La guerra dentro
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La guerra dentro

Martha Gellhorn e il dovere della verità

  1. 288 pagine
  2. Italian
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La guerra dentro

Martha Gellhorn e il dovere della verità

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«A Martha Gellhorn», recita la dedica della prima edizione di Per chi suona la campana, il capolavoro di Ernest Hemingway. Tutto qui, un nome e un cognome: quelli della più grande corrispondente di guerra del Novecento. La donna che con Hemingway ha mosso i primi passi da giornalista sul campo, nel 1937, a Madrid sotto le bombe. Che presto è diventata più brava di lui nel mestiere di raccontare i fatti. Che lo ha amato, sposato, lasciato, in un'appassionata storia d'amore tinta di rivalità. E che per tutta la vita ha avuto una sola missione: «Andare a vedere». I reportage rigorosi e avvincenti di Gellhorn coprono i fronti più caldi del secolo breve: è stata sul confine della Finlandia durante l'invasione russa (trovando il tempo per una cena con Montanelli) e accanto alle truppe alleate a Montecassino; è stata la prima reporter donna a sbarcare sulle spiagge della Normandia e poi a entrare a Dachau liberata dagli americani. È andata in Vietnam, decisa a smascherare le menzogne della propaganda ufficiale Usa. Una carriera attraversata dalla gloria e dalla tragedia, segnata dalla solitudine delle donne indipendenti e controcorrente.Oggi le guerre sono cambiate, l'ingiustizia ha preso altre forme, ma nessuno dei problemi contro cui Martha ha passato la vita a battersi è stato risolto. Sono sempre i più poveri, a cui lei ha saputo dar voce, a pagare i conflitti militari ed economici. Sono ancora le donne, come è successo a lei, a dover faticare di più per farsi strada, in guerra come in pace. In queste pagine, che illuminano gli anni più folgoranti di Gellhorn, la sua voce si intreccia con quella di Lilli Gruber, che interpella anche altri grandi corrispondenti. Raccontando, di battaglia in battaglia, la bellezza e la responsabilità del giornalismo in un tempo che ha più che mai bisogno di verità.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831805827
1

Come ho conosciuto Martha

Ero un’adolescente quando ho «incontrato» Martha Gellhorn per la prima volta, aprendo il romanzo di Ernest Hemingway For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana). Era un periodo di innamoramento per i classici americani, nel settembre del 1970 avevo deciso di darmi alle letture in inglese, la lingua che studiavo a scuola.
Quella lapidaria dedica, «A Martha Gellhorn», mi incuriosì subito: chi era? Ma all’epoca non c’era Google a offrire rapide risposte. Solo più tardi avrei appreso che quel 1970, in cui io leggevo le opere del suo ex marito Hemingway, era stato un anno orribile per Martha. Aveva perso la madre, Edna, non solo una mamma affettuosa ma un mentore e una stella polare fin dall’infanzia. In quegli stessi mesi, aveva comprato l’appartamento in Cadogan Square, a Londra.
Ritrovai Martha anni dopo, quando ormai avevo scelto di diventare una giornalista, come lei. Era entrata giovanissima in un circolo ristretto di grandi corrispondenti di guerra della stampa americana: Ernie Pyle, Edward Murrow, William Shirer. E naturalmente Ernest Hemingway, suo marito dal 1940 al 1945. Aveva conquistato un posto di primo piano in un mondo di uomini grazie alla sua curiosità, determinazione e coraggio.
Leggendo le raccolte dei suoi articoli e lettere mi divenne familiare. Non un’amica, perché era lei a scegliere i propri amici. Non mi illudevo di poter essere accolta nel salotto che apriva ai colleghi più giovani, a Cadogan Square. Mi accontentavo di lasciarmi ispirare dalla storia della sua vita. Passata a raccontare decenni di conflitti con una costante attenzione ed empatia per le vittime civili, le donne e i bambini, i poveri e i dimenticati. E a tuonare contro l’arroganza del potere e la stupidità dei governanti. «Forse perché sono una donna» scriveva nel 1939 a Eleanor Roosevelt, la moglie del presidente degli Stati Uniti, «non riesco a non vedere la storia dal punto di vista della gente comune.»
Nel 1935, in una piccola città dell’Idaho, aveva incitato gli operai alla rivolta e si era ritrovata accusata dall’Fbi di essere una pericolosa agitatrice comunista. Per fortuna era sotto la protezione della Casa Bianca. Era stato comunque un debutto promettente per una ragazza di ventisei anni nata nella buona società di Saint Louis, in Missouri. E il resto del suo percorso avrebbe confermato la sua audacia e il suo talento. In un mondo devastato, lei ci sarebbe sempre stata: su ogni fronte da raccontare, davanti a ogni ingiustizia da riparare.
Molti anni dopo quella prima scoperta e quelle letture, in un momento in cui è più che mai importante difendere la verità e la buona informazione, ho deciso di scrivere non di lei, ma con lei: su un tempo segnato dalla tragedia della guerra e sul mestiere di raccontarla. Perciò questa non è una biografia ma un omaggio e forse, in qualche modo, un dialogo. Tra persone diverse che, in epoche diverse, condividono la responsabilità e la bellezza del giornalismo.
2

Il giorno più lungo

Londra, 14 febbraio 1998

Martha ha deciso. Una decisione che è soltanto sua. Come sempre. È ora. La giornata è stata mite e l’intero inverno è stato clemente, ma sta avanzando un fronte gelido. E se c’è una cosa che Martha odia è il freddo.
Il 1998 è un anno incerto, che fa da cerniera tra due epoche. Nel 1989 il Muro di Berlino è caduto portando un’idea di riconciliazione globale, dopo la fine della Guerra Fredda, ma quella promessa sta impiegando troppo tempo a realizzarsi e infatti non si realizzerà. Sta già tramontando la speranza di un’èra di prosperità sotto l’egida di un’unica superpotenza americana, vittoriosa e benevola. Questo finale di millennio con poche certezze e pochi punti di riferimento non è fatto per una persona come Martha, che ha sempre amato la chiarezza e le scelte nette e irrevocabili.
Nel 1998 la ragazza più famosa del mondo non è una giovane giornalista come è stata Martha, ma una stagista della Casa Bianca, Monica Lewinsky, con la quale il presidente Bill Clinton ha avuto una breve quanto «inappropriata» relazione. Monica, del tutto consenziente e astutamente consigliata, ha perfino conservato per i posteri, ma soprattutto per l’Fbi, il famoso abito macchiato di seme presidenziale. Siamo ben lontani dagli anni Trenta, quando Martha Gellhorn, nel bel mezzo di una cena ufficiale alla Casa Bianca, arringava Franklin Delano Roosevelt sulla necessità di aumentare i sussidi alle famiglie in difficoltà per la Grande Depressione, per evitare che le bambine più povere finissero a prostituirsi per un pezzo di pane.
Nel 1998, forse distratto da questioni che poco hanno a che fare con la geopolitica, Clinton si è lasciato sfuggire l’occasione di consolidare il nuovo ordine mondiale nato dopo la Guerra del Golfo, nel 1991. Gli Stati Uniti avevano allora imposto, con la forza, una soluzione al problema costituito da Saddam Hussein, il Rais iracheno. Si erano riscattati dall’umiliazione del Vietnam e avevano riaffermato il proprio potere. Per gli americani, questo successo militare ha legittimato il loro ruolo di difensori dei valori occidentali e, per loro, universali. Una legittimazione che Martha aveva conosciuto viaggiando con le truppe Usa in Europa, durante il secondo conflitto mondiale. Nei suoi reportage aveva fatto la cronaca di una guerra «giusta» pur rimanendo del tutto lucida sui suoi costi in vite umane e sofferenze; poi, nel 1945, era entrata a Dachau e l’esperienza dell’assoluta malvagità l’aveva segnata per sempre.
Nel 1998, dopo aver esplorato nei decenni vari fronti, tra cui il Vietnam, è naturale che una persona come lei provi una forte disillusione. Il mondo è cambiato e forse l’ha lasciata indietro. I Balcani si sono frantumati nel 1991 in un conflitto nel cuore dell’Europa che probabilmente ha ricordato a Martha la sua prima guerra, quella del 1937 in Spagna, preludio di una catastrofe senza precedenti. La tensione fra gli Stati Uniti e Baghdad è al culmine: Saddam Hussein chiede la cancellazione delle sanzioni internazionali che da otto anni soffocano il suo Paese, e Washington è decisa a tenerlo a bada. Gli analisti parlano di un nuovo conflitto.
L’interesse di Martha per i problemi geopolitici è intatto, ma da tempo il suo corpo la tradisce. La vista è calata al punto che a stento riesce a leggere, ha rinunciato a scrivere. Si muove con fatica, è afflitta da un tumore, le è impossibile dedicarsi alla sua grande passione, viaggiare. Come ha confidato a un amico: «Il fatto è che sono troppo vecchia. Il corpo si logora e anche la mente sembra piuttosto offuscata».
Mentre la notte cade su Londra, si sdraia nel letto, ascolta a basso volume un audiolibro. E chiude gli occhi.
3

Sola sul fronte italiano

Per la prima volta da mesi, Martha Gellhorn è tornata a volare. È la fine di ottobre del 1943 e si è imbarcata su un Clipper Pan Am, uno dei lussuosi idrovolanti che impiegano meno di due giorni per attraversare l’Atlantico. Il 29, da Lisbona, scriverà al marito che ha ballato tutta la notte, bevuto ottima vodka e si sente al settimo cielo. «Non devi pensare che non ami casa nostra» dice a quello che chiama affettuosamente «beloved bug» «ma è così divertente vedere il mondo passare sotto di te a duecentocinquanta miglia all’ora.»
Sta andando a coprire la più sanguinosa guerra di tutti i tempi e gli ha confessato che è felice di partire, «come un cavallo di fuoco». Ha aggiunto: «Come donna, e la tua donna, sono triste». Ma una giornalista come lei, per vivere, ha bisogno della realtà.
Sa che per lui le cose stanno diversamente. È uno scrittore, può anche estraniarsi dai tumulti dell’attualità e affidarsi all’immaginazione, raccontando ciò che non ha mai visto, udito né provato. Martha comincia a sospettare che questa differenza tra loro sia più determinante di quanto pensasse. È stata una guerra a unirli e un’altra potrebbe separarli.
Ma lasciare Ernest Hemingway non è una decisione da prendere a cuor leggero.
Hemingway è, a quarantaquattro anni, senza alcun dubbio uno degli scrittori americani più celebrati nel mondo. Un mostro sacro per milioni di lettori, ha saputo fare della sua stessa vita un racconto epico in cui si intrecciano combattimenti, sbronze, belle donne. E si è costruito una fama di giornalista senza paura, di valoroso inviato da cui tutte le testate dell’Occidente vorrebbero un articolo. Inoltre, Martha lo ama ancora. Però, la vita con lui non si è rivelata facile.
All’inizio del 1939 sono andati a vivere a Cuba, in una villa chiamata Finca Vigía, una proprietà che l’anno dopo hanno acquistato. Sono arrivati lì da Madrid, dove si erano innamorati durante la guerra civile di Spagna. In quelle stanze lui ha ultimato Per chi suona la campana, che ha dedicato proprio a Martha. Anche lei ha scritto un romanzo di successo, A Stricken Field. Ma non era appagata né tranquilla: voleva tornare in Europa per raccontare la Seconda guerra mondiale.
Hemingway, invece, non aveva alcuna voglia di partire. Da qualche tempo si è inventato una sua operazione bellica personale: dà la caccia ai sommergibili nazisti a bordo del suo famoso battello da pesca, il Pilar. È un piano di osservazione e segnalazione degli eventuali movimenti nemici approvato da Washington, ma alla fine non darà alcun fastidio alle imbarcazioni della flotta di Hitler che incrociano nei Caraibi. Intanto, lo scrittore beve molto, circondato dalla corte adorante dei suoi compagni di controspionaggio e di bagordi. È un uomo famoso e ricco. Per chi suona la campana, anche grazie all’adattamento per il cinema, gli ha fatto guadagnare molti soldi. Abbastanza per il costoso divorzio dalla seconda moglie Pauline. E per alimentare, con gli eccessi, la propria leggenda.
Per Martha, la quotidianità nella villa cubana è diventata rapidamente troppo faticosa. Non si trova a suo agio nei panni di moglie costretta a occuparsi della gestione della casa. In una lettera alla sua amica Eleanor Roosevelt, pochi mesi prima, ha definito il matrimonio «anche una brutalizzazione». Sa che i momenti perduti non tornano mai più. Ed essere testimone di un conflitto da cui dipende il futuro del mondo è un’occasione irripetibile. Non intende rinunciarvi per paura di rompere un equilibrio di coppia: per lei non ci può essere amore senza indipendenza. «Devo vivere a modo mio, non solo a modo tuo, o non ci sarebbe nessuna me per amarti. Non ti piacerei davvero, se costruissi un bel muro alto di pietra intorno alla finca e mi mettessi lì seduta» scriverà a Ernest.
Così, a settembre è andata a New York. Ha contattato la redazione di «Collier’s», la rivista per cui scrive e tra le cui firme più prestigiose c’è anche Hemingway, un settimanale americano di primo piano con una tiratura di oltre due milioni e mezzo di copie. Ha pranzato con il direttore Charles Colebaugh e lui le ha dato il semaforo verde per l’Europa.
Martha Gellhorn ha trentacinque anni e ha già raggiunto la notorietà, non solo come moglie di uno degli uomini più famosi del pianeta, ma come grande reporter. Il suo talento è riconosciuto sulle due sponde dell’Atlantico. È intelligente, bella, impavida, decisa, desiderata. Una donna che colpisce al primo sguardo: alta, con una folta chioma bionda e lunghe gambe, è capace di marciare nel fango per chilometri, indomita sotto le bombe.
E ora finalmente si è staccata da terra, dalla routine, dalla gabbia domestica. Sta sfrecciando sul Clipper, felice, restituita a se stessa.
Arrivata a Londra, Martha prende alloggio all’Hotel Dorchester. È uno dei palazzi rimasti in piedi nonostante i martellanti bombardamenti che la Luftwaffe ha scatenato sulla città durante la Battaglia d’Inghilterra, tra luglio e ottobre del 1940. Costruito in acciaio e cemento armato, ha subìto meno danni di altri alberghi di lusso come il Landham o il Carlton. La capitale britannica, devastata dagli ordigni nazisti, è il centro nevralgico dello sforzo bellico alleato. È qui che si disegnano le grandi strategie, che si prendono le decisioni importanti, che si tessono gli intrighi. E che si prepara in gran segreto quello che, secondo tutti, sarà il colpo di grazia al Terzo Reich: lo sbarco in Normandia. Ma Londra è troppo lontana dal teatro dell’azione. E Martha andrà nel punto più caldo di questa fase della guerra: l’Italia.
Negli anni ha capito e dimostrato con tenacia che il segreto del grande reporter è essere sul posto. Sa che, se rimanesse a Londra, potrebbe fare al massimo la «giornalista da poltrona», e come dirà lei stessa non vuole diventare una «corrispondente dal Dorchester», invece che dal fronte. Non può restare a guardare dall’albergo la distruzione dell’Europa e la morte di migliaia di innocenti.
Così, usa i suoi tanti contatti, il suo fiuto per la notizia e l’istinto per i luoghi pericolosi, per giungere in modo rocambolesco a Napoli, passando per Algeri.
Quando arriva in Italia, nel gennaio del 1944, è già una veterana. Ha scritto sulla guerra civile in Spagna nel 1937-1938 e su un conflitto trascurato ma importante come quello in Finlandia, nel dicembre del 1939. Nel marzo del 1941 è stata in Cina, sempre come inviata di «Collier’s», e ha percorso il Paese in aereo, in barca, a cavallo e a piedi per raggiungere la linea del fronte con il Giappone. Poi, gli Stati Uniti hanno deciso di intervenire dopo il devastante attacco aereo di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Ora questa guerra è davvero mondiale.
Gellhorn sostiene di essere diventata «un registratore che cammina e che ha gli occhi»: una definizione con un fondo di verità, ma che non rende giustizia alla sua bravura. È vero, infatti, che riporta sempre fedelmente ciò che vede e sente. Ma la sua sfida, ogni volta vinta, è tradurlo in articoli tanto avvincenti quanto accurati. La stessa sfida con cui si confronta ogni inviato, che sia della stampa, della radio o della televisione, quando si impegna a catturare una realtà complessa e a farla vivere in un racconto comprensibile al vasto pubblico.
Martha Gellhorn rimarrà nella Storia come una dei migliori giornalisti di tutti i tempi. Il suo marchio di fabbrica sono le frasi brevi e d’effetto, cesellate alla perfezione e unite per creare una rappresentazione impeccabile dei fatti. La ricchezza e la precisione della sua scelta lessicale sono impressionanti. Il ritmo della sua scrittura è serrato. E sa usare i personaggi reali e le loro parole per costruire ogni pezzo in modo raffinato, con profondità psicologica e veri colpi di scena.
È con il bagaglio di questa capacità giornalistica e narrativa che a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La guerra dentro
  4. 1. Come ho conosciuto Martha
  5. 2. Il giorno più lungo
  6. 3. Sola sul fronte italiano
  7. 4. Gellhorn-Hemingway 1-0
  8. 5. Nuotare sotto le bombe
  9. 6. Guardare negli occhi l’orrore
  10. 7. Embedded con James
  11. 8. I mostri di Norimberga
  12. 9. Sarajevo, due donne in prima linea
  13. 10. Mi chiamo Hemingway, Ernest Hemingway
  14. 11. Il battesimo del fuoco
  15. 12. La tragicomica luna di miele in Cina
  16. 13. Jacques, il mio uomo a Beirut
  17. 14. Primi peccati a Parigi
  18. 15. La Grande Ingiustizia
  19. 16. Vietnam, l’ultima guerra di Martha
  20. 17. Fine guerra mai
  21. 18. Iraq: le bugie costano care
  22. Conclusione. Martha, goodnight and good luck
  23. Bibliografia
  24. Ringraziamenti
  25. Copyright