L’uomo indossava un lungo cappotto blu, rigido e pulito, con bottoni d’ottone, una svastica rossa e delle mostrine, che come appresi in seguito ne indicavano il rango nelle Schutzstaffel o SS, una delle unità paramilitari del Partito nazista tedesco. Occhi azzurri socchiusi e fronte aggrottata, l’uomo stava indicando me.
Ero in marcia con gli adulti diretto alla fabbrica di munizioni di Skarvysko-Kamienna. La fabbrica si chiamava Hugo Schneider Aktiengesellschaft Metallwarenfabrik, ma per tutti era semplicemente la HASAG.
Era lì che lavoravo, insieme a migliaia di altri ebrei. Eravamo tutti schiavi. Nessuno di noi veniva pagato. Il mio compito consisteva nell’imprimere le iniziali FES sulle granate destinate alla Wehrmacht. Potevo arrivare a siglare fino a tremiladuecento granate nelle dodici ore di turno che facevo sei giorni su sette. Quando iniziai alla HASAG avevo undici anni. Era il 1942. Nei primi mesi il lavoro fu così massacrante che mi scorticai la pelle delle mani fino a sanguinare. Ma sapevo che se mi fossi fermato – lo avevo già visto fare dai nazisti e dai soldati di altri eserciti che lavoravano per loro – sarei stato fucilato sul posto. Continuai a lavorare, finché le ferite divennero calli duri come il cuoio.
Di solito ero assegnato al turno di giorno, che iniziava alle sette del mattino, ma ogni tanto mi toccava quello di notte.
In marcia con gli uomini del mio turno, tentai di sollevare al massimo le ginocchia nella speranza di far capire alla SS che ero in buona salute. Ma quello mi fece comunque segno di uscire dai ranghi gridando «Raus!». A ben vedere, il tedesco non era una lingua molto diversa dallo yiddish, che parlavo in famiglia. Quando iniziai alla HASAG ne conoscevo qualche parola; alla fine della guerra lo parlavo fluentemente.
Con un groppo in gola, obbedii all’ordine. La SS si diresse verso di me e si fermò così vicino da soffiarmi in faccia il suo respiro caldo e appiccicoso. Sentii l’odore di uova e cipolle della sua colazione quando si chinò per urlarmi di nuovo: «Raus!». Poi mi fece ruotare su me stesso e mi piantò il calcio del fucile tra le scapole. «Marsch» ordinò.
Chiusi gli occhi con tutte le mie forze, perché sapevo perfettamente dove mi stava portando: all’autocarro in sosta fuori dal cancello di accesso alle baracche in cui ci rinchiudevano quando non lavoravamo.
Sapevo anche perché aveva scelto proprio me. Per un paio di settimane ero stato semincosciente, in preda ai sudori freddi del tifo. Quando la febbre era passata e avevo scoperto di essere ancora vivo, sospettai che uno degli uomini nelle baracche, forse il macellaio kosher amico di mio padre, mi avesse tenuto nascosto sotto la paglia e mi avesse dato da bere. Infatti, alle sette del mattino e alle sette di sera, quando quelli del turno di notte e quelli del turno di giorno si davano il cambio, passavano le guardie lituane agli ordini dei nazisti per assicurarsi che nelle baracche non ci fosse nessuno nascosto o malato. Non so come, non si erano accorte di me.
Arrivato all’autocarro, aprii gli occhi.
«Eccone un altro» abbaiò la SS agli uomini che stavano di guardia al mezzo. Poi mi ordinò di salire sul pianale.
A bordo c’era una ventina di uomini, scheletrici, con la pelle bluastra per la malnutrizione, molti con il volto coperto dalle croste lasciate da una delle varie malattie che imperversavano tra le baracche con la stessa veemenza con cui il fiume Kamienna attraversava la mia città natale. Alcuni uomini avevano la pelle gialla: erano addetti alla lavorazione dell’acido picrico, un materiale esplosivo affine al tritolo. L’acido conferiva una colorazione gialla alla loro pelle e ai loro occhi, e finiva per distruggerne i reni.
Sapevo che ci stavano portando nei boschi per ucciderci. Prima, però, avremmo dovuto scavarci la fossa con le nostre mani.
«Un altro ratto» sentii dire a una delle guardie.
«Cibo per i vermi.»
Avvertii un rivolo di urina colarmi lungo la gamba.
Sapevo di aver corso un rischio tornando al lavoro ancora pallido e debole. Ma se non l’avessi fatto, la mia assenza sarebbe stata notata.
Quando mio fratello Abram lavorava alla HASAG con me, prima dell’appello mattutino mi pizzicava le guance per darmi un’aria più sana e mi infilava pezzi di cartone dentro le scarpe per farmi sembrare più alto e grande. In realtà, ai nazisti non piaceva che i bambini lavorassero, e ne mandavano via molti, probabilmente a morire.
Seduto in fondo al pianale dell’autocarro, mi persi con lo sguardo prima sulle baracche – oblunghe, grigie e nere – e poi sul cielo che le sovrastava, in movimento come un filo di fumo. Una nuvola che viaggiava più veloce delle altre catturò la mia attenzione. Era come un’isola in mezzo a un mare in tempesta. Di colpo, il violento tremore che mi scuoteva dal profondo delle ossa cessò.
Vidi una luce, sembravano i raggi del sole – cosa impossibile in quella giornata, a ripensarci con il senno di poi.
Allora mi sentii avvolgere come da una coperta morbida, che portava con sé una calma, una leggerezza che non provavo da tre anni, da quando i tedeschi si erano avventati sulla Polonia occupandola, facendola loro.
Stavo per morire, ma all’improvviso non aveva importanza.
Cominciai a ricordare cose che avevo dimenticato da quando lavoravo alla HASAG: mia madre che mi cantava Mayn Shtetele Belz, mio padre in sinagoga che mi avvolgeva nel suo tallìt, lo scialle di preghiera, le partite di calcio con i miei fratelli. Sentii perfino la voce di mia sorella Leah assicurarmi che ci saremmo rivisti.
La solitaria nuvola scura si trasformò in un paio di ali. «Azrael» mormorai. Sentii Azrael, l’angelo che trasporta le anime in cielo, stringermi a sé con grande dolcezza. Ero inondato da ricordi d’amore che, lo sapevo, sarebbero venuti con me ovunque fossi andato.
Non mi tenevo più aggrappato alla vita.
Sentivo un tintinnio mistico, di sonagli a vento e minuscole campanelle, e perfino un coro di voci.
Buttai fuori l’aria dai polmoni, consapevole che il respiro mi stava lasciando. Mi trovavo in uno stato di tale grazia e meraviglia che sulle prime non mi accorsi della mano forte che mi afferrava per il colletto della giacca.
Qualcuno mi stava sollevando dal pianale dell’autocarro.
Il tedesco, quello che veniva spesso alla HASAG a supervisionare gli operai-schiavi ebrei, quello che doveva ricoprire una posizione elevata nel Partito nazista, perché al suo passaggio i tedeschi si mettevano sull’attenti, battevano i tacchi, gli rivolgevano il saluto militare e gridavano «Heil Hitler», era lui che mi stava portando via dall’autocarro. Quando in visita alla fabbrica c’era qualche suo compatriota dalla Germania, era solito esibirmi e commentare la mia rapidità ed efficienza. Ora stava urlando alla SS con il fucile che ero troppo prezioso, che lavoravo più veloce di due uomini adulti messi insieme. Mi serviva solo un po’ di tempo per rimettermi. Dovevo essere salvato.
La dolce melodia cessò, mia madre e mio padre sparirono.
Anche Azrael era scomparso, e il cielo plumbeo sputava pioggia.
Il treno si fermò di colpo, svegliandomi bruscamente.
Mi sfregai gli occhi e guardai fuori dal finestrino. Le nuvole scivolavano davanti ai raggi del sole, proiettando lunghe ombre sui campi di grano che sembravano infiniti. Avevo la mano sinistra intorpidita per averla tenuta sotto la coscia. Sgranchii le dita e mi allungai a sbloccare il gancio che chiudeva il finestrino. Abram «Abe» Chapnik, seduto di fronte a me, balzò in piedi, ed entrambi ci sporgemmo fuori a respirare l’aria fresca della Francia.
Ascoltammo in silenzio il richiamo mattutino dei passeri, un corvo che gracchiava in lontananza, le vacche che si chiamavano a vicenda.
Chiusi gli occhi e alzai il viso al cielo.
«Guarda. Ehi, guarda!» gridò Abe, e mi tirò un calcio forte alla caviglia.
«Ahia» strillai, spalancando gli occhi di colpo.
D’istinto strinsi i pugni, pronto a colpire.
L’ultima volta che avevo sferrato un cazzotto ad Abe era stato nel campo di concentramento di Buchenwald, ai primi respiri della primavera. Di notte, un vento tagliente si insinuava tra le fessure nelle pareti delle baracche. Sopra di noi si sentivano i sibili degli aerei. «Aerei da guerra americani» sussurrò Yakov Nikivirov, noto anche come Jakow Goftman. Jakow si esibiva al circo di Mosca o al teatro Bol’šoj – non mi entrava mai in testa in quale dei due – e aveva preso me e Abe sotto la sua ala. Il giorno prima ci aveva detto: «Gli americani sono vicini e stanno bombardando Weimar». Alcuni membri della resistenza clandestina di Buchenwald, aveva proseguito, si erano arrampicati sui tetti delle baracche più imboscate del campo e avevano scritto «SOS» con dei piatti bianchi sottratti ai nazisti per a...