli, mi ammanetta.
Mi chiedo chi mi abbia tradito, forse Marcel, un operaio di Clermont-Ferrand che abita nell’appartamento adiacente al mio, un tipo smilzo, con folti capelli ramati e gli occhi come due fessure. Un paio di settimane fa i compagni della Resistenza mi hanno chiesto di consegnargli un trasmettitore radio e io ho obbedito. Ma poi ho saputo che lui ne ha parlato con la sua convivente, una ragazza polacca con i capelli color del grano, lei lo ha detto al suo parrucchiere e probabilmente la voce si è sparsa. Sono stati davvero loro a tradirmi? Non lo saprò mai.
I due perquisiscono il mio appartamento, svuotano i cassetti per terra, tagliano le fodere del divano, ma non trovano nulla. Poi sfondano la porta del vicino e lì spunta la ricetrasmittente. Quando me la mostrano sgrano gli occhi come se la vedessi per la prima volta. Dico di non saperne nulla e di non conoscere l’affittuario: «Vedo entrare e uscire una ragazza bionda che parla un cattivo francese, ma non so chi sia». Sono bravo a mentire.
Mi fanno salire su una sgangherata auto grigia e mi portano in un albergo a poche centinaia di metri, dove mi tolgono le manette e la cintura dei pantaloni. Poi mi rinchiudono in una grande stanza insieme ad altri prigionieri. Siamo una dozzina, tutti giovani e terrorizzati.
Un agente armato di mitra ci fissa uno per uno con occhi minacciosamente vacui, poi ci intima di stare seduti per terra a gambe incrociate. «Una sola parola e vi ammazzo» dice senza alzare la voce mentre ci sfiora con la canna del mitragliatore. Ho paura, sento che la mia vita è appesa al filo dei capricci di quel giovane che non mostra alcun interesse nei nostri confronti. È biondo, magrissimo, ha il viso appuntito come il muso di un criceto. Nei suoi occhi trasparenti non c’è traccia di odio, solo noia e indifferenza. Non ci uccide solo per evitare la grana di doversi liberare dei nostri corpi. Cerco di pensare ad altro. A Claire, alle lentiggini sul suo viso, alla leggerezza con cui ieri sera si muoveva tra i tavoli come una ballerina sul palco. Mi ero illuso che saremmo finiti nello stesso letto ma la mia vita ha ormai preso un’altra direzione come succede quando la pallina sfiora la rete e cambia inaspettatamente percorso. Quante volte ho perso una partita per un evento imprevisto, un bicchiere di troppo o un amore notturno che mi ha fiaccato le membra?
Bagneux, Parigi, 1991
Alex si ferma, incerto. Ha appena cominciato a scrivere e già sente sorgere i primi dubbi. Davvero era stato Marcel la causa di tutti i guai che gli erano capitati allora? Gli sembra di vederlo: ideologico, presuntuoso, arrogante, un vero duro con quel volto scavato e lo sguardo tagliente. Lui e quella donna polacca con la faccia slavata, gli occhi sfuggenti, una bellezza incolore che Alex vedeva passare davanti a casa sua ma con cui non era mai riuscito a scambiare una parola. In realtà non aveva alcuna prova che fossero loro i traditori. Forse era stato Alain, il gioviale musicista che lo aveva introdotto nella Resistenza, o Justine, l’attempata partigiana con cui aveva avuto una storia qualche tempo prima: era stata lei a consegnargli la ricetrasmittente da passare a Marcel. Ma poi entrambi – Alain e Justine – erano scomparsi. Erano fuggiti o erano stati arrestati e avevano vuotato il sacco? Non lo aveva mai saputo ma subito dopo l’arresto, quel giorno, il suo cervello aveva compiuto un’abile manomissione della realtà e aveva incolpato Marcel solo perché gli risultava istintivamente odioso.
Si alza dalla scrivania inquieto. Veste una vecchia tuta blu con i gomiti rattoppati e sul petto il suo cognome – EHRLICH – stampato in grandi lettere bianche. Prende la racchetta e lancia la pallina contro il muro, sopra una libreria interamente occupata dai suoi trofei sportivi, coppe dorate e piatti d’argento che hanno ormai perso il primitivo fulgore. Quel palleggio, lento e metodico, è un balsamo che lo aiuta a concentrarsi. È il 1o gennaio, la data del suo settantasettesimo compleanno, e la sera precedente gli amici del circolo di Le Kremlin-Bicêtre, dopo il brindisi per il nuovo anno, hanno alzato un’altra volta il calice lanciando un urrà in suo onore. Erano tutti alticci, come si conviene in un’occasione simile, e lui si era quasi commosso. Per tutta la vita aveva ripetuto come un mantra che quello era il giorno ideale per venire alla luce. Ogni volta, mentre spegneva le candeline, gli pareva che tutti i brindisi del mondo fossero dedicati a lui e il ritmo dell’umanità fosse legato in modo indissolubile ai cicli della sua vita. Quale giorno migliore per cominciare a raccontare quella storia, dopo tanti anni?
Era stato il suo amico Horowitz a chiederglielo un giorno piovoso di quell’assurdo autunno – erano trascorsi quarantasette anni! – mentre gli passava davanti, al di là del reticolato, sapendo di andare a morire. Aveva gli occhi che sembravano schizzare fuori dalle orbite, la giacca a righe bianche e nere, troppo larga per il suo corpo scheletrico: «Se sopravvivi, giurami che racconterai quello che abbiamo vissuto!» gli aveva detto. Alex glielo aveva giurato ma fino a quel momento non aveva mantenuto la promessa: troppo dolore, troppi episodi che non voleva confessare neanche a se stesso. E troppa vergogna. Perché rigirare il coltello nella piaga riesumando ricordi che per anni aveva confinato nelle stanze segrete della memoria?
Ma ormai ha deciso. Siede nuovamente alla scrivania e fissa con ansia l’Olivetti Lettera 32 che gli ha regalato Arnaldo, il suo amico italiano, per indurlo a scrivere. Afferra la bottiglia di latte appoggiata sulla destra e butta giù un sorso. Gli serve a placare l’ostinato mal di stomaco che lo tormenta da qualche tempo. Poi appoggia le mani sulla tastiera. Deve andare avanti. Ha una storia lunga da raccontare. Le immagini emergono nitide, crudeli nella loro indimenticabile ferocia.
Moulins, giugno 1944
Un paio d’ore dopo arriva un camion che ci trasporta, pigiati come sardine, alla prigione di Moulins, “La Mal Coiffée”, la spettinata, come viene chiamata per i tetti asimmetrici che spiovono in tutte le direzioni e la bizzarra disposizione dei volumi. La prima volta che l’ho vista, un paio di mesi fa, ho pensato che l’architetto dovesse essere un po’ brillo quando la progettò per i duchi di Borgogna.
Ci rinchiudono in una sala dove ci sono già una cinquantina di prigionieri, una calca in cui è difficile districarsi. Alcuni sono feriti da colpi d’arma da fuoco, altri si lamentano per le torture subite durante gli interrogatori. In un angolo c’è un ragazzo morto, in un lago di sangue, forse lo lasciano lì come monito per tutti noi. Siedo sul pavimento, a gambe incrociate. Non c’è spazio per sdraiarsi. C’è un gruppo di giovani partigiani arrestati dopo uno scontro armato, altri dicono di essere lì solo perché ebrei, altri ancora – come me – sono accusati di far parte della Resistenza. Noto un paio di partigiani che ho incrociato nelle ultime settimane. Uno è spagnolo e abita a Bourbon, ma ci scambiamo solo un’occhiata di intesa.
Rimpiango di non essere fuggito in Inghilterra. Molti miei amici, polacchi come me, lo hanno fatto, lunghe carovane di camioncini ammaccati e auto scassate dirette all’imbarco di Calais. Mi hanno proposto di unirmi a loro, mi hanno addirittura pregato di farlo ma ho sempre rifiutato con sufficienza, senza rifletterci troppo, finché non era stato più possibile. D’altra parte, quando mai ho fatto una scelta ponderata nella mia vita? Sono sempre andato avanti spinto da un cieco vitalismo, seguendo il percorso più comodo, sedotto dai successi del presente senza mai riflettere sul futuro. Stavo bene in Francia, non volevo scappare, volevo restare per dare una mano e degnavo gli amici che fuggivano dell’occhiata compassionevole che si riserva ai codardi, ai senza midollo. Non avevo capito di stare seduto su un vulcano, e comunque mi sentivo invincibile, gli echi della guerra mi erano sempre arrivati da lontano e parevano non riguardarmi. E poi i tedeschi… I tedeschi li avevo spesso battuti al tavolo da ping pong, perché non avrei potuto farmi beffe di loro anche in questa occasione?
Quando la guardia pronuncia il mio nome, appena sorta l’alba, mi pare una liberazione. Non ho chiuso occhio, rannicchiato sul pavimento di quella stanza maleodorante, gli occhi ipnotizzati dalle antiche travi sul soffitto, tra i gemiti ininterrotti dei feriti. Mi portano in un piccolo ufficio, con i muri scrostati e disadorni. L’ufficiale della Gestapo che mi accoglie è un uomo minuto, con un viso segaligno e un paio di occhi azzurri su cui mi pare di percepire un barlume di umanità. Più in là, in un angolo della stanza, c’è una donna con i capelli grigi che batte a macchina e non mi degna di uno sguardo.
«Identìficati» mi apostrofa l’ufficiale con tono burocratico, in un francese stentato. Sembra annoiato. Rispondo nel mio eccellente tedesco.
«Alex Alojzy Ehrlich. Nato il 1° gennaio 1914 a Komańcza, sui Carpazi, in Polonia.»
«Che cosa fai nella vita?»
«Sono il vice campione del mondo di tennistavolo. Ho gareggiato in quasi tutte le città della Germania e dell’Austria. Recentemente ho vinto un torneo internazionale a Sopot.»
«Oltre allo sport?»
«Lo sport è la mia vita. Faccio il maestro di ping pong e di tennis, organizzo eventi, non provo alcun interesse per la politica.»
«Eppure sei accusato di far parte di una cellula di partigiani…» Mi fissa intensamente. I suoi occhi chiari sono attraversati da una luce beffarda.
«Non sono un partigiano. Sono contro la guerra, anche se capisco che voi tedeschi siate obbligati a farla per difendervi dal comunismo che minaccia il mondo.» Quella frase spunta magicamente da un cassetto della memoria. L’ho sentita dal barbiere, in Austria, pronunciata da un azzimato cliente tedesco e mi sembra il momento giusto per riproporla.
«Tutti i francesi odiano i tedeschi e sono dalla parte dei partigiani, non c’è nulla di strano che anche tu lo sia» afferma con il tono accomodante di chi è pronto a perdonarmi.
«Non è proprio così, se posso contraddirla» rispondo cautamente. Devo ribattere colpo su colpo fino a stremarlo, come quel giorno a Praga nello scambio leggendario contro il romeno Farkas Paneth. Devo individuare i suoi punti deboli, essere più tenace di lui e fiaccare la sua resistenza, anche se sento la mia voce impastata di stanchezza. È sempre stata la stanchezza a fregarmi nella mia carriera di atleta, devo stare all’erta. «Io sono polacco e in Francia ho solo contatti superficiali. Ma per quello che ho potuto capire, solo alcuni giovani immaturi stanno dalla parte della Resistenza. E infatti a Bourbon non è successo nulla ai tedeschi…»
Il mio interlocutore mi rivolge un’occhiata sgarbata: «A Bourbon c’è il nostro quartier generale e i partigiani hanno preferito starsene tranquilli per non essere schiacciati. Altrove è successo di tutto».
«Non so altrove… Io abito a Bourbon.» Fingo un’espressione smarrita, devo convincerlo di essere lì per caso.
Lui fa una lunga pausa massaggiandosi il mento. Poi dice: «Immagino che tu conosca Quille». Si riferisce a un partigiano finito nella mia stessa retata.
«In una cittadina di duemila abitanti tutti si conoscono ma non ho alcun rapporto con lui.» È la verità.
«Sapevi che Quille è comunista?»
Rispondo di no, fingendo un’espressione sconcertata. A Bourbon tutti sanno che Quille è comunista.
«Conosci altri comunisti a Bourbon?»
«No, le ripeto, non mi interessa la politica. Non chiedo alle persone a che partito appartengano. Mi interesso solo di sport e non vedo l’ora che questa guerra finisca.»
Estrae un foglio da un cassetto e lo appoggia sul tavolo, davanti a me. Contiene un lungo elenco di cognomi polacchi.
«Conosci qualcuno?»
«Cono...